
Venerdì 17 novembre abbiamo partecipato a una bella serata promossa a Garbatella, a Roma, dedicata al libro Quarant’anni contro il lavoro (DeriveApprodi) di Franco Berardi Bifo. L’intervento* di Bifo è stato intenso e divertente, a tratti spiazzante, mai banale. Ha ragionato prima di tutto di amicizia e di ironia, ma anche di movimenti culturali del Novecento e di estetica, di sofferenza, di eroina e dell’internazionalismo perduto. E pure di un improbabile funerale. Ascoltandolo (il video della serata è qui) ci siamo ricordati di uno dei testi più brillanti raccolti nel libro, di cui pubblichiamo ampi stralci. Uno splendido invito all’azione ma anche alla non azione per liberarsi dell’ossessione della competitività che genera ovunque aggressività, a sottrarsi e contemporaneamente creare comunità.
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di Franco Berardi Bifo
Suggerimenti terapeutici
Vorrei (…) proporre alcune linee di terapia per l’irrigidimento autoritario che sta producendo fascismo, nazismo, autoritarismo, guerra. Non sono sicuro, in verità, che possiamo curare questa malattia su scala generale, opponendo allopaticamente valori e comportamenti ad altri valori e comportamenti. La cura non potrà che essere secessiva, contagiosa e omeopatica.
Secessiva: occorre che il medico curi se stesso sperimentando su di sé modelli di comportamento curativi. Per non subire l’umore dominante occorre non entrare in un gioco oppositivo. Occorre cioè che le comunità libertarie non pretendano di governare l’insieme sociale, né di elaborare programmi generali, ma preferiscano costituirsi come punti di irradiazione di una regola felice possibile, e contagiosa. Contagiosa significa capace di comunicazione e di esempio, capace di modificare le altre cellule per imitazione e non per imposizione.
Omeopatica, infine, deve essere la cura, perché dovrà assecondare il male piuttosto che contrastarlo, e dirigerne le dinamiche verso la dissoluzione del suo nucleo rigido, della sua identità ossessionante.
Toccare
Come dice Badinter, la crisi dell’identità maschile resta l’unica porta aperta a una possibilità di salvezza dell’umano, in questa fine di millennio. La femminilizzazione consiste essenzialmente nella rinuncia al principio di autodisciplina che l’uomo impone a se stesso (e agli altri) per poter divenire uomo (nel senso di vir). La femminilizzazione comporta inoltre uno spostamento dell’energia erotica dal bisogno di penetrazione verso il desiderio di contatto carezzevole.
All’origine della psicosi fascista c’è paura disperata del contatto. Toccarsi, toccare, accarezzare l’interlocutore in qualsiasi situazione sociale, professionale: questa è la premessa di una riduzione dell’ansia, dell’aggressività. Non si tratta affatto di uno scherzo, né di una metafora. L’etichetta della relazione sociale vieta il toccamento perché essa è istituita secondo le regole prossemiche maschili, e secondo le regole dell’organizzazione gerarchica. Dovremmo avere il coraggio di istituire un’etica del toccamento.
Rallentare
Tutti questi discorsi non portano molto lontano, se non teniamo conto del fatto che l’ossessione fondamentale della civiltà capitalistica è la produttività, l’accelerazione dei ritmi, l’ossessione competitiva. La competizione genera aggressività, lo stress provoca irrigidimento caratteriale e dunque fascismo. Una terapia della malattia di cui stiamo parlando deve necessariamente passare attraverso un rallentamento del ritmo.
Occorre una propaganda capillare e ininterrotta dell’antiproduttivismo, una pratica esemplare dell’assenteismo, un boicottaggio felice delle procedure lavorative oppressive, una ridicolizzazione del culto economicista.
Occorre una campagna culturale e politica per la riduzione generale dell’orario di lavoro, per la riduzione del tempo che ciascun lavoratore dedica all’attività produttiva. Questo renderebbe possibile una maggior cura di sé, ma anche una redistribuzione del lavoro e del salario. Fin dagli anni Settanta i movimenti autonomi sostenevano la necessità di ridurre l’orario di lavoro per contrastare la disoccupazione. Oggi quell’obiettivo è diventato di bruciante attualità, anche per impedire che dalla disoccupazione germoglino nazismo e aggressività razziale. Femminilizzare la produzione sociale vorrà dire anche e in primo luogo reincorporare le funzioni di servizio entro il tessuto dell’esistenza quotidiana, entro il tessuto dell’amore, della solidarietà, dell’amicizia: restituire le funzioni produttive, che il capitale ha trasformato in lavoro ripetitivo e gerarchizzato, all’attività libera e creativa.
Godere
Non dimentichiamo che l’identificazione tra ricchezza e consumo è una delle peggiori aberrazioni prodotte dal sistema capitalistico. Cerchiamo di riflettere: che cos’è la ricchezza? Ricchezza non è la quantità di beni di cui possiamo appropriarci e che possiamo consumare, ma la qualità dell’esperienza che le cose possono suscitare in noi, il godimento che dall’esperienza sappiamo trarre.
Dissipare
All’origine dell’aggressività troviamo certamente la paura della dispersione, dell’invecchiamento e della morte. Il capitalismo ha assimilato la vita a una proprietà, perciò siamo portati a difendere la vita come se fosse una nostra proprietà. L’istinto naturale di conservazione viene così sostituito e sovradeterminato culturalmente dal terrore del fluire. Occorre educarci al godimento del fluire, a vivere l’erotismo come piacere del decomporsi, come resa felice all’indistinzione, come perdita orgasmica del confine tra sé e l’altro (e anche la morte è questa perdita, questo dissolversi del confine tra sé e l’altro).
Perdersi piangere e navigare
La pretesa di dominare il corso storico e naturale degli eventi è all’origine di questo irrigidimento del quale vediamo le manifestazioni. Questa pretesa di dominio e di riduzione diviene tanto più impotente e tanto più aggressiva quanto più si complica e si infittisce l’universo dei segni, cioè delle scelte da compiere. Occorre dunque sostituire la volontà di previsione, decisione, dominio, con la disponibilità alla deriva, con un principio di navigazione in cui per poter seguire la propria rotta ci si lascia trasportare dalle correnti. Nel corso della deriva si potrà deviare la rotta, si potrà piangere e talvolta anche sentirsi perduti. Ma occorre imparare a piangere, e soprattutto occorre sapersi stupire dei panorami imprevisti che si presentano quando ci sentiamo perduti.
Giocare
E per finire occorre imparare (e insegnare) a sorridere. Sorridere per comunicare armonia e disponibilità, ma soprattutto per dire che lo sappiamo bene: non si tratta che di un gioco. Le regole non sono naturali, non stanno scritte né nel dovere né nella legge né nell’origine né nella finalità storica, o religiosa. Le regole sono scritte dal linguaggio, nel piacere di coinvolgersi e di ingannarsi, di innamorarsi, di perdersi e ritrovarsi. (…)
Il punto essenziale sta proprio qui. L’autoritarismo concepisce il rapporto tra il linguaggio e il mondo come un rapporto di rispecchiamento e di istituzione disciplinare. Il linguaggio descrive il mondo secondo i suoi propri princîpi, esaurendolo conoscitivamente e svelandone le leggi, dopodiché istituisce altre leggi e le impone al mondo con tutte le armi (non solo linguistiche) di cui l’uomo dispone. L’ironia concepisce il linguaggio come un gioco che, pur nato nel mondo, segue la curva singolare dell’esistenza di chi enuncia, di chi parla, di chi gioca. E il linguaggio proietta mondi che vivono in sospensione, e si realizzano soltanto nel gioco leggero della comunicazione. Scopo (felice) del linguaggio non sarà allora l’imposizione (impossibile) di un ordine (pesante) del mondo, ma la creazione di un’armonia (leggera e possibile) tra deriva e singolare e gioco cosmico.
Come agire?
Piccole comunità in fuga, questa è l’idea che io propongo per il futuro. La fuga, non lo si dimentichi, non è affatto un comportamento vile. Chi ha paura di fuggire è pericoloso per sé e per gli altri, perché la paura della fuga produce l’irrigidimento aggressivo e idiota proprio dei Rudi.
Fuggire, allontanarsi, sottrarsi, e contemporaneamente creare comunità. Comunità senza territorio, dunque nomadi. Comunità senza appartenenza, dunque elettive. Quando una comunità sta fuggendo è del tutto insensato che essa mostri i denti, che agiti i pugni e prometta vendette. L’odio e la rudezza sono quanto di più imbecille ci sia per chi voglia fuggire produttivamente, e nella fuga aprire prospettive al futuro, e nella sottrazione creare modelli più umani di cultura e di vita. Siamo gente che sta fuggendo, e dunque la tenerezza sia nostra compagna di viaggio. La disponibilità, il rispetto per la sofferenza, la solidarietà nei confronti di tutti coloro che sono nomadi. La tenerezza, la dolcezza: questo è il valore più importante che dobbiamo ritenere dalla storia dei movimenti. Non la violenza, non la rudezza.
Io non so se sarà possibile vivere in maniera felice gli ultimi anni di questo millennio. Ma quello che so per certo è che il contributo più importante che noi possiamo dare alla sopravvivenza di un principio di umanità e di gioia consiste proprio nel predisporre le condizioni per salvare zattere di uguaglianza e di sperimentazione nel mare in tempesta. Zattere di saggezza, vorrei dire, nelle quali la ricchezza sia riscoperta come capacità di godere della vita immediata, di godere dei prodotti dell’intelligenza fuori dal dominio dell’economico.
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Ampi stralci di un testo scritto nel 1993 e raccolto in Quarant’anni contro il lavoro (a cura di Federico Campagna), edito da DeriveApprodi. Qui è possibile leggere anche il primo capitolo.
*Prima del suo intervento Bifo ha pensato un po’ a quello che chiediamo con la campagna Un mondo nuovo comincia da qui, cioè a come Comune può continuare un’esistenza più utile, più bella e più capace di raccontare quel che accade. “Bisogna soltanto aggiungere del blu elettrico o dell’argento tra i colori delle pagine di Comune”. Abbiamo cominciato da questa pagina.
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