L’immigrazione non va gestita ma vissuta. Non è facile ma per cambiare davvero dobbiamo liberarci di una mentalità assistenzialista e caritatevole: l’identità non è un concetto fisso, astratto ma qualcosa da ripensare di volta in volta attraverso un arricchimento comune. Non c’è qualcuno che accoglie altri, piuttosto ci sono due persone che si incontrano e, confrontandosi, si arricchiscono. Paolo Martino conosce e narra da tempo il Medioriente, a cominciare dai sogni e le delusioni dei rifugiati. Del suo ultimo film. Terra di transito, per fortuna si sta parlando molto. Le inquadrature mostrano e raccontano persone reali e non problemi, numeri o pratiche burocratiche da evadere. La voce narrante è quella di Rahell, fuggito dall’Iraq e approdato in Italia dopo aver attraversato Siria, Turchia e Grecia
di Marco Di Donato*
Il suo ultimo lavoro, Terra di Transito, è stato presentato al Maxxi di Roma il 20 giugno scorso, in occasione della Giornata mondiale del rifugiato, abbiamo chiesto a Paolo Martino di guidarci nella più stringente attualità: dalla Siria, all’Iraq a Mare Nostrum.
La Sicilia, la Calabria, la Puglia. Tutte regioni interessate dal fenomeno migratorio. Cosa sta succedendo nel Mediterraneo?
Dalla Libia giungono molti più migranti con l’arrivo dell’estate, ma non bisogna dimenticare anche che i flussi migratori arrivano in Italia sulla cosiddetta “rotta orientale”, quella per intenderci che passa dalla Grecia. Si tratta di una pressione costante, mai in diminuzione, che ci dimostra come, nonostante divieti, leggi di respingimento, regolamento di Dublino II e quanto altro possa escogitare un apparato amministrativo, l’uomo continuerà sempre a viaggiare.
Viaggiare o fuggire? Quanto la crisi siriana sta influenzando i flussi migratori verso l’Europa?
Di tutte le crisi del Vicino e Medio Oriente, dall’Afghanistan, alla Siria, all’Iraq, a noi giungono le briciole. Da noi arrivano solo i più motivati che decidono di affrontare il mare o lunghi, lunghissimi periodi di viaggio e di incertezza. Moltissimi altri (circa il 90%) si ferma prima trovando rifugio nei paesi confinanti. Del resto basta pensare che in Siria erano presenti circa 1 milione di iracheni fuggiti dal proprio paese, che erano stati inglobati nel contesto locale, che avevano una vita, un lavoro. Oggi proprio loro sono nuovamente costretti ad un “secondary movement” ossia muoversi di nuovo dopo aver già effettuato una prima migrazione. Lo stesso destino toccato in sorte ai palestinesi rifugiati in Siria.
Altro esempio: dei 6 milioni di afghani che si sono spostati verso l’estero, moltissimi sono stati assorbiti dall’Iran che li ha accolti senza particolari problemi essendo una nazione stabile. Ancor più paradossale la questione pakistana, laddove moltissimi afghani hanno preferito rimanere in Pakistan (paese notoriamente attraversato da tensioni non indifferenti) piuttosto che allontanarsi dal proprio luogo di nascita.
Dunque secondo te l’attuale crisi irachena non inciderà in maniera sostanziale sui flussi migratori in direzione Bruxelles?
Per ora stiamo osservando flussi interni, da Mosul verso altre aree dell’Iraq. Certo, un intervento militare esterno su larga scala potrebbe aggravare la situazione e costringere, di nuovo, molti più iracheni a lasciare il paese.
Siria, Iraq, Afghanistan. Tre scenari di conflitto e guerra straordinari nella loro drammaticità. Eppure i risultati delle recenti elezioni europee mostrano una chiusura verso l’altro, un senso di ostilità nei confronti del migrante.
Pensiamo a Lampedusa, che ha assunto una valenza antropica. L’altro, il diverso, il barbaro che viene dal deserto libico. Siamo intimoriti dalla sua esperienza, ci chiediamo cosa è venuto a fare, cosa vuole da noi, con un certo senso di ripugnanza. Occorrerebbe prima di tutto liberarci da quella mentalità assistenzialista e da quell’atteggiamento caritatevole che in parte sono responsabili di ideologie xenofobe e razziste. C’è un dovere morale certamente nell’affrontare certe sfide e l’attenzione va tenuta alta sugli scenari che abbiamo citato.
Ma il discorso è più complesso, è una questione di identità. Nel nord Europa (ne parlo proprio nel mio ultimo lavoro, “Terra di Transito”), hanno capito che l’identità non è un concetto fisso, astratto, quanto piuttosto un qualcosa che si deve ripensare di volta in volta attraverso un arricchimento comune. Non c’è qualcuno che accoglie qualcun altro, piuttosto due uomini che si incontrano e confrontandosi ne escono entrambi arricchiti.
L’immigrazione non va gestita, quanto piuttosto vissuta. Certo non si tratta di un percorso facile, soprattutto in un contesto come quello italiano dove l’immigrazione è un fenomeno nuovo, risalente agli anni ’90.
Forse anche per questo reagiamo in ritardo con operazioni come Mare Nostrum?
Sul punto voglio essere chiaro. Prima di tutto è vero, siamo in ritardo, ma ci sono delle cose specifiche da fare. In primis la ritengo una operazione meritevole perché comunque fornisce aiuto e sostegno ad uomini e donne in difficoltà in balia del mare. Secondariamente però, ho una sfiducia naturale nei confronti delle istituzioni militari.
Chi ci assicura che un’esperienza che adesso ha un carattere di accoglienza non si trasformi domani, senza che nemmeno ce ne accorgiamo, in un’ iniziativa respingente? Difficilmente, o per meglio dire mai, le mostrine e i fucili possono conciliarsi con l’azione umanitaria.
Un fenomeno, quello migratorio, che hai brillantemente raccontato nei tuoi tre lavori. Quali sono i prossimi progetti?
Ne ho uno in particolare che riguarda il vivere in prima persona l’esperienza del viaggio dall’Africa, dall’Asia, verso l’Europa. Senza filtri, senza troupe, senza barriere. Io e un collega, due rifugiati come tanti in cerca di qualcosa, in fuga da noi stessi per immedesimarci nell’esperienza altrui e provare le loro stesse sensazioni. Di più però non posso dire.
Ancora le migrazioni dunque al centro dei tuoi interessi. Mi chiedo tuttavia, se abbiamo come premessa l’implacabilità del viaggio e la sua irriducibilità concettuale in quanto connaturata alla natura umana, quanto ancora potrà durare l’idea di Dublino II.
Spero poco, ma non posso dirlo con certezza. E’ un problema di equilibri europei che non credo muteranno nel breve periodo. Piuttosto posso augurami che questa logica cambi al più presto, ma non chiedermi in quanto tempo. E’ l’individuo che deve tornare al centro dell’attenzione e non la pratica burocratica.
Quello che è sicuro è che la nostra generazione condivide molta parte del proprio percorso con quella della sponda sud: dalle difficoltà lavorative, alla migrazione verso un futuro migliore, all’incertezza del domani.
E questo, paradossalmente, mi lascia ben sperare.
Fonte: Osservatorio Iraq, Medio Oriente e Nordafrica
Titolo originale: La persona al centro del viaggio.
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PAOLO MARTINO
Laureato in Relazioni internazionali, Paolo Martino frequenta da anni il Medio oriente, dove ha conosciuto la quotidianita’, i sogni e le delusioni dei rifugiati. Dopo aver collaborato con l’uffıcio di Roma dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati ha iniziato ad interessarsi alla questione specifica dei rifugiati afghani. La sua esperienza di blogger inizia durante il conflitto del 2006 tra Israele e Hezbollah, di cui è testimone diretto. Documenta i suoi viaggi nella regione attraverso reportage fotografici e video. Nel 2007 pubblica per Osservatorio Balcani e Caucaso un reportage fotografico realizzato in Kosovo, durante un viaggio in bicicletta. Nel 2010 partecipa alla realizzazione del documentario “The Caucasus Triangle” girato tra Georgia, Armenia, Azeribaijan, Nagorno-Karabakh. Nell’autunno del 2011 viaggia di nuovo tra Caucaso e Medio Oriente, dove realizza un nuovo reportage per Osservatorio Balcani e Caucaso: Dal Caucaso a Beirut. Nel 2012 è sul confine turco-siriano, da dove segue gli sviluppi del conflitto in atto.
Filmografia:
Terra di Transito (2014) – Riammessi (2013)
Just about my Fingers – Storie di Confini e Impronte Digitali (2012)
DA VEDERE
Terra di transito, trailer
[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=5gJB27raA-I[/youtube]
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