di Giuseppe Vinci
Olivo, considerazioni su disseccamenti e fisiologia
L’olivo non è un albero ma un arbusto che tende a tornare allo stato selvatico. Non è una pianta che nasce naturalmente a fusto, ma a questa condizione è stata portata dalla mano dell’uomo/agricoltore. A differenza della stragrande maggioranza delle altre piante a fusto il sistema vascolare dell’olivo (xilema/floema), non è collocato al centro del fusto/tronco, ma nella parte subito sottostante la corteccia. Caratteristica quest’ultima che ha permesso a questa pianta la possibilità di una vita millenaria.
La proprietà radicante e pollonante del fusto permette all’olivo di ricostituirsi anche in seguito a grossi tagli delle branche principali o del tronco, in seguito ad attacchi di ogni sorta di patogeni che inducono disseccamento, forti abbassamenti di temperatura e quando non solo la chioma ma anche il fusto siano stati distrutti. La caratteristica pollonante è dovuta alle gemme avventizie che si generano principalmente nelle formazioni neoplasiche (iperplasie), in particolar modo quelle alla base del tronco, ovvero la parte iniziale dell’apparato radicale (ovoli).
Anche quando un olivo e sottoposto ad attacchi multipli e contemporanei come quelli prima accennati, tanto da mettere a rischio o distruggere l’apparato vascolare (xilema/floema), per l’Olivo è sufficiente avere a disposizione una piccola porzione di apparato vascolare (formazione neoplastica – iperplasia), perché l’olivo ritorno a vivere e fruttificare.
E proprio in base a questo principio che la ricerca scientifica negli anni ’90 ha iniziato a micropropagare in vitro (cioè in laboratorio) l’olivo utilizzando cellule provenienti dall’apparato vascolare. Il business dei cloni di olivo micropropagati sottoposti a brevetto è di dimensioni impressionanti. A questo business sono interessate diverse aziende Italiane e soprattutto il colosso Spagnolo Agromillora, leader mondiale nel settore delle piante di olivo. Molto interessante, per comprendere la natura perenne dell’olivo, è la conoscenza del sistema di vita dell’apparato radicale. Vale la pena in questa occasione, visto che in questi anni stiamo affrontando con una certa preoccupazione la questione del disseccamento attribuito al batterio Xylella fastidiosa, di soffermarci sulle attività agronomiche svolte proprio in prossimità dell’apparato radicale.
Di fatti negli ultimi venti anni, e non solo in Salento, si sono andate perdendo quelle conoscenze empiriche che per millenni si sono tramandate tra gli olivicoltori e che oggi definiamo come “buone pratiche agricole”. Vero è che, da una parte il facile e continuato diserbo, lo stato di inquinamento dei terreni che spesso si presentano aridi, privi di sostanza organica, compatti come e più di un campo da tennis in terra battuta tanto da far verificare forti ristagni di acqua che nel lungo periodo causano soffocamento radicale e/o marciscenza, e dall’altra la lavorazione profonda del terreno in prossimità della chioma e in corrispondenza dell’apparato radicale, hanno creato una situazione di stress continuo alle piante e questo in particolar modo in non poche aree del Salento. A questo si aggiungono tutti gli altre condizioni di sofferenza succitate: capitozzature scellerate nei tempi e nei modi (rami, branche e tronco), attacchi patogeni alle ferite non curate e praticate con lame da taglio mai disinfettate, persistenti condizioni di umidità e alte temperature estive.
Le immagini che troppo spesso vengo proposte dai media (non ultima quella proposta da La Stampa di domenica 9 ottbre), mostrano l’ormai tristemente famoso cimitero degli olivi. Pochi si soffermano a fare un’analisi di quello che si osserva, come ad esempio le capitozzature drastiche a branche principali e al tronco e le fin troppo evidenti tracce di diserbo. Una situazione indotta non solo da cattive pratiche agricole (da ergastolo! – come nel caso dell’area di Gallipoli – Ugento – Taviano e dell’area che da Casarano arriva fino alle porte di Supersano), indotta dai consigli perentori, da mettere in pratica immediatamente, in pieno mese di agosto dell’anno 2013 fino ad oggi, dai responsabili dell’Osservatorio Fitosanitario Regionale (fanno fede le diverse testimonianze in video).
Ebbene si, chi avrebbe dovuto dare consigli di cura, proprio in piena emergenza ha dato consigli di tortura. Tanto da far precipitare ancora di più la situazione. Fortuna vuole che si tratta di aree limitatissime, contrariamente alla assurda propaganda che ancora oggi non pochi responsabili di associazioni di categoria e fidi sodali insistono nel fare raccontando che sta seccando tutto. Per questo rinnovo l‘invito a chi ne avesse la possibilità di prenotare una breve vacanza in Salento, anche un fine settimana, per avere contezza diretta dello stato dell’arte, fermo restando le le condizioni generali dell’olivicoltura soprattutto in Salento non sono proprio le migliori.
Ciò nonostante, l’olivo non muore e quando sembra spacciato, anche dopo lunghi mesi di attesa torna a germogliare e spesso anche a fruttificare. Ora, chi ha esperienza di olivicoltura e relative pratiche agronomiche, magari associate a conoscenze di carattere scientifico, tragga le proprie conclusioni.
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L’olivicoltura tradizionale è in crisi?
Stando alle opinioni di non pochi “esperti” di olivicoltura (chi gli avrà mai dato questo attributo?), le cultivar di olivo “troppo” antiche, come quelle presenti in buona parte del territorio pugliese, non risultano essere adatte alla “competizione internazionale”. Se non fosse chiaro, “nutrire”, perché olive e olio servono innanzitutto a nutrire, si riduce a mera competizione. Come dire che, per vivere, le società umane devono competere tra di loro piuttosto che cooperare.
Il liberismo ha snaturato il pianeta Terra, compreso il genere umano. Anzi, se proprio devo dirla tutta, il genere umano, con il liberismo, con questo liberismo in cui le regole (anche quelle sociali, costumi e mode comprese), sono demandate ai mercati, ha fatto della vita (bios), una competizione. È sotto gli occhi di tutti che, questo competere, nelle società più evolute ed emancipate (non si sa poi rispetto a cosa), si sostituisce alle guerre armate. La competizione si sostituisce alla guerra, la sussume. È così che i danni collaterali di questa nuova modalità di fare la guerra, che si combatte sul piano economico e finanziario, è in grado di spalmare e frammentare nello spazio tempo, distruzione e morte, tanto da non farle apparire come una conseguenza delle bombe. Eppure, lo smantellamento dello stato sociale, la crescente disoccupazione, l’incontenibile declino economico, non sono altro che veri e propri bollettini di guerra.
Siamo chiaramente in presenza dell’ennesimo dogma liberista, senza alcun fondamento logico, razionale, neppure ragionevole, piuttosto impositivo, arrogante, violento, come sa fare l’essere per la guerra.
Ma torniamo all’olivicoltura. Come si risolve questo problema atavico della troppo antica olivicoltura a quanto sembra non al passo con i tempi? Secondo la propaganda del regime liberista (che vede attivamente partecipi non pochi politici locali, regionali e nazionali, compresi illustri rappresentanti in seno alla Ue – dovremmo chiamarli lobbisti, visto che non sono stati eletti dal popolo ma nominati dai partiti – dirigenti, associazioni di categoria, ricercatori pubblici – pagati dallo Stato con denaro pubblico! – in pieno conflitto d’interesse, e naturalmente imprese), bisognerebbe cancellare da un giorno all’altro, proprio come fa la guerra, interi paesaggi per ridisegnarli, mettendo a repentaglio equilibri agro-ambientali già resi fragili, precari da pratiche agricole e industriali scellerate, criminali.
Il mantra è quello dell’olivicoltura super intensiva a base di varietà moderne, resistenti ai patogeni (l’avvento del batterio Xylella fastidiosa sembra quanto mai tempestivo) e alle asperità ambientali, maggiormente produttive e remunerative, più comode da gestire, da sostituire e reimpiantare ogni vent’anni, insomma alla moda, al passo coi tempi. Siamo già in pieno regime di varietà incrociate, varietà clonali micropropagate e nel frattempo si prelude agli Ogm che però necessitano del continuo supporto della chimica, innescando un meccanismo perverso di continua dipendenza dagli agrofarmaci di sintesi e quindi dalle multinazionali. Un chiarimento in tal senso lo offre il professor Pietro Perrino (già direttore dell’Istituto del Germoplasma Cnr Bari).
“A tal proposito l’idea di sostituire le varietà suscettibili (per esempio l’Ogliarola) con quelle resistenti/tolleranti (il Leccino) sarebbe una follia, per il semplice motivo che nel tempo i patogeni possono specializzarsi nel mettere a punto nuovi meccanismi di attacco e quindi le varietà resistenti/tolleranti possono diventare suscettibili. E saremmo punto ed a capo. Quello che impedisce ai patogeni di diventare virulenti è proprio la biodiversità. La mole di dati esistenti in letteratura è sufficiente a confermarlo. Sulla base di questo semplice principio, l’unica arma vera contro i patogeni e la loro diffusione è la coltivazione di più varietà nello stesso campo”.
E dunque, si vorrebbe fare piazza pulita della piccola proprietà fondiaria, dell’attuale sistema olivicolo, di intere economie famigliari, di un sistema sociale e culturale che ha radici antiche, secolari, millenarie, che caratterizza le identità di interi territori e popolazioni, le quali, pur essendo antiche nell’essenza, non hanno mai disdegnato di vivere nel tempo corrente. Salvo che per coloro – e purtroppo non sono pochi – il quali in questo momento di transizione epocale, cadono come in coma, rapiti dagli inganni delle chimere liberiste, tanto da convincersi del fatto che “la guerra fa bene all’amore”.
A rischio è anche e soprattutto l’agro-biodiversità, anche in ambito olivicolo. A riguardo vale la pena di soffermarsi ancora una volta sulle parole del professor Perrino il quale evidenzia:
“Perché insistere con la monocoltura e l’agricoltura intensiva? Se il motivo è di essere più competitivi con altri Paesi, la risposta è che oggi ci troviamo in una situazione disastrosa, sotto molti punti di vista, proprio per colpa di politiche basate sulla competizione invece che sulla cooperazione e sulla qualità delle produzioni più che sulle quantità. L’umanità non ha bisogno di quantità, ma di qualità”.
Ora, se è vero che le cultivar esistenti sono più di cinquecento, le stesse si trovano differenziate da territorio a territorio non a caso. Le antiche cultivar (perché ce ne sono di moderne?! ah già, negli ultimi mesi abbiamo sentito parlare della munifica varietà “lecciana”, frutto dell’incrocio tra leccino e arbesana), hanno caratterizzato i paesaggi e quindi le culture e le economie di base. Nei secoli, nei millenni, cultivar come le frantoio pugliesi (oliarola, cellina, cima, ecc.) hanno avuto il tempo “lento” e necessario, anche sotto il profilo della genotipizzazione, di adattarsi ai diversi ambienti, sviluppando quelle caratteristiche spesso uniche che, rispetto ai luoghi e nei “tempi”, andrebbero meglio e adeguatamente qualificate, a partire dai metodi colturali (corretta conduzione dell’oliveto, raccolta, molitura, confezionamento e vendita) facendone veri e propri punti di forza. Si tratta dunque di visione e volontà, di quello che vogliamo per il nostro futuro.
Come dire: questo siamo noi, il nostro essere al di là dei tempi, con le nostre qualità e caratteristiche, e non altro. Quell’essere che per affermare la propria esistenza ed essenza, non ha bisogno di partecipare a nuovi scontri di civiltà, a nuovi massacri, allo stravolgimento dei territori, delle economie di base, delle radici, anche culturali, di combattere un nemico voluto da un’entità invisibile, di partecipare a una competizione nella quale non ci sono vincitori ma ci sono solo vinti: gli uomini, la terra, la vita (bios).
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