L’abitudine a trattare gli esseri viventi non umani come cose è antica e profondamente radicata nelle nostre culture dominanti. Cose da vendere e comprare, che acquisiscono dunque un prezzo, non appena l’immagine della loro rappresentazione si allarga ai giganteschi allevamenti intensivi di animali destinati a diventare cibo. Si tratti di galline, salmoni, maiali o vitelli, poco cambia: le condizioni di accatastamento e l’indifferenza con cui i futuri pranzetti vengono sottoposti a sofferenze indicibili prima di arrivare nei mattatoi automatizzati sono ben note. In questi ultimi mesi, però, la diffusione del virus che ha terrorizzato i media del mondo intero impone, forse, altre considerazioni sulla mercificazione del vivente. La prima deriva dall’origine stessa del virus, dal suo noto “salto di specie” e dalle straordinarie potenzialità di diffusione che offrono sempre inediti processi di invasione degli habitat, con le deforestazioni e la colonizzazione di immensi allevamenti in aree isolate o estreme. Si pensi all’Amazzonia brasiliana, per fare solo un esempio. La seconda riguarda un secondo, diverso “salto di specie”, quello che investe gli umani “improduttivi”, gli anziani abbandonati al loro destino nei “residence”, oppure giudicati di scarso valore, come i detenuti o i migranti e le persone fuggite da guerre e disastri ambientali, selezionate alle frontiere nazionali, rinchiuse nei ghetti o ammassate nei centri “esclusivi” a loro riservati. Il profilo necropolitico delle selezioni tra esseri viventi corre, forse, verso un nuovo salto di qualità

Sulla spiaggia di Camogli un capriolo corre da solo in riva al mare, a volte tuffandosi tra le onde. Queste immagini, condivise in rete sotto forma di video, forse hanno emozionato chi ha potuto vederle: per la loro poeticità, per il senso di gioiosa libertà che evocavano. Incanto ed empatia del tutto effimeri poiché, poco dopo, qualche insensato esemplare di homo sapiens gli si è avvicinato troppo, spaventandolo a morte, in senso letterale.
Il capriolo è fuggito, a giusta ragione: viveva in un’area di boschi e radure ove la caccia ai suoi simili nonché ai daini è consentita e abituale. Perciò, terrorizzata, la povera creatura ha tentato di oltrepassare un cancello: ne è stata infilzata sicché, dopo un’ora di atroce sofferenza, è stata pietosamente finita da un veterinario dell’Enpa. La vicenda crudele, accaduta il 14 aprile scorso, sembra una metafora della pandemia attuale, se è vero che essa ha a che fare anche con la consueta attitudine degli umani a reificare i non-umani, così che essi non vengono percepiti e concepiti quali sono: esseri senzienti, sensibili, singolari.

La loro reificazione è divenuta mercificazione massiva con gli allevamenti intensivi e i mattatoi automatizzati, propri delle società industriali-capitalistiche: strutture concentrazionarie che, favorendo il “salto di specie”, rappresentano una delle cause che hanno provocato la pandemia attuale, al pari di non poche altre precedenti. Basta citare la Sars («Sindrome respiratoria acuta grave»), che si diffuse tra il 2002 e il 2003, ugualmente provocata da un coronavirus.
Tutto ciò è dialetticamente connesso con i processi rapidi e sempre più dilaganti di deforestazione, urbanizzazione, industrializzazione, anche dell’agricoltura, che sottraggono progressive porzioni di habitat agli animali detti selvatici. I quali, se sopravvivono, non possono che approssimarsi agli insediamenti umani e quindi anche agli animali «da allevamento», tra i più vulnerabili poiché immunologicamente depressi a causa delle condizioni e del trattamento estremi cui sono sottoposti (fra l’altro, la somministrazione di dosi abnormi di antibiotici).

In un volume di vent’anni fa, tragicamente attuale, Homo sapiens e mucca pazza, scrivevo che chi acquista, per esempio, «carne di vitello ignora o vuole ignorare che la chiarezza di quella chair (carne umana) divenuta viande è ottenuta costringendo il cucciolo di bovino a vivere la sua breve vita nell’immobilità assoluta, imbottito di ogni genere di farmaci che ne invecchiano rapidamente gli organi, imprigionato in uno spazio angusto e buio».
Se le ragioni della propensione a cibarsi di «carne» vanno ricercate soprattutto sul versante del mercato e degli interessi dell’industria zootecnica, non va trascurata l’importanza della ragione simbolica: nel 1992, Jacques Derrida in Points de suspension aveva delineato la figura di una soggettività «carneo-fallogocentrica», propria del soggetto maschile, detentore del logos e, per l’appunto, carnivoro. Si aggiunga la crudele manipolazione di viventi che si compie con gli esperimenti di transgenesi, clonazione e così via. Con gli animali-laboratorio, il ciclo maledetto che ho tratteggiato tocca il culmine. Sicché non è troppo azzardata l’analogia con le pratiche naziste di riduzione di corpi umani a manichini, strumenti, cavie per la realizzazione di atroci esperimenti «scientifici».
E tuttavia, in piena crisi pandemica, allorché la consapevolezza della centralità del tema del nostro rapporto perverso con gli ecosistemi e con i non-umani avrebbe dovuto essere largamente condivisa, tanto più da dotti, qualcuno si lasciava andare ad affermazioni sconcertanti. Alludo al virologo Roberto Burioni, il quale, in tv si augurava che anche «i nostri amici a quattro zampe» possano contrarre il Covid-19 perché questo «ci permetterà di avere un notevole vantaggio nella sperimentazione dei vaccini».
Eppure è ben noto che il modello degli esperimenti su non-umani, oltre che eticamente inaccettabile, è ormai così costoso e sorpassato da rendere assai improbabile la realizzazione di farmaci e vaccini efficaci. Tutto ciò non riguarda solo il destino dei non-umani. Un’ideologia e pratiche analoghe guidano la sacrificabilità selettiva degli umani, i più vulnerabili, esposti, precari e/o alterizzati, come abbiamo constatato anche nel corso dell’attuale pandemia.

Si pensi ai decessi di massa, prevedibili, in non pochi casi colposi, nelle residenze per anziani. E si consideri la condizione dei detenuti nelle carceri o nelle prigioni extra ordinem che sono i Cpr, nonché quella dei senzatetto, italiani e stranieri, perfino richiedenti-asilo, ma anche dei braccianti immigrati rimasti intrappolati nei ghetti, a rischio di morte per inedia…Per non dire delle stragi nel Mediterraneo, che neppure la pandemia ha arrestato. Per intaccarlo, quest’ordine perverso, ma anche per impedire che lo stato di eccezione si tramuti in forma ordinaria di governo, dovremmo radicalizzare, lucidamente e coerentemente, la critica del capitalismo globale, sempre più predatorio e mortifero.
Sai , io sono vegetariana dal 1972, quindi sono una “vecchietta” e quello che tu scrivi (immagino che tu sia giovane)mi piacerebbe che possa essere condiviso e compreso da tanti giovani. Io allora ho fatto la mia scelta, morale, politica, eppure …Il vero salto che servirebbe oggi, è quello delle coscienze, spero che diventi ora una necessità, se proprio non si riesce a sentirci “animali tra animali”, senza presunzione di superiorità alcuna. Povero Burioni…
Peccato che durante questa pandemia abbiamo trascurato due tipologie di animali chiusi in doppie gabbie durante il lokdown.
Della popolazione carceraria ci siamo interessati poco. Delle persone nelle case di riposo ci siamo così tanto disinteressati che li c’e stato il numero più altro di “morti evitabili” come si è verificato in tutt’europa ..,da marzo 2020 in avanti. Una distrazione anche da parte delle riflessioni femministe che non so spiegarmi.