A differenza degli altri premi Nobel, quello per la pace viene assegnato in Norvegia e non in Svezia. Nel 2019 è stato assegnato al premier etiope Abiy Ahmed Ali, promotore dell’accordo di pace con l’Eritrea. Da oltre un anno, nella regione etiope del confine settentrionale, il Tigray, conquistata dall’Italia coloniale negli anni Trenta del secolo scorso, si combatte una nuova guerra micidiale tra i ribelli tigrini e le truppe di Addis Abbeba. Due milioni di persone sfollate sono alla fame. Il premier Abiy, sì il premio Nobel, fa bloccare i convogli del soccorso e bombardare i campi dai suoi droni. Dopo gli ultimi raid, anche le agenzie umanitarie hanno deciso di abbandonare il campo e il giornalista Domenico Quirico, forse il più noto dei reporter di guerra italiani, afferma che “ci sono profonde assonanze con il genocidio del Ruanda”. Alessandro Ghebreigziabiher, scrittore, attore e regista teatrale nato a Napoli da mamma italiana e padre eritreo, racconta la tragedia che incombe a modo suo

Pronto? Qui è il Tigray.
Parlo con la Norvegia?
Sì, sì, lo sappiamo.
Sappiamo tutto, forse troppo.
Anzi, senza forse.
Per esempio sappiamo che in questo caso è a voi che dobbiamo rivolgerci invece che all’Accademia svedese.
Sì, certo, vado al sodo.
Allora, parlo a nome di due milioni di persone, okay? In tutto nove se contiamo pure le regioni di Afar e Amhara, ma abbiamo chiamato noi, quindi… restiamo sul due.
Sono comunque tante, vero?
Eh già, ora sono quindici mesi che il cibo è sempre di meno, ogni giorno di meno, come una clessidra che perde e dentro c’è la tua vita.
Anzi, no, non rende: c’è quella dei tuoi figli.

Capite allora perché ogni granello che fugge via è una tragedia?
Nel dettaglio, da quando è scoppiato ancora una volta questo inferno il 37% di noi salta spesso il pasto un giorno o anche due.
Ecco, senza che prendete la calcolatrice.
Immaginatevi una colossale platea di quelle vostre premiazioni illustri ricolma di centinaia di migliaia di persone, magari rimaste in piedi e a cui non interessa applaudire chicchessia, giacché alle loro mani aperte sarebbe sufficiente anche solo pane e acqua.
Ma se non basta, figuratevi altrettante migliaia di bambini e due terzi delle donne in gravidanza con serie condizioni di malnutrizione.
Perché ho chiamato voi?
Sì, certo, ci arrivo subito.
È solo che c’è una donna, qua, una madre single di ben sei figli piccoli la quale considera il farli mangiare perlomeno una volta al giorno qualcosa di estremamente difficile. E che quella volta che considera fortunata è perché qualche vicino o amico le presta del cibo.
Ora non c’è neanche più qualcosa da prestare, gli hanno risposto.
Che?
Le Nazioni Unite?
Sicuro, ci abbiamo parlato eccome, sono pure venuti, hanno visto e denunciato la cosa. Hanno preparato aiuti e organizzato i convogli ma il blocco dei trasporti che esiste da mesi ne impedisce il transito.
Cosa?
Parlare con chi può farlo sbloccare?
Ecco, è questo il motivo della chiamata.
L’ONU ci ha già provato, ma l’interessato nicchia oppure nega.

Allora, in caso vi fosse possibile far qualcosa…
Perché proprio voi?
Be’, magari a voi risponde, anche solo per non fare brutta figura, ecco.
Il suo numero?
Ma ce l’avete già, controllate sulla vostra rubrica, sì…
Nel gruppo con la lista dei Premi Nobel per la Pace.
L’anno è il 2019.
Hai visto mai che si ricordi le ragioni per le quali gliel’avete dato: per i suoi sforzi per raggiungere la pace e la cooperazione internazionale, e in particolare per la sua decisiva iniziativa per risolvere il conflitto di confine con la vicina Eritrea.
Fonte: Storie e Notizie n. 1983
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