di Deirdre Pearson*
Non sono mai stata aggredita sessualmente.
Quando avevo cinque anni frequentavo un asilo familiare, gestito da una donna che aveva un figlio maschio e alcune figlie (la combinazione fra l’età che avevo all’epoca e gli anni che sono trascorsi mi impedisce di ricordare con precisione quante). Le figlie della donna erano più vecchie di me, ma più giovani del ragazzino. Lui avrebbe potuto essere in terza media o persino alle superiori, per me, era solo un “ragazzo grande”.
Questo ragazzo non mi piaceva perché mi forzava a star seduta in braccio a lui e non mi lasciava alzare, facendo ridere gli altri bambini mentre le sue sorelle dicevano che io gli piacevo. Aveva un roditore come animale da compagnia – un criceto o un gerbillo, forse – in una gabbietta sul comò della sua stanza da letto. La promessa di tenere in braccio questa piccola creatura fu irresistibile, così lasciai che mi guidasse nella sua stanza, della quale chiuse prontamente la porta a chiave. Le mie mani erano sul comò per tenermi salda quando sentii che i miei jeans venivano rapidamente abbassati. Immediatamente cominciai a piangere e il ragazzino, incapace di calmarmi, mi permise di tirarli e su e aprì la porta per farmi uscire.
Ho frammenti di altri ricordi del mio periodo in quell’asilo, anche se sono annebbiati: io distesa sul suo letto che guardo l’orlo delle mie mutandine a fiori spuntare dai miei pantaloni slacciati; il fingere di avere mal di stomaco perché così mi sarebbe stato permesso restare in cucina con sua madre a bere Pepto-Bismol (Ndt.: farmaco a base di subsalicilato di bismuto usato per fastidi gastrointestinali leggeri) sino a che mia madre veniva a prendermi.
… cos’altro è accaduto che io non riesco a ricordare?
Implorai mia madre di mandarmi in un altro asilo, ma non le dissi perché. Ero profondamente imbarazzata e non avevo parole per descrivere quel che era successo.
Non sono mai stata aggredita sessualmente.
Avevo otto anni e stavo andando in bicicletta su una strada maestra della mia città quando un gruppo di uomini in auto mi passò accanto. Non li avrei neppure notati se uno di loro mi non avesse urlato: “Voglio leccarti la passera!” dal finestrino abbassato. Gli uomini probabilmente risero e dimenticarono rapidamente l’episodio, ma io no. Le parole bruciavano nel mio stomaco e, di nuovo, ero io quella che provava vergogna. Non ero neppure arrabbiata con quest’uomo e i suoi amici, solo imbarazzata dal fatto che fosse accaduto a me. Come risultato, non l’ho mai detto a nessuno e, ad ogni modo, quale crimine era stato commesso? Nessuna denuncia fu fatta.
Non sono mai stata aggredita sessualmente.
Un giorno, quando avevo tredici anni, stavo camminando nel corridoio fra le classi della mia scuola. Ero sola e vidi un ragazzo che non mi piaceva camminare verso di me. Lui e un altro dicevano spesso cose oscene alle mie amiche e a me. Una volta ci avevano seguite per strada per un bel pezzo, parlando ad alta voce di quel che avrebbero potuto farci, vantandosi che non saremmo state in grado di impedirglielo.
Quando mi si avvicinò nel corridoio, io mi spostai verso il muro per distanziarmi da lui il più possibile, ma non servì. Il ragazzo mi schiacciò contro il muro, mi bloccò le braccia che erano piene di libri. Avvicinò la sua faccia alla mia e infilò una mano sotto la mia camicia, strofinando il cavallo dei miei jeans con l’altra.
Mentre entravo nella mia classe la mia faccia bruciava di vergogna e speravo che nessuno avesse visto niente. Quando mi chiesero se c’era qualcosa che non andava mi rifiutai di ammetterlo. Mentii e dissi che non mi sentivo bene. Non sfiorò neppure la mia mente la possibilità di dirlo a qualcuno. Ero completamente umiliata. Nessuna denuncia fu fatta.
Non sono mai stata aggredita sessualmente.
Quando avevo quinici anni, conoscevo un ragazzo di un paio d’anni più grande di me il cui padre ci permetteva di bere in casa sua. Perciò è quello che facevamo… un bel po’.
Un pomeriggio ero lì a bere con due ragazzi e bevvi tanto da star male. Vomitai oltre la staccionata del portico frontale, tanto ubriaca ero. Uno dei ragazzi (che più tardi sposò una mia amica) si mise dietro di me, mi slacciò il reggiseno e mi palpò i seni mentre rigettavo.
La mattina dopo, ricevetti una chiamata telefonica da un’amica: mi disse che il ragazzo aveva detto a tutti che avevamo fatto sesso. Io non riuscivo a ricordare molto di quel che era accaduto, ma sapevo che questo non era vero. Avevo le mestruazioni e non avevo portato tamponi con me, ma quando mi ero svegliata il mio tampone era esattamente dove lo avevo messo prima di cominciare a bere.
Non potevo parlare a nessun adulto di quel che lui aveva fatto, io non avrei dovuto bere e non volevo avere guai o farli avere al padre del mio amico. All’epoca, credevo il bere un segreto che doveva restare nascosto. “Svenuta o fatta svenire” erano inoltre, in quegli anni, situazioni ritenute valide per i ragazzi per fare sesso. Nessuna denuncia fu fatta.
Non sono mai stata aggredita sessualmente.
A diciotto anni, vivevo con il mio ragazzo. Una notte, andai a dormire prima di lui. Ero profondamente addormentata dalla mia parte del letto quando dovetti svegliarmi perché lui mi stava penetrando da dietro, dopo avermi sfilato le mutande. Ero scioccata, ma non mi è passato per la testa che fosse stupro. Lui era il mio ragazzo.
Quando gli chiesi che stava facendo, mi accusò di farlo aspettare troppo per il sesso e mi pregò di lasciarlo finire. Lo feci. Anni dopo, quando già lo avevo lasciato, una vicina di casa mi disse che l’aveva stuprata. Nessuna denuncia fu fatta.
Non sono mai stata aggredita sessualmente.
Io continuo a ripetere questa frase perché nessuno degli incidenti descritti è incluso nelle statistiche della violenza sessuale contro donne e bambine. Sono ben lungi dall’essere l’unica. Sono sicura che ogni donna può collegarsi ad almeno uno di questi incidenti. E la maggioranza di essi non sono mai denunciati.
Ci sono moltissime ragioni sul perché bambine e donne scelgono di non dire a nessuno degli assalti sessuali che subiscono. Non lo diciamo perché non capiamo che sta succedendo, o perché siamo piene di vergogna, imbarazzate e spaventate. Non lo diciamo perché non vogliamo sentirci rispondere che “ce la siamo voluta”, che “ci piaceva” o che siamo bugiarde.
Quando lo facciamo, ogni domanda che ci è posta al proposito indica scetticismo. Dobbiamo raccontare la storia nello stesso identico modo ogni volta e siamo costrette a rivivere l’aggressione ripetutamente. Non dobbiamo ricordare nuovi dettagli, quale che fosse la nostra età o il nostro grado di intossicazione al momento, perché ciò suscita dubbi.
Dobbiamo prepararci al fatto che il nostro comportamento prima, durante e dopo l’assalto sarà analizzato e sapere che tale comportamento potrà essere usato per screditare ciò che raccontiamo. Sappiamo che se falliamo nell’essere considerate attendibili, ci sarà detto che meritiamo di essere punite per aver accusato un ragazzo o un uomo innocente e per aver tentato di distruggere il suo futuro. Dobbiamo far denuncia immediatamente dopo l’aggressione e non dobbiamo farci la doccia, anche se quello è il momento in cui la desideriamo maggiormente.
Non ha importanza quel che diciamo o facciamo, qualcuno risponderà: “Nessuno può sapere cos’è davvero successo, a meno di essere stato presente”. Come se le donne fossero così inaffidabili in modo inerente che le loro parole non possono essere credute, a meno che qualcuno non abbia visto accadere l’assalto con i propri occhi. Ma se la testimone del fatto è femmina, diventa subito anch’essa inaffidabile: ha pregiudizi, ovviamente.
Le aggressioni e le risposte a tali aggressioni devono adattarsi bene a una narrativa accettata dalla società, altrimenti noi siamo screditate.
Perciò, quando chiedete perché le donne non parlano, perché non denunciano, perché restano in silenzio per anni e decenni, io non vi credo. Voi sapete perché.
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