La lotta per la pace oggi non può nutrirsi solo di campagne per il disarmo e di opzioni etiche, sostiene Fabio Alberti, ha bisogno di un rilancio della politica: senza una modifica dell’ambiente internazionale quelle campagne sono destinate al fallimento. Abbiamo invece bisogno di una connessione tra lotta per il disarmo, promozione della cultura di pace e una forte iniziativa politica per modificare la politica estera italiana ed europea. Di fronte alle sfide epocali che l’umanità è chimata ad affrontare, non è più rinviabile un posizionamento autonomo dell’Europa e dell’Italia dal pensiero suprematista. Esso è perfino prioritario sulla messa in discussione dell’appartenenza o meno ad alleanze militari

Nell’epoca della guerra mondiale a pezzi le politiche per il disarmo e la nonviolenza sono destinate a fallire se non si modifica la postura occidentale nelle relazioni internazionali. Prima che l’appartenenza ad alleanze militari si tratta di mettere in discussione esplicitamente la dottrina della supremazia strategica incorporata nella Nato360. Una dottrina che, oltre che immorale, alimenta necessariamente il riarmo e la guerra.
A questa va contrapposta la proposta dello sviluppo condiviso e della cooperazione globale di fronte alle sfide comuni dell’umanità. Per questo le politiche per la pace per essere efficaci devono mettere la centro la critica della politica estera italiana ed europea. A fianco del pacifismo strumentale e del pacifismo etico, va rilanciato il pacifismo politico. La parola d’ordine della neutralità attiva lanciata dalla Rete Italiana Pace e Disarmo è fondamentale e sarebbe un grave errore lasciarla cadere.
Nel suo celebre saggio del 1966 sull’era atomica[1] Norberto Bobbio identificava tre principali filoni del movimento pacifista[2]. Per usare le sue parole: “…il primo strumentale, ovvero la pace attraverso il disarmo, il secondo istituzionale, ovvero la pace attraverso il diritto, il terzo etico e finalistico, ovvero la pace attraverso l’educazione morale…”.
Nel primo filone Bobbio propone di inserire le correnti teoriche e pratiche che concentrano la propria azione sui mezzi (gli strumenti) della guerra distinguendo poi gli sforzi per distruggere le armi o almeno per ridurne al minimo la quantità e la pericolosità e quelli con lo scopo di sostituire i mezzi violenti con mezzi non-violenti. Si tratta oggi delle tante campagne e organizzazioni impegnate, anche a livello internazionale, per il disarmo e per la difesa non armata.
Nel terzo filone Bobbio inseriva le filosofie politiche e religiose che concentrano la propria attenzione sul cambiamento morale e culturale, insistendo sulle culture collettive e sulle pulsioni individuali. Vanno inserite in questo filone le politiche normalmente raccolte nella definizione di Educazione alla pace e alla non-violenza e di costruzione della cultura di pace, a cui molte risorse vengono dedicate dalle religioni e da tanti collettivi es associazioni.
Poi c’è, intermedia tra i due filoni sin qui indicati, la corrente che Bobbio definisce “Istituzionale” o “giuridica”, nella quale egli raccoglieva ritengono si debba affidare la prevenzione della guerra alla politica, con la costruzione di trattati e istituzioni internazionali atte ad impedirla (pacifismo giuridico). Si parla qui del pensiero e delle pratiche politiche che affondano le radici nel “Progetto per una pace perpetua” di Kant o che alla fine dell’800 ha posto le basi teoriche per la nascita della Società delle Nazioni prima e delle Nazioni Unite poi.[3]
Si tratta di quello che definirei il “pacifismo politico” perché affida alla politica ed in particolare alla politica estera e ai rapporti negoziali tra gli Stati, il compito di costruire le condizioni politiche affinché le armi non vengano costruite ed utilizzate, nel mentre che si sviluppi una cultura umana che renda la guerra un tabù e la metta “fuori dalla storia”. In questo ambito il ruolo del movimento per la pace è esiziale.
Il vasto e multiforme movimento per la pace italiano, riunito nella Rete Italiana Pace e Disarmo e in altre reti e coordinamenti comprende un insieme di organizzazioni, persone, forze politiche che coprono l’intero arco delle correnti pacifiste individuate a suo tempo da Bobbio.
Nella Rete e nel più generale movimento per la pace convivono bene gruppi che si concentrano sulla contestazione delle alleanze militari con coloro che lavorano sulla formazione alla nonviolenza, coordinamenti che si battono per il disarmo atomico con associazioni che dedicano il proprio tempo ad interventi di educazione nelle scuole.
Un universo che batte su tutti i tasti del pensiero pacifista, anche se non sempre con un riconoscimento reciproco dell’altrui indispensabilità e con limitata consapevolezza dell’interconnessione esistente tra le diverse dimensioni. È questa una ricchezza che andrebbe reciprocamente maggiormente riconosciuta dalle diverse anime del pacifismo Ma sappiamo che la strada dell’unità nella diversità è difficile.
Volendo fare una rapidissima disamina dei risultati conseguiti dai movimenti per la pace nel secolo e mezzo che ci divide dalla nascita del pacifismo come movimento politico, che possiamo far risalire convenzionalmente al primo congresso mondiale dei “Friends of Peace” di Londra nel 1843, possiamo misurare contemporaneamente successi e insuccessi.
Sul piano morale e del pensiero sono stati conseguiti importanti risultati. Oggi deliri come “guerra igiene del modo” non possono più essere nemmeno pronunciati, mentre gli Stati sono costretti ad aggettivare la guerra nei modi più fantasiosi per giustificarla di fronte alla opinione pubblica (guerra umanitaria, difesa preventiva, operazione militare speciale, ecc.).
La guerra è stata definita “flagello dell’umanità”, dalla Carta dell’Onu che l’ha messa, almeno giuridicamente, fuorilegge. La Chiesa cattolica ha, di fatto, ritrattato la teoria della guerra giusta che datava da Tommaso d’Aquino. Se pensiamo che il secolo scorso usciva da un periodo di 300 anni di guerre intraeuropee e coloniali e dal riconoscimento vestfaliano del “diritto alla guerra” in capo ad ogni Stato, l’avanzamento è certamente notevole.
Questo è certamente il risultato dell’incessante lavoro degli uomini e delle donne di pace, ma nasce anche dall’impressione che nelle menti e nell’esperienza di milioni di uomini e di donne hanno fatto la Prima e la Seconda guerra mondiale, con l’inclusione nel perimetro della guerra e del terrore dell’intera popolazione civile. Insomma, questi risultati sono costati cento milioni di morti.
Più ambigui sono i risultati sul terreno del disarmo.
Il processo di legiferazione internazionale[4] sul disarmo ha portato a importanti risultati come i trattati di non proliferazione nucleare e di bando delle armi batteriologiche e chimiche, ma le grandi potenze, Usa, Cina e Russia, da 30 anni non hanno più firmato nessuno dei trattati successivi (mine antiuomo, bombe a grappolo, commercio delle armi, bando nucleare) ed hanno attivamente boicottato ad esempio la discussione sui killer robot.
Nei settant’anni successivi al secondo conflitto mondiale le spese militari, a prezzi correnti, sono costantemente aumentate. Ci sono stati solo due brevi periodi in cui si è temporaneamente invertita questa tendenza: i primi anni ‘60 e i primi anni ‘90. Entrambi i periodi hanno coinciso con determinate situazione nelle relazioni internazionali.
Negli anni 60 è il periodo della politica della distensione seguita alla crisi dei missili di Cuba, intrapresa da Kennedy che trovò interlocuzione nella dottrina della coesistenza pacifica di Kruscev e fu favorita dal movimento dei paesi non allineati. Sono stati quelli anche gli anni del massimo sviluppo del movimento mondiale per la pace, con la contestazione della guerra in Vietnam, in Italia erano i tempi dei partigiani della pace, dell’attivismo di La Pira, della prima marcia Perugia-Assisi, non per caso convocata da Capitini proprio nel 1960.
Il secondo breve periodo in cui le spese militari sono state ridotte sono i primi anni successivi al crollo del sistema sovietico. È stato un periodo di grande speranza. Reagan e Gorbaciov lavorarono per un superamento della contrapposizione e per l’inclusione della Russia. Furono firmati il trattato INF, poi il trattato Start e l’ABM. Un processo di disarmo che ridusse grandemente il numero di testate nucleari esistenti e in cui addirittura ambedue gli stati accettarono ispezioni reciproche rispettivi siti nucleari. In Italia in quel clima fu possibile ottenere una importante vittoria del movimento pacifista: l’approvazione della legge 185 sul controllo del commercio di armamenti. A livello europeo furono addirittura varati strumenti per la riconversione delle industrie di produzione di armamenti.
Sembrerebbe, se si può così sintetizzare, che il movimento per la pace riesce a incidere e a conseguire risultati o a seguito di una grande guerra, o in presenza di una situazione delle relazioni internazionali nella quale sia comunque inscritta la possibilità di una politica di disarmo, dentro cioè a tendenze politiche reali. Un esempio è il movimento contro la installazione dei missili in Europa agli inizi degli anni ‘80, movimento che ha avuto una enorme diffusione, ma che ha dovuto attendere la fine degli anni ’80 e le trattative Usa/Urss che seguono la svolta di Gorbaciov per avere risultati. Insomma, nel periodo della guerra fredda le campagne contro gli armamenti potevano essere efficaci perché il disarmo era inscritto come una delle opzioni possibili nel clima e nelle relazioni internazionali dell’epoca e che lo stesso movimento per la pace contribuiva a determinare.
L’attuale clima politico internazionale è del tutto diverso sia da quello degli anni ’60, che di quello degli anni ’90. Ciò non solo per l’invasione russa dell’Ucraina, che segnala la possibilità della ripresa, dopo ottant’anni, di una guerra globale, per di più nucleare. Il clima politico internazionale, definito da alcuni come una nuova “guerra fredda” e da altri, più propriamente, come una “guerra mondiale a pezzi” è caratterizzato dal fatto che a fronte del possibile raggiungimento da parte di paesi del Sud Globale, in particolare della Cina, di uno sviluppo economico e tecnologico paragonabile a quello occidentale, gli Stati Uniti hanno dichiarato l’obiettivo di mantenere la supremazia acquisita con il crollo del blocco sovietico. Questa decisione ha rilanciato la corsa agli armamenti a livello mondiale e italiano e sdoganato la guerra a partire dalle tante guerre degli scorsi decenni (Iraq, Serbia, Afghanistan, Yemen, Libia, Siria, ecc.).
In estrema sintesi le politiche occidentali sono passate da contenimento, distensione ed equilibrio strategico, caratteristiche del secolo scorso, alla dottrina della supremazia strategica, a cui è stata allineata la nuova Nato360 fondata a giugno a Madrid, con la approvazione del nuovo concetto strategico, peraltro mai discusso da nessun Parlamento dei paesi aderenti.
Questa dottrina è stata via via messa a fuoco nel corso degli ultimi 30 anni [5] e ha già dato prova di sé nella moltiplicazione di iniziative belliche occidentali[6] si scontrerà con una Cina in rapida ascesa e che si fa via via più assertiva mano a mano che il suo stesso sviluppo economico, condizione per il mantenimento del potere dell’attuale regime, ne amplia gli interessi internazionali e acuisce la competizione per risorse energetiche, tecnologiche, materie prime e mercati, con altri sistemi capitalistici.
La propaganda presenta la dottrina della supremazia strategica come finalizzata ad assicurare la pace. Si tratterebbe della “pax democratica”. La realtà è che al di là ed oltre dell’essere moralmente insostenibile, soprattutto se praticata da un Occidente che non ha ancora riconosciuto le proprie responsabilità per il passato coloniale, porta inevitabilmente al riarmo e alla guerra.
Il mantenimento di una posizione di supremazia militare nei confronti del resto del mondo implica una politica attivamente finalizzata ad impedire lo sviluppo economico dei cd competitori. Un obiettivo sbagliato, ma soprattutto impossibile, in particolare nei confronti di un paese con il quadruplo della popolazione e con un tasso di crescita stabilmente 4/5 volte quello occidentale, senza azioni di contrasto e destabilizzazione. La probabilità che tale politica porti prima o poi, per scelta o per attrito, allo scontro militare nelle forme che è impossibile prevedere oggi è molto elevata.
Nell’immediato questa situazione già determina una imponente ripresa della corsa agli armamenti e la militarizzazione delle politiche estere di tanti paesi, compreso il nostro.
Per questo la lotta per la pace oggi non può nutrirsi solo di campagne per il disarmo e di opzioni etiche, ma ha bisogno di un rilancio della politica: senza una modifica dell’ambiente internazionale queste campagne sono destinate al fallimento.
Nell’era del confronto strategico la lotta per la pace, qui e ora, passa per la lotta per una nuova politica estera, o meglio per una connessione tra lotta per il disarmo, promozione della cultura di pace e una forte iniziativa politica per modificare la politica estera italiana ed europea.
Prima ancora dell’appartenenza o meno ad alleanze militari ciò che va messo in discussione esplicitamente è l’obiettivo della supremazia occidentale.
In questo senso la politica estera del nostro paese e dell’Europa dovrebbe assumere una postura autonoma dal pensiero suprematista volta non al mantenimento del vantaggio competitivo, ricercando invece il riequilibrio economico, la condivisione delle conoscenze scientifiche e la collaborazione tra le nazioni a fronte delle sfide epocali che l’umanità deve affrontare. Una politica di neutralità attiva tra le grandi potenze.
Una politica che non abbia l’obiettivo di mantenere la supremazia avrebbe già permesso di evitare molte guerre e probabilmente anche quella in Ucraina.
Non si può nascondere che questo ha un prezzo e comporta un trasferimento di ricchezze e di conoscenze dal nord al sud del mondo e la rinuncia al controllo semicoloniale di paesi terzi, con implicazioni sociali di grande portata, ma questo è il prezzo della pace che dovremmo essere disposti a pagare.
Fabio Alberti, di Un Ponte Per e dell’esecutivo della Rete Italiana Pace e Disarmo
[1] Norberto Bobbio, Il problema della guerra e le vie della pace, IL Mulino 1979
[2] Altri pensatori si sono cimentati nella analisi del movimento pacifista e, sia pure con alcune differenze tutti ricalcano più o meno questa stessa concettualizzazione. Musella (Il Pacifismo in Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco – 2014), Max Scheler (in L’idea di pace perpetua e il pacifismo, 1927), Federico Oliveri (Quale pacifismo giuridico oggi? in Scienza e pace, 2016), Francesco Pasetto “Pacifismo profetico e pacifismo politico”, 2001.
[3] Non includo i movimenti e le correnti di pensiero che pacifiste non sono come i pacifisti “à la carte”, come quelli che condannano la guerra all’Ucraina e non quella alla Serbia, o manifestano per la
viceversa.
[4] Convenzioni firmata da Usa, Russia e Cina: Proibizione dello sviluppo, produzione e stoccaggio di armi batteriologiche e sulla loro distruzione (1972); Convenzione sul non uso militare di tecniche di modifica dell’ambiente (1978); Convenzione delle Nazioni Unite su certe armi convenzionali (1980); Convenzione sulla proibizione delle armi chimiche (1993).
Convenzioni non firmate da Usa, Russia e Cina: Convenzione sul divieto d’impiego, di stoccaggio, di produzione e di trasferimento delle mine antipersona e sulla loro distruzione (1997); Convenzione sulle munizioni a grappolo (2008); Trattato sul commercio delle armi (2013); Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (2021).
[5] Bush: “Impedire l’emergere di una potenza in grado di competere” (1990)
Obama: “Una verità innegabile: l’America deve guidare” (2015, National Security Strategy)
Trump: “Ricostruiremo la forza militare americana per garantire che non rimanga seconda a nessuno” (National Security Strategy, 2017)
Biden: “Prevalere nella competizione strategica con la Cina o qualsiasi altra nazione” (Interim National Security Strategic Guidance, 2021)
[6] 1991 Iraq, 1998 Iraq, 1999 Serbia, 2001 Afghanistan, 2003 Iraq, 2011 Libia
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