“Oggi mi hanno detto di sparare, di ammazzare. No, non voglio colpire quelli della prima fila, quelli sono contenti di diventare martiri. Non gliela do questa soddisfazione. Voglio sparare a qualcuno che non se l’aspetta”. Racconta splendidamente la banalità del male, “Viola”, il corto di Lorenzo Marzocca (dura poco più di 5 minuti, guardatelo qui sotto) tratto dal racconto breve di Giovanna Nigi, intervistata molto opportunatamente da Patrizia Cecconi. Il cecchino sparerà alla ragazzina che corre con la kefia viola sulla testa perché quel colore non gli è mai piaciuto. Il testo di Giovanna Nigi è ispirato dalle manifestazioni palestinesi della Grande Marcia del Ritorno, cominciate al confine di Gaza il 30 marzo del 2018. La Striscia era già governata da Hamas da 12 anni, ma quella protesta, tenuta ogni venerdì per due anni, era fatta da gente inerme che non aveva alcuna bandiera di partito o fazione politica. Con tanta assurda rimozione della memoria, qualcuno oggi farà fatica a crederlo, pazienza. La risposta di Israele fu affidata ai cecchini che sparavano facendo una sorta di tiro al bersaglio mobile su chi piantava qualche erba nella terra e perfino su chi arrivava sospinto in una sedia a rotelle. Sono “entrata” nella testa di un cecchino, ho valutato tutte le sue possibilità di assoluzione per quello che non è altro che un omicidio a sangue freddo e non ho trovato che questo: l’assoluta incapacità di pensare il punto di vista dell’altro, racconta l’autrice di “Viola”. Per chi non ha tempo o voglia di rileggere la storia di un secolo intero, ma per comprendere un po’ la Palestina ed evitare di dire fesserie occorrerebbe farlo, basta perfino tornare indietro di soli cinque anni per farsi qualche idea sensata delle ragioni che sono alla base di quel che sta accadendo oggi

Fiumi di sangue palestinese, quindi poco importante, stanno bagnando la Striscia di Gaza senza che la maggior parte dei nostri opinion maker mostri almeno un decimo di quell’empatia umana che viene mostrata per altre vittime o, anche in assenza di vittime, per altre comunità semplicemente spaventate. I circa 10 mila morti palestinesi, compresi oltre 4 mila, ripetiamo QUATTROMILA bambini, vengono presentati come una notizia di routine, emotivamente meno coinvolgente di un qualunque incidente stradale, qualcosa di banale, quasi una non notizia, insomma. Banale, appunto. Come la banalità del male raccontata in un corto cinematografico diretto da Lorenzo Marzocca e interpretato da Eugenio Banella il cui titolo è “Viola”, tratto dall’omonimo racconto di Giovanna Nigi, scrittrice e attivista per i diritti umani, che abbiamo deciso di intervistare.
Buongiorno Giovanna, grazie per aver accettato quest’intervista. Tu hai scritto questo racconto nel 2018, l’anno in cui i palestinesi di Gaza, impropriamente identificati con Hamas, davano vita ai venerdì della Grande Marcia del Ritorno. C’entra qualcosa quanto avveniva durante quelle manifestazioni con il tuo racconto?
Questo racconto è nato perché ho partecipato a un concorso per il quale si doveva creare un testo il cui titolo fosse “Viola”. Ogni partecipante poteva declinare questo termine nel modo voluto. Era di maggio, e ogni venerdì al confine di Gaza persone inermi che manifestavano per i loro diritti erano prese di mira dai cecchini israeliani. Una sorta di tiro al piccione, senza alcun rischio da parte del cacciatore. È stato in uno di quei momenti, mentre gli abitanti di Gaza contavano i loro morti e feriti che mi ha attraversato la mente un pensiero: quali possono essere i criteri di scelta di un essere umano che decide di uccidere altri esseri umani a freddo? Il punto di vista del cecchino, del boia che esegue una condanna che lui stesso ha decretato. Cosa può esserci nella mente deviata di chi sceglie il male? Ho pensato ai gusti di quella persona, a come era stato educato, alle parole che gli erano state dette per condizionarlo al punto di ritenere “normale” il mestiere di uccidere esseri umani inermi. E ai suoi criteri di scelta. Perché, pensai, un cecchino deve pur avere dei criteri per scegliere chi uccidere tra le persone che osserva. Perché una e non un’altra? E lì è arrivata lei, Hannah Arendt. Si è intromessa nel mio ragionamento del cecchino, nei suoi pensieri di morte e di obbedienza con sua domanda: può una persona far del male senza essere malvagia? Nel caso di Eichmann la Arendt dichiarò che l’uomo “non capì mai cosa stava facendo” a causa della sua “inabilità a pensare dal punto di vista di qualcun altro”. Mancanza di empatia, obbedienza agli ordini, voglia di distinguersi e fare carriera: la banalità del male.
Il tuo scritto è stato premiato e il premio è consistito nella realizzazione di un corto cinematografico tratto dal testo. Come prese la giuria il tuo racconto? Che tu sappia, l’hanno accolto tutti bene o qualcuno lo ha trovato esageratamente verosimile e quindi dannoso per l’immagine di Israele?
Ognuno dei partecipanti al premio “portava” un suo giurato che entrava a far parte della giuria di “qualità”. I racconti venivano sottoposti in forma anonima ai giurati che davano il loro voto. Tre giurati (tra cui la “mia”) scrissero che se non veniva ritirato il racconto numero 2 (il mio) sarebbero usciti dalla giuria. Io non lo ritirai, naturalmente, né pensarono minimamente di farlo gli organizzatori del premio.
Le motivazioni dei giurati che se ne andarono erano varie e fantasiose, visto che nel mio racconto non si nominano né luoghi né periodi storici specifici, né viene rivelata apertamente la provenienza del cecchino, anche se ovviamente era intuibilissima. Dissero che il racconto incitava alla violenza… un po’ la trita storia del dito e la luna … le stesse obiezioni che mi sono state fatte, quando poi il racconto ha vinto il primo premio, da compagne/i insospettabili: “Certo, non si può chiamare un contributo alla causa della pace” mi hanno detto. Il male ero io.
Cosa ti ha fatto supporre che in uno dei cecchini, preso ad esempio e quindi generalizzabile, ci fosse davvero tanta disumanità, o meglio tanta “inumanità” di fronte alle sue potenziali vittime?
Come ho detto prima, sono “entrata” nella testa di un cecchino, ho valutato tutte le sue possibilità di assoluzione per quello che non è altro che un omicidio a sangue freddo e non ho trovato che questo: l’assoluta incapacità di pensare il punto di vista dell’altro: dietro quel fazzoletto viola per lui non c’era un essere umano, con i suoi sogni e bisogni, le sue relazioni umane e i suoi sentimenti. C’era un obiettivo qualsiasi, da scegliere come si sceglie la vittima di un video game, magari per un colore che ti sta antipatico. Devo dire che il regista, Lorenzo Marzocca, è riuscito a rendere magistralmente il senso della mia scrittura realizzando un corto assolutamente aderente al messaggio che ho inteso dare. E lo ha fatto con pochissimi mezzi girando le scene nell’hinterland romano.
In questi giorni di orrendo massacro di civili palestinesi, pensi che nei militari dell’IDF ci sia odio e desiderio di vendetta, montato dopo l’azione armata del 7 ottobre, oppure che uccidere cento, mille, diecimila civili palestinesi inermi non provochi alcun sentimento, neanche di odio, ma rientri in quella “banalità del male” che nasce dalla disumanizzazione dell’avversario come per il protagonista del tuo racconto?
Credo che in questo caso una forte dose di odio animi i soldati israeliani, ma non credo vada sottovalutata quella disumanizzazione che Netanyahu, Gallant, vari ministri, ambasciatori e alti ufficiali hanno fatto crescere con le loro dichiarazioni – amplificate senza critica dai mass media – in cui definivano i palestinesi come animali da sterminare, usando un linguaggio atto a confondere il diritto a difendersi con la vendetta più crudele possibile, ma “naturale”, da farsi.
Nel tuo racconto non si percepisce “un prima” e il bravo ragazzo che uccide perché è “suo compito” non ha nulla da vendicare. In questi giorni invece sentiamo molte voci che attribuiscono alla resistenza palestinese la responsabilità di quest’eccidio perché conseguente all’azione di Hamas. Cosa rispondi a chi trova addirittura giusta quest’orrenda vendetta?

Noi commemoriamo ogni anno, in Italia, gli eccidi che hanno fatto seguito alle azioni della nostra Resistenza. Un numero esorbitante di civili veniva fucilato a fronte della vita di un solo soldato occupante. Vendette e punizioni esemplari erano i sentimenti che stavano dietro alle rappresaglie. Ma sappiamo che la Resistenza quelle azioni doveva compierle e nessun antifascista accusa la Resistenza per le rappresaglie cui spesso davano luogo. Era la lotta per la libertà. Qui mi sembra che la rappresaglia, proprio perché spaventosamente sproporzionata, venga usata al servizio di una soluzione finale di pulizia etnica a lungo perseguita. Solo se facciamo come i nostri media asserviti ci focalizziamo sul sentimento della vendetta (indegno comunque di qualsiasi Stato civile) puntando la lente su quanto accaduto il 7 ottobre. Occorre allargare il campo per avere il quadro completo di quanto sta succedendo. L’attacco della resistenza palestinese va necessariamente inserito nel contesto di una ormai quasi centenaria colonizzazione spietata che fin dagli albori del movimento sionista, a fine Ottocento, non ha fatto che perseguire un unico obiettivo: la cacciata o l’eliminazione del popolo palestinese. La cosa più raccapricciante è la mano libera e l’impunità di cui i membri di questo movimento hanno sempre goduto anche di fronte alle più atroci azioni contro gli autoctoni. È incredibile che la stessa società occidentale che pure, nel corso degli anni e in particolare alla fine della seconda guerra mondiale, delle regole di pura umanità se le era date, sia così accondiscendente verso i crimini israeliani. E non parlo solo di quello in corso, ma di oltre 75 anni di crimini impuniti. Penso alle Convenzioni di Ginevra, alle regole comportamentali verso i prigionieri di guerra, alla messa al bando della tortura e a tutto ciò che poteva consentire all’essere umano di “restare umano”. Negli eccidi di Gaza tutto è saltato e lo è perché il terreno è stato accuratamente preparato da lungo tempo. Per capirlo basti riflettere sulla caratteristica del colonialismo di insediamento, diverso da quello di sfruttamento perché ha lo scopo di eliminare gli autoctoni e di sostituirsi ad essi dando origine a nuove entità, come è stato per l’ Australia e l’ America del Nord, colonizzate dagli Inglesi o per l’Africa del sud colonizzata dagli Olandesi. Così è per la Palestina. E non è un’opinione ma sono fatti visibili a chiunque.
Giovanna, prima di salutarci e di ringraziarti ancora per questa intervista che aggiunge senso al film tratto dal tuo racconto – che, permettimi di dirlo, la giuria dissenziente aveva ben capito a quali riflessioni critiche avrebbe portato – voglio farti un’ultima domanda. Tu hai citato più volte Hannah Arendt rispetto all’analisi della banalità del male, ma pensi che la Arendt avesse chiaro già allora cosa sarebbe diventato lo Stato ebraico?
Hannah Arendt , insieme ad altri ventisette intellettuali ebrei, fra cui Albert Einstein, scriveva, in una lettera al New York Times, a proposito di Menachem Begin,: “Le confessioni pubbliche del sig. Begin non sono utili per capire il suo vero carattere. Oggi parla di libertà, democrazia e anti-imperialismo, mentre fino ad ora ha apertamente predicato la dottrina dello stato fascista. È nelle sue azioni che il partito terrorista tradisce il suo reale carattere, dalle sue azioni passate noi possiamo giudicare ciò che farà nel futuro”. Menachem Begin, comandante dell’organizzazione terroristica ebrea Irgun, ideatore e autore di numerosi e sanguinosi attentati, poi sarebbe diventato primo ministro dello Stato di Israele. Hannah Arendt aveva capito. L’autrice de “La banalità del male” morì prima che l’ex terrorista e poi primo ministro Begin ottenesse anche il Nobel per la pace. Questo, forse, non lo avrebbe mai immaginato.
Questo articolo è uscito anche su L’Antidiplomatico
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