Restare è un nuovo modo si stare al mondo, è abitare i luoghi per re-imparare a fare musica, teatro, letteratura, venire a patto con la “natura” e con gli altri. Ma restare non basta, scrive Vito Teti, può essere controproducente, se non si afferma una cultura e una pratica oppositiva. “La restanza è una scelta politica, sovversiva, in controtendenza, antiliberista, contro logiche capitalistiche… Guardatevi intorno, nei paesi calabresi, nelle città siciliane e pugliesi, nelle aree interne dell’Appennino e delle Alpi e vi accorgerete che, anche se sarà difficile, qualche luce appare all’orizzonte, in fondo alle montagne e ai boschi, nei vicoli deserti, tra i giovani che cantano e costruiscono… Siamo messi, come in tutte le epoche critiche di passaggio, si pensi alla Resistenza, dinnanzi alla scelta. Chi sceglie di restare deve essere consapevole, convinto, deciso, che sta compiendo una rivoluzione…”

Restare è una scelta rivoluzionaria. Restare non ha senso se non sovvertiamo lo stato delle cose, se non riguadagniamo allo sguardo i nostri luoghi, se non li riguardiamo con cura e prospettiva etica, se non siamo capace di “difenderli” da quei locali che vogliono desertificarli.
Fin da quando, nel 2011, ho adoperato il termine “restanza” (ma del restare mi occupavo fin dai miei scritti giovanili e nei miei libri sull’emigrazione) ho sempre sostenuto – suscitando generose adesioni e anche sterili e nascoste, celate, riserve – e ho precisato che restare è una scelta etica, un diritto, un nuovo modo si stare al mondo, un senso dell’abitare, una ricerca di appaesamento, che riguarda, anche, se non soprattutto, quelli che sono andati via, che tornano, sono a “mezza parete”, sospesi, hanno il “cuore in mezzo a due pensieri”, vanno e vengono, camminano, cercano. Abitano piccoli villaggi, paesi, periferie, città, banlieu, luoghi di “fine terra”.
In questi ultimi anni, e da ultimo pensando alle vicende diverse di figure come Luigi Lombardi Satriani, Mimmo Lucano, Nuccio Ordine, Franco Piperno e, adesso, a Dario Brunori, con il suo restare che rivendica e carica di senso nuovo, e, naturalmente, pensando a giovani, ad amici artisti, poeti, scrittori che restano, ad associazioni, gruppi, musicisti, produttori, cercatori di memorie e di rovine, di paesaggi, di pane, di cibi perduti, di grani e di scirubette, sono sempre più convinto che restare non può che essere un atto sovversivo, liberatorio, il diritto a un luogo in cui produrre, fare musica, teatro, letteratura, venire a patto con la “natura”, con gli animali, con gli altri.
Non è comodo restare: si scontano incomprensioni, a volte aggressioni, calunnie, invidie. Bisogna fare i conti con il dolore, la tristezza, il tempo che passa, le morti, lo spaesamento, la nostalgia, l’inquietudine, la tentazione di andare via. La restanza è una scelta politica, sovversiva, in controtendenza, antiliberista, contro logiche capitalistiche. Bisogna portare alle estreme conseguenze questa nuova filosofia, questo desiderio di non disertificare il Sud, di potere scegliere se restare e andare. Se qualcuno continua a pensare che la “restanza” sia una scelta comoda, leggera, localistica, rassegnata, folkloristica, interessata, non sta parlando della mia posizione, da un’etica del fare e dal mutamento.
Lo dico più chiaramente, esplicitamente. Restare non basta, può essere controproducente, se non si afferma una cultura e una pratica oppositiva, se non ci si appropria dei valori, dei paesaggi, del vuoto, delle bellezze in cui viviamo. Restare significa essere teneri, garbati, amorevoli, senza però cedere e fare compromessi con il potere. Restare significa scrutare le nostre ombre, riconoscerle, ma alzare lo sguardo verso la luce e verso il Cielo. Significa affermare un’antropologia che bandisca finalmente campanilismi, conflitti, rancori, separazioni, maldicenze gratuiti. Chi ad esempio resta per consegnare, senza accorgersene, la Calabria alla malapolitica, alla mafie, ai retori, ai loro pifferai più o meno occulti, compie l’ennesimo, l’ultimo, tradimento nei confronti della propria terra.
Diciamo la verità, molte ragazze, tanti giovani, pur volendo restare e mostrare la loro voglia e capacità di fare nei luoghi in cui sono nati e che amano, finiscono con il partire, con il fuggire, sapendo che non potranno più tornare. Fuggono perché non hanno lavoro, perché non ci sono scuole, ospedali, musei, centri sociali, perché non vogliono passare il tempo seduti in macchina, aspettando che qualche “potente” offra loro, rendendoli prigionieri, un lavoro sottopagato e mortificante. Diciamolo. Molti paesi si svuotano perché molti giovani, cresciuti con nuovi saperi, con internet, in dialogo con il mondo esterno, trovano intollerabile “dipendere” da “policanti”, corrotti e da mafie. Ho sentito migliaia di giovani che vanno via perché “qui” comanda la mafia, esistono complicità collusioni più impensate e più occulte. Tanti paesi calabresi – sappiamo che l’esodo è un processo complesso, dei lunga durata, voluto anche dai ricchi del Nord e del Sud, hanno “chiuso” per mafia, per faida, perché diventati irrespirabili. In questo contesto, per quelli che resistono, restare non è una passeggiata, è un camminare lento e a piede fermo, richiede un’etica del viandante capace di cercare nuove strade, di abbandonare percorsi già battuti e fallimentari, di sentirsi parte di processi locali e di fenomeni globali. Restare è stare con, assieme, in comunione, con tutti quelli che vogliono cambiare le cose, con gli ultimi, con i partiti, con i migranti. Significa amare la propria terra, fare rivivere la Terra (Gaia), essere orgogliosi della propria “tradizione” mobile, aperta, dinamica, rifuggire da un “noi” che esclude sempre gli altri, che dà la colpa al forestiero e allo straniero, che ci autoassolve e assolve un ceto politico dirigente, una élite, anche intellettuale, sempre pronta a percorrere la via della lamentela, della rivendicazione gratuita, senza avere in mente un progetto, un’idea di cambiamento, una visione di futuro.
Tutta questa “filosofia” e prassi non sono utopie e sogni campati in aria: guardatevi intorno, nei paesi calabresi, nelle città siciliane e pugliesi, nelle aree interne dell’Appennino e delle Alpi e vi accorgerete che, anche se sarà difficile, qualche luce appare all’orizzonte, in fondo alle montagne e ai boschi, nei vicoli deserti, tra i giovani che cantano e costruiscono. Ancora una volta, dobbiamo decidere, come diceva Costabile, non dobbiamo raccontarci favole e menzogne. Una sottile linea d’ombra separa rettorica da persuasione, poesia da miseria, apertura da chiusura, etica da moralismo. Siamo messi, come in tutte le epoche critiche di passaggio, si pensi alla Resistenza, dinnanzi alla scelta. Chi sceglie di restare deve essere consapevole, convinto, deciso, che sta compiendo una rivoluzione.
Tra gli ultimi libri di Vito Teti Pietre di pane. Un’antropologia del restare (Quodlibet). Altri suoi articoli sono leggibili qui.
Bene, ci sto con Teti. E’ un combattente, un resisten-te, infonde fiducia e spe-ranza. Non voglio aprire liturgie della lamentela, ma sarebbe opportuno documentare esperienze di comunità che resisto-no allo spopolamento in modo pianificato, non su progetti. Certamente ce ne saranno….grazie.