Ha senso oggi richiamarci, come ha fatto Pierluigi Di Piazza nella sua esistenza, alla necessità vitale di una nuova cultura di pace e all’imperativo categorico del “non uccidere”?
Dal 26 al 28 maggio, in vari luoghi di San Lorenzo, a Roma, si terrà la seconda edizione di Eirenefest-Festival del libro per la pace e la nonviolenza (il programma è su www.eirenefest.it). Domenica 28, dalle 10,30, all’AMKA Social Hub, in via dei Reti, 23, verrà presentato il settimo Quaderno del Vocabolario dell’Arca – Parole in caso di diluvio (AnimaMundi Editore): Libertà, di Carlo Ridolfi. Con l’autore dialogheranno Daniele Aristarco e, con interventi musicali, Giufà Galati. Nell’occasione, ci sarà anche un piccolo, ma sentito, ricordo di un grande amico come Pierluigi Di Piazza, che ci ha lasciato un anno fa.
Ogni persona che manca lascia un vuoto. Alcuni lo lasciano più grande. Così è stato quando – il 15 maggio 2022 – è arrivata la notizia della morte di Pierluigi Di Piazza.
Pierluigi era nato il 20 novembre 1947 a Tualis, una frazione del piccolissimo comune di Comeglians, nella Carnia friulana. Era diventato prete nel 1975. Nel 1988, avendo a disposizione un’ampia casa parrocchiale nel comune di Zugliano, ristrutturata dopo gli interventi del terremoto del 1976, decise di ospitare tre ragazzi del Ghana che dormivano in stazione. Nacque lì l’idea, poi resa pratica e ancor oggi realtà concreta, di realizzare un centro di accoglienza, che sarà intitolato a Ernesto Balducci (www.centrobalducci.org).
A un anno dalla morte, causata da una breve ma inesorabile malattia, le Edizioni Laterza pubblicano un preziosissimo libro che raccoglie i testi di alcune conferenze tenute tra il 2002 e il 2004 (trascritte da Laura Chinellato) e alcuni estratti dei suoi commenti ai Vangeli della domenica pubblicati tra il 2012 e il 2022 sul Messaggero Veneto. Il titolo è Non uccidere. Per una cultura della pace. Il riferimento è ovviamente al Quinto dei Dieci Comandamenti (Dieci parole che parlano ancora, come recita il primo capitolo), ma riecheggiano anche almeno tre fondamentali momenti della cultura di pace del Novecento.
Il primo è un libro edito nel 1955 dalla casa editrice La Locusta di Vicenza, fondata e curata da una importantissima personalità del mondo cattolico come Rienzo Colla, che uscì col titolo Tu non uccidere, senza specificazione del nome dell’autore. Non poteva firmarlo, all’epoca, don Primo Mazzolari, straordinario parroco di Bozzolo, in provincia di Mantova, perché la temperie dell’epoca era tale da porlo a fortissimo rischio di pesanti provvedimenti disciplinari da parte della gerarchia ecclesiastica (a conferma di ciò, il Sant’Uffizio ordinò il ritiro del volume nel febbraio 1958). E pure, già molti avevano capito chi fosse l’autore, avendo riconosciuto nelle argomentazioni la stessa forza profetica che don Mazzolari metteva nei suoi articoli su Adesso, la rivista che aveva fondato nel 1949.
Il secondo momento fondamentale è rappresentato da un film, prodotto nel 1961, che aveva lo stesso titolo sia nell’originale francese (Tu ne tueras point) che nella versione italiana (Non uccidere), diretto da Claude Autant-Lara, con la sceneggiatura di Jean Aurenche e Pierre Bost. Film di grande qualità cinematografica ed etica, che fu presentato alla Mostra del Cinema di Venezia di quello stesso anno, ma non ottenne il visto della censura perché considerato in pratica una istigazione a delinquere, in quanto prendeva decisamente le parti di chi si dichiarava obiettore di coscienza, rifiutando di vestire la divisa militare e di partecipare ad azioni di guerra. Fu il sindaco di Firenze, Giorgio La Pira, ad organizzarne – in consapevole violazione della legge – una pubblica proiezione il 18 novembre 1961, portando al massimo grado dell’attenzione il dibattito sulla guerra e sulla pace.
Nel 1955 del libro di don Primo Mazzolari era papa Eugenio Pacelli, col nome di Pio XII. La Chiesa italiana era ancora lontana da quella provvidenziale (e ancor oggi in parte incompresa) apertura che fu l’avvento al soglio pontificio del suo successore Angelo Roncalli, Giovanni XXIII (va ricordato anche che quest’anno cadono i sessant’anni dalla pubblicazione dell’enciclica Pacem in terris, pubblicata proprio nell’aprile 1963) e la convocazione del Concilio Vaticano II (che si chiuse nel 1965, anno in cui fu possibile ripubblicare il libro del parroco di Bozzolo con il nome dell’autore, che era nel frattempo mancato nel 1959).
Nel 1961 del film di Autant-Lara l’Italia aveva visto da poco l’esperienza del (breve, ma deleterio) governo retto da Fernando Tambroni, che si era insediato con l’appoggio del Movimento Sociale Italiano, che era un partito neofascista, e non era ancora giunta all’esperienza (lunga e con alcuni passaggi che ancora oggi possiamo considerare storici per il progresso sociale e civile del Paese) dei governi di centro-sinistra. Tuttavia sia Mazzolari (e Colla che lo pubblicò), che sceneggiatori, regista e produzione (fu una coproduzione: Francia, Italia, Jugoslavia) del film (e La Pira) non esitarono a produrre testi (scritti o cinematografici) che andavano sicuramente in direzione contraria del comune sentire di una maggioranza che ancora considerava (e ancora oggi quanto considerano sia così?) la guerra come possibile risoluzione delle controversie.
Il terzo momento – da ricordare nell’anno del centenario della nascita, ma da considerare decisivo quanto gli altri due – è la Lettera ai cappellani militari, scritta da don Lorenzo Milani (e dai suoi ragazzi di Barbiana) nel 1965, come risposta a un comunicato dei cappellani militari toscani, che avevano tacciato di “viltà” chi si fosse orientato verso la scelta dell’obiezione di coscienza. Lettera che causò a don Lorenzo una denuncia, un successivo processo con assoluzione, un nuovo processo per il ricorso del pubblico ministero, concluso senza condanna perché nel frattempo l’“imputato” era deceduto il 26 giugno 1967.
Primo Mazzolari. Giorgio La Pira. Lorenzo Milani. Ernesto Balducci. Pierluigi Di Piazza era della stessa tempra, apparteneva alla stessa – sempre minoritaria in termini di puro calcolo numerico, ma quanto preziosa e feconda per le sorti di ciascuno di noi – comunità di chi, con le parole e con le azioni, ha una visione che va sempre oltre il mero e angusto calcolo delle convenienze sociali o politiche.
In questi tempi in cui la logica della guerra pare esser di nuovo in voga, in cui non ci si perita di coinvolgere le scuole e i bambini e le bambine e i ragazzi e le ragazze in “open days” nelle basi militari o in vicinanza (quasi sempre acritica) con le Forze Armate, in cui anche la minaccia nucleare sembra esser derubricata a “effetto collaterale” da una pubblicistica che magnifica armi sempre più letali, richiamarci, come fa Pierluigi Di Piazza, alla necessità vitale di una cultura di pace e all’imperativo categorico del “non uccidere” può apparire senz’altro fuori moda, ma non per questo perde di forza e di significato.
“La questione della pace – scrive a pag. 72 – non è una fra le altre, bensì quella decisiva, dirimente tutte le altre. Che senso ha parlare di cultura se non per favorire la pace?”.
E poche pagine prima (pagg. 45-46) ci mette a disposizione un vero e proprio elenco di alternative concrete al pigro, acquiescente e assuefatto senso comune:
“(…) al posto dell’ignoranza la ricerca, la conoscenza, la vigilanza, l’inquietudine salutare, il dinamismo; al posto dell’indifferenza, la presenza, la compassione, la premura, la cura; al posto del conformismo, la libertà di coscienza e la responsabilità, il coraggio della parola e dell’azione; al posto della rassegnazione, la resistenza, la reazione, il sogno, l’ideale, la disponibilità e l’impegno; al posto dell’opportunismo, la coerenza e la dedizione convinta e gratuita; al posto del distacco, della presunzione e illusione di essere al di sopra delle parti, la partecipazione, la condivisione delle esperienze, di quelle tribolate e di quelle positive e arricchenti; le prese di posizione, lo schierarsi senza avversioni e inimicizie”.
È stato un prete di parte, Pierluigi Di Piazza? Sicuramente è stato un prete partigiano – come Mazzolari, Milani, Balducci – intendendo la sua missione non come un’irenistica (e spesso filistea) considerazione dell’identico valore di ogni scelta, ma come una decisa opzione per i poveri, i nonviolenti, i miti che erediteranno la Terra. Senza avversione né astio verso i potenti e i mercanti di morte, ma sapendo e dicendo e praticando una distanza da loro che non è mai stata né compromissione né sudditanza.
Ce lo ricorda, come ultima testimonianza che ci è resa disponibile, questo piccolo ma imperdibile libro. Ce lo dice, a guardare pensarci e ricordare, tutta la sua intera esistenza.
eugenia debortoli dice
Interessante excursus sul Pacifismo del ‘900 che, oggi più che mai, è opportuno rievocare. Grazie!