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Quattordici novembre

Marco Calabria
14 Novembre 2012

La rivoluzione non è un lavoro da esperti. Cinque ragioni per avvicinare le ribellioni di ogni giorno a un’idea che abbiamo accantonato o considerato utopica per troppo tempo

UNO. Il tribunale spagnolo di Almería ha confermato nei primi giorni di novembre la sentenza che condanna Angeles Belmonte a pagare 201,52 euro a Unicaja, la prima banca dell’Andalusia. Alla donna sono state concesse ventiquattro ore per versare la somma come rimborso del danno causato al vetro della filiale locale in occasione della sua protesta. La signora Belmonte, settantasette anni, si era incatenata nel vano predisposto all’uso del bancomat rifiutando di allontanarsi senza aver potuto spiegare le sue ragioni a un responsabile dell’istituto finanziario. Per allontanarla con la forza, la Guardia Civil aveva deciso di rimuovere il vetro. Le ragioni di Angeles Belmonte erano già note al direttore della filiale di Unicaja, visto che la banca si era impossessata della sua abitazione, a Campohermoso, in seguito alla garanzia che la signora aveva prestato su un’ipoteca cui uno dei figli non aveva potuto far fronte. Dopo lo sfratto, Angeles Belmonte, ha rioccupato illegalmente la casa di cui era stata proprietaria. In Spagna l’insolvenza che riguarda il comparto abitativo ha raggiunto nel luglio scorso i 78 miliardi di euro.

DUE. Per la prima volta, nella storia dell’Unione europea, la protesta ha scavalcato agevolmente le frontiere nazionali. Le manifestazioni contro il disastro sociale, la rapina economica e la distruzione ambientale del continente dilagano in forme assai plurali e piuttosto fantasiose. Tra le più interessanti, c’è stata quella di Join the invasion. L’hanno promossa gli abitanti del quartiere di San Lorenzo e i ragazzi di Ostia, gli occupanti del Teatro Valle e gli studenti della Sapienza, che hanno ripreso uno spazio inutilizzato nel dipartimento di arte e spettacolo e dato vita ad azioni creative e intelligenti contro l’aumento delle tasse universitarie e dei trasporti pubblici. «Ci dicono che è colpa della crisi, che c’è bisogno di austerità e che forse fra cinque anni ne saremo fuori. Noi rispondiamo che non intendiamo aspettare, che non chiederemo la loro elemosina e che sappiamo bene che la giostra delle elezioni, a qualunque livello, non farà che confermare queste tendenze. Non subiremo passivamente questo attacco frontale ai diritti sociali, alle nostre vite». L’affermazione con la quale i ragazzi chiamavano alla partecipazione il 14 novembre era sorprendente quanto geniale: la rivoluzione non è un lavoro da esperti.

TRE. Per diversi decenni i movimenti sociali e politici della sinistra europea hanno accuratamente evitato di utilizzare la parola «rivoluzione». Gran parte di essi lo hanno fatto per una netta scelta di moderazione, una reazione che si voleva matura alle delusioni giovanili e alle «ideologie» novecentesche. Altri, parecchi altri, con molti e diversi accenti, finivano per ascrivere al concetto di rivoluzione un’aura di utopica, inarrivabile sacralità, spesso intrisa di eroismo e martirio. La grandezza di lontani processi storici rivoluzionari ha così assunto nei movimenti europei quasi sempre i contorni del mito. Da qualche tempo, però, forse in modo più esplicito da quando le società in movimento sull’altra sponda del Mediterraneo hanno mandato in pezzi regimi che a tutti sembravano «realisticamente» inamovibili, di rivoluzione si è tornati a parlare anche qui. Nelle ultime pagine del suo recente saggio, uscito in queste settimane per Asterios, Gustavo Esteva rende omaggio allo storico statunitense Howard Zinn, purtroppo scomparso prima di poter salutare l’irruzione sulla scena dei ragazzi di Zuccotti Park. Zinn, scrive Esteva in Antistasis. L’insurrezione in corso, ha insistito tutta la vita nel dirci che le rivoluzioni non sono opera di grandi leader o di violenti terremoti sociali. Celebrò e riscattò dall’oscurità le piccole azioni di persone sconosciute che producono i grandi cambiamenti sociali. Sapeva vedere il cambio rivoluzionario come qualcosa di immediato (…), qualcosa che dobbiamo fare oggi, in questo istante, lì dove viviamo, dove lavoriamo o studiamo. L’insurrezione, segnala Esteva, che ha raccontato l’importante movimento della Comune di Oaxaca e fondato l’Università della terra nella città messicana, attraversa un milione di luoghi nello stesso tempo, entra nelle famiglie, nelle strade, nel vicinato, nei luoghi di lavoro. Soffocata in un posto, riappare in un altro. Questa rivoluzione è un’arte, conclude, richiede pertanto il coraggio della resistenza ma anche quello dell’immaginazione.

QUATTRO. La rilevanza dell’affermazione dei giovani universitari non risiede solo nella comprensione del fatto che la rivoluzione non è qualcosa che può riguardare in modo esclusivo i professionisti della rivolta o i convinti militanti. Il rifiuto di piegare la nostra esistenza al dominio del denaro è un’arte che si pratica ogni giorno. Come fa, in modo assai semplice, una signora andalusa di settantasette anni. C’è di più: la rivoluzione, dicono alla Sapienza, non è un lavoro. È davvero singolare che nel Paese dove un’intera città, Taranto, continua a morire di lavoro in fabbrica e fuori, sia del tutto scomparsa la critica al lavoro e alla sua alienazione. La quantità di lavoro necessario a produrre qualsiasi merce si riduce da tempo, mentre cresce in modo vertiginoso la subordinazione delle nostre vite ai ritmi della produzione di valore. Eppure l’ingenua richiesta di piena occupazione compare, puntuale, in ognuna delle diligenti piattaforme rivendicative di chiunque si proponga una qualche opposizione sociale ai riti del sacrificio imposti dalla tecnocrazia nazionale e continentale. Non chiederemo la loro elemosina, scrivono gli studenti romani. Non trascorreremo la vita ad attendere e a rivendicare concessioni, faremo altro. Potrà sembrare banale, ma oggi non sono molti coloro che arrivano a immaginare un presente e un futuro sottratti alla vendita esclusiva di tempo e capacità al solo fine di garantire (e distruggere) la propria esistenza. Non subiremo passivamente, annunciano quei ragazzi. Hanno scelto di condividere un flusso sociale di ribellione. Un flusso vivo, creativo che non sarà facile sottomettere alla rigida disciplina della produzione e della produttività, né alla religione delle «macchine umane» da offrire alle piramidi dell’accumulazione.

 CINQUE. Ci dicono: la colpa è della crisi. Fra cinque, forse sei, magari sette anni ne saremo fuori. L’idea che la crisi sia necessariamente un punto di transizione da un regime basato sull’accumulazione a un nuovo regime fondato sulle stesse basi ma capace di rimettere in moto la crescita e l’occupazione e, più in generale, di migliorare le condizioni di vita di tutti è tanto universalmente diffusa e accettata quanto ideologica. Da un punto di vista opposto, forse con maggior onestà intellettuale, possiamo guardare alla crisi come alla disarticolazione delle relazioni sociali dominanti, cioè del capitalismo. Sarà bene, tuttavia, guardare alla crisi di un sistema che considera le cose più importanti delle persone non come a un’opportunità per cambiare il mondo ma come al cambiamento stesso, un cambiamento in corso. Certo la crisi può condurre a una ricomposizione e una nuova ristrutturazione del sistema di dominio, ma è altrettanto certo che ciò che muove realmente la crisi è proprio il rifiuto di accettare il costante e crescente giro di vite che il dominio dei mercati sulle persone impone. La crisi di quel dominio è mossa dalla ribellione dei giovani studenti romani e da un’anziana donna andalusa che torna a occupare la casa che l’ingordigia di un’insaziabile banca le ha legalmente sottratto.

(La prima foto in alto, il corteo romano, è stata pubblicata su un post del Teatro Valle).

(Un reportage-fotografico sul 14 novembre, da Castro Pretorio a Piramide fino ai Fori – … prima di Lungotevere – lo trovate invece qui)

(Per un commento sulle violenze contro i manifestanti suggeriamo la lettura di «I tecnici del manganello»)

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