Non ci sono più narrazioni comuni capaci di tenere insieme la società, sostiene Byun-Chuk Han, noto filosofo nato a Seul e poi andato a vivere in Germania. Il suo “Infocrazia“, un saggio breve e stimolante che prende in esame il peso dell’informazione sulla disgregazione sociale e la deformazione della realtà, ha fatto e fa molto discutere. Raúl Zibechi associa a un’affermazione essenziale del fisico austriaco Fritjof Capra la sferzante critica di Han alla frenesia della comunicazione a ciclo continuo e a un sistema che ci trasforma in miniere di dati da estrarre: l’informazione non è la base del pensiero, non pensiamo con le informazioni ma con le idee. E le idee, che vengono dalle esperienze (non dalla conoscenza delle notizie), sono sempre state ritenute pericolose (dal sistema che domina), perché possono dare senso alla realtà e alle vite e mettere a nudo i meccanismi dell’oppressione. Senza idee e senza esperienza vitale, avverte Zibechi, l’umanità sta naufragando verso l’abisso. Il bombardamento di informazione inutile, in modo particolare sui più giovani, non lascia in dote nulla e crea una gigantesca nube di confusione. Un’informazione intossicata e il blocco delle idee sono un bel guadagno per il sistema, possono dunque esser letti come un’immensa politica di contro-insurrezione. Come difendersi? Raúl cita esperienze indigene che si sottraggono – o almeno provano a limitare l’incessante attività predatoria della nostra attenzione e del nostro tempo. Anche il silenzio può essere una forma di lotta e di resistenza politica, come hanno spiegato già molti anni addietro, gli zapatisti. Quel che appare certo, nel caos sistemico in cui navighiamo, è che dobbiamo dirci che la portata dei cambiamenti in atto è enorme quanto difficile da leggere. Nel cercare di evitare esitazioni e reticenze sul mimetismo delle tecnologie che sembra paradossalmente renderci più liberi che sorvegliati, così come gli eccessi di schematizzazione di processi molto complessi, possiamo tuttavia riuscire a leggere, più o meno in profondità, che le rovine del mondo che da tempo va in pezzi esprimono ancora molte tensioni e grandi contraddizioni. Non sono necessariamente l’ultimo o il solo scenario in cui siamo destinati a vivere
In una recente intervista, Byun-Chuk Han, filosofo tedesco nato in Corea del Sud, segnala che “siamo molto ben informati, ma in qualche modo non riusciamo a orientarci”. Le sue argomentazioni sulle conseguenze sociali del sovraccarico di informazioni di cui soffriamo erano già state analizzate nel suo libro Infocrazia. Le nostre vite manipolate dalla rete, pubblicato un anno fa.
Han attribuisce buona parte dei problemi di cui soffriamo come società all’informatizzazione. Dice che l’ego narcisistico rivolto verso dentro “è la causa della disgregazione sociale”, perché “tutto ciò che unisce e connette sta scomparendo”, neutralizzando la possibilità di considerarci una sola società. La conclusione è che già non ci sono più “narrazioni comuni che uniscano le persone”.
Distingue tra verità e informazione, assicurando che la seconda è centrifuga e distrugge la coesione sociale, mentre le vere testimonianze la tengono unita. “La verità illumina il mondo mentre l’informazione vive del fascino della sorpresa“, sentenzia, perché genera una successione di “momenti fugaci” che hanno il potere di oscurare la realtà e distorcere invece di informare.
Il filosofo tedesco continua aggiungendo argomentazioni, come il fatto che l’informazione ora non consente la creazione di una sfera pubblica. Ricordo, a questo proposito, che, fino a non molto tempo fa, in certe situazioni critiche le persone si accalcavano intorno alle edicole, commentavano e condividevano le notizie nello spazio pubblico. Ora invece non abbiamo più racconti comuni che orientino e diano un senso alla nostra esistenza. Non ci sono più nemmeno rituali, ci restano a malapena il consumo e la soddisfazione dei bisogni, dice in modo categorico Han.
Lui pensa che in futuro “le persone riceveranno un reddito di base universale e avranno accesso illimitato ai videogiochi”, la forma che assume ora la politica statale in tutto il mondo, in una nuova versione di panem et circenses.
Si potrà dire che non si tratta di una novità, ma della deriva di mezzo secolo di crescente posizionamento delle tecnologie dell’informazione al centro delle nostre vite. Il fisico austriaco Fritjof Capra completa il filosofo tedesco, quando spiega in questa frase: “L’informazione viene presentata come base del pensiero mentre, in realtà, la mente umana pensa con idee, non con informazioni” (La rete della vita).
Capra recupera molti dei concetti espressi dal romanziere statunitense Theodore Roszak in The Cult of Information. A Neo-Luddite Treatise on High-Tech, Artificial Intelligence, and the True Art of Thinking, pubblicato per la prima volta nel 1985, cioè quasi quattro decenni fa. Vi è contenuta una conclusione importante: “Le idee sono modelli che integrano. Non derivano dall’informazione, ma dall’esperienza“.
Con queste motivazioni si spiega tutto l’impegno del sistema nel limitare le esperienze di vita dei nostri giovani e nel sottoporli a un costante bombardamento di informazione che non lascia loro nulla, ma crea una gigantesca nube di confusione. Il consumismo, la “mutazione antropologica” di cui parlava Pasolini già mezzo secolo fa, è la loro principale finestra sul mondo, a parte ovviamente la trama dei loro dispositivi informatici.
In questo mondo sovraccarico di informazioni, non esistono idee, così come non ce ne sono nell’enorme flusso di dati su Internet. Perché le idee sono sempre state pericolose, sono quelle che possono dare senso alla realtà e alle vite, sono bussole per mettere a nudo l’oppressione. Senza idee e senza esperienza vitale, l’umanità naufraga verso l’abisso, proprio nel momento più critico che si ricordi, almeno a partire dalla peste nera (1347-53), remota origine del capitalismo*.
Intossicarci con l’informazione e bloccare le idee è un bel guadagno per il sistema. È questa la ragione per cui propongo di pensare all’utilizzo della Rete di Internet che fanno los de arriba, quelli che stanno in alto, come a un’immensa politica di contro-insurrezione. D’altra parte, i progressismi utilizzano e abusano della comunicazione per offrire un racconto delle loro presunte virtù, mai per dialogare alla pari con la gente comune. Riproducono la relazione sistemica soggetto-oggetto che dicono di voler combattere, ponendo i propri elettori in una situazione di destinatari passivi dei loro discorsi.
Per proteggere l’integrità delle loro comunità, i Mbya Guaraní di molti villaggi regolano i tempi di connessione a Internet, in modo che i loro figli e le loro figlie non rimangano inermi alla mercé di una valanga di dati che non sono in grado di ordinare né di selezionare. In questo modo rifiutano di esporsi al potere disorganizzante dei social network. Non sono pochi i popoli originari che lo fanno, semplicemente per difendersi.
Il lungo silenzio dell’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, più di un anno senza emettere comunicati, può essere inteso come un rifiuto di entrare nel circo mediatico a cui pochi prestano attenzione, e che ancor meno comprendono. È il silenzio della rabbia, e della dignità. La Quinta Dichiarazione della Selva Lacandona (1998) spiegava già che il silenzio può essere una forma di lotta e che “con la ragione, la verità e la storia, si può combattere e vincere… tacendo”.
*The Black Death, 1346-1353: the complete history by Ole J. BenedictowOle J.
Fonte e versione originale in La Jornada
Traduzione per Comune-info: marco calabria
Ed dice
GRAZIE!
Rossella dice
È proprio così…ma la cosa più triste è che ” per parlare male della rete ” e di come l’eccesso di informazioni che ci vomita addosso ogni giorno da tutte le realtà tecno-mediatiche lo si debba fare utilizzando esattamente le stesse modalità, in poche parole per parlare male del circo lo si debba fare dentro il circo stesso …
Grazie per questa bellissima lettura , la condividerò ( utilizzando la tecnologia …triste , ma è così)
Ugo Zamburru dice
Ero con Zibechi in Messico alla carovana El sur resiste.e abbiamo visto come si resiste all’ intossicazione e manipolazione delle informazioni. E lo abbiamo fatto vivendo nelle comunità, facendo esperienza.