Non dovremmo mai dare nulla per scontato quando utilizziamo la parola accoglienza. Appunti di un’operatrice coinvolta nell’accoglienza di nuclei familiari provenienti dall’Ucraina

La guerra in Ucraina va avanti. Sono passati quasi sette mesi dal giorno in cui le Forze armate della Federazione Russa hanno invaso il territorio ucraino, segnando così una brusca escalation della crisi russo-ucraina in corso dal 2014. Non sappiamo il numero delle morti, sappiamo che sono oltre 6 milioni gli sfollati interni e che più di 10 milioni di persone hanno attraversato il confine ucraino (dati Onu al 31 luglio). Intanto nelle homepage dei grandi media la guerra scivola sempre più in basso. Non cala invece, per fortuna, l’attenzione solidale alle persone fuggite dalla guerra e accolte in molte città. Susanna Sansone collabora da alcuni mesi con la Caritas di Roma come tutor per i nuclei familiari giunti in Italia: il racconto di un episodio vissuto insieme a Sviatoslav offre interessanti spunti di riflessione sul senso dell’accogliere. [Andrea Guerrizio]
“Fragola, fra-go-la”, dice Natalia a Sviatoslav. Ma lui continua solo a indicare quel gusto colorato, senza spiccicare parola. Mentre si gusta il gelato, Natalia prova a dirgli di nuovo che quella cosa che sta mangiando si chiama gelato alla fragola, ma niente. Niente fino a quando, dall’alto dei suoi quattro anni, Stanislav, in ucraino, dice che non ha nessuna intenzione di parlare italiano, che lui è ucraino, che vuole giocare con i suoi amici ucraini e vuole tornare in Ucraina.
Non mi colpiscono subito quelle parole, rimango solo stupita da questo bambino, che con così tanta forza fa quelle affermazioni. La mattina dopo, mentre sono in bagno, mi si precipitano addosso tutte insieme: e se adesso mi dicessero devi andare via, c’è la guerra, così, mentre mi sto lavando la faccia, che cosa proverei? Mi asciugo e mi specchio, scorgendomi ipocrita. Ipocrita nel cercare di sostenere le persone che stanno arrivando, ipocrita nell’offrire loro una scuola, una casa, un corso di italiano, ipocrita nel rassicurarli: tranquilli, andrà tutto bene. Ma chi sono io per avere la pretesa di farli stare meglio, di farli sentire a casa, facendo così? E penso allora a me, a una me sradicata dal mio bagno verde, dalla mia casa, dai miei affetti, dai miei studi, dal mio lavoro, dalla mia vita di ogni giorno. Se scoppiasse ora qui una guerra, che cosa vorrei per me?
Siamo pieni di aspettative e di pretese verso persone che non avevano in programma di incontrarci nella loro vita. “Neanche un grazie. Molti di loro chiedono sembrano capaci solo di chiedere internet, cibo, soldi per sopravvivere. Ma noi vogliamo che si integrino nella nostra comunità…”. E di nuovo l’accoglienza, che dovrebbe essere spontanea e gratuita, si rivela per lo più come una serie di servizi da offrire. Ma perché dobbiamo accogliere? Per una questione morale? Perché si usa fare così? Perché lo vogliamo davvero? Questa onda di solidarietà, come si è spesso sentita chiamare dallo scoppio dell’emergenza ucraina, rischia di sommergere chi ha scelto di cavalcarla solo per sentirsi buono.
[Susanna Sansone]
Bisogna accogliere perchè ognuno dovrebbe dare secondo le sue possibilità e ricevere secondo i suoi bisogni. In questo momento storico siamo noi ad avere più possibilità. Ovviamente questo sano principio di convivenza, reso celebre da Marx ma già contenuto negli Atti degli Apostoli (At 4, 35) non fa preferenze tra uomini di differente nazionalità, anzi, presuppone la fine delle nazioni per come attualmente le conosciamo.
Mi preoccupa, invece, come riportato nell’articolo, che un bambino di 4 anni possa aver già interiorizzato così tenacemente quel virus del nazionalismo che tanto male ha fatto all’umanità soprattutto nell’ultimo secolo.
E’ un chiaro esempio di come la propaganda nazionalista inizi già nella prima infanzia e come sia immediatamente recepita dalle giovanissime menti in formazione.
Lo Stato, la Scuola e la Famiglia Ucraina ne sono senz’altro gli artefici.
Chiediamoci, come italiani, cosa possiamo fare per dare un’accoglienza che non porti acqua al mulino del cancro del nazionalismo, da qualunque parte venga.
Non vedo che cosa ci sia di male nel sentirsi del posto in cui si nasce e si interiorizxino usi e costumi. È piu che normale che questo avvenga. Se uno nasce in un posto come fa a pensarla come chi nasce a 1000km di distanza? Pensare che una persona debba integrarsi con usi e costumi che non respira non sente e non vede, è da folli. Ed è proprio questa follia che crea guerre. L’eterogeneita è nella natura delle cose dove le stesse possono confrontarsi che non è convivere, se non esiste compatibilità. La convivenza necessita ancora di più, la tolleranza come tutto, ha un limite che spesso supera anche il rispetto. Tutto ha un limite in natura. Per chi non lo ha capito, stiamo rischiando catastrofi.