di Maria G. Di Rienzo*
“Quando parlo con adolescenti accade che non riconoscano sempre come violenza ciò di cui stanno facendo esperienza in una relazione. Per una gran parte di loro si tratta del primo incontro in uno scenario ‘romantico’, perciò possono non sapere che non è sano. Il punto d’inizio della prevenzione, per fermare la cosa ancor prima che inizi, è che noi si voglia comunicare agli adolescenti messaggi relativi alle buone relazioni. Cioè, che tu hai il diritto di essere al sicuro in una relazione e che se un partner ti fa provare paura o ti ferisce questo non va bene, e che tu hai il diritto di andartene e chiedere aiuto”. Deinera Exner-Cortes, ricercatrice alla facoltà di Assistenza Sociale dell’Università di Calgary, Canada. La sua ultima ricerca in merito (2017) mostra come la violenza nelle relazioni fra adolescenti sia parte di un ciclo che si propaga sino all’età adulta.
Tutto giustissimo. C’è un solo punto debole: che la comunicazione sembra diretta principalmente alle potenziali vittime e non ai perpetratori.
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In Danimarca, il piano nazionale d’azione contro la violenza di genere prevede speciali iniziative sulle relazioni dirette alla fascia d’età 15-18 anni. Oltre ad aver creato specifici programmi di orientamento e sostegno per le giovani vittime tenuti da personale debitamente formato, organizza nelle scuole giornate tematiche sulla violenza nelle relazioni e dedica ad esse persino un concorso, in cui gli/le studenti possono esprimere i loro sentimenti e ragionamenti tramite racconti, canzoni e varie forme d’arte visiva.
Questo va ancora meglio. Le iniziative sono riuscite a nominare la violenza contro le donne come il principale problema da risolvere nell’intero scenario (se non altro, le percentuali costringono a farlo), il discorso comunicativo si è allargato, ma i messaggi appaiono ancora come diretti in primo luogo alle potenziali vittime e non ai perpetratori.
Su questi giovani picchiatori – stupratori – assassini, soprattutto in Italia e soprattutto se sono italiani, c’è un sacco di gente che “non vuole giudicare” e sostiene che “dobbiamo interrogarci” e cerca di scavare ragioni da miti greci e pistolotti psico-sociologici e riveriti autori. In pratica, nessuno vuol dire all’assassino di Noemi Durini che uccidere è sbagliato, usando come pretesto il fatto che l’autore dell’omicidio ha 17 anni.
Naturalmente, se ne avesse avuti 27 o 37 dovremmo interrogarci sulla disperazione di una generazione senza futuro, e se ne avesse avuto 47 o 57 o 67 ecc. dovremmo interrogarci sull’ansia di generazioni in cui la mascolinità si sente messa in pericolo dalla parità sociale fra donne e uomini (che in Italia esiste solo – e nemmeno sempre – sulla carta) eccetera, eccetera. Quindi: ai perpetratori di femicidio / femminicidio, qualsiasi sia la loro età, è dovuto un lungo e dettagliato rendiconto di vicende storiche e personali atto a “comprendere” le loro motivazioni. Nessuna condanna, se non quella d’obbligo contenuta nelle frasi trite del tipo “ovviamente non avrebbe dovuto, però…”.
Però non riusciamo a dire che sì, le donne muoiono per mano degli uomini molto molto molto più del contrario. Non riusciamo a dire che la violenza nei loro confronti ha le sue origini nei prodotti del patriarcato: sessismo, misoginia, discriminazione di genere. Non riusciamo a dire che la violenza contro le donne è di continuo razionalizzata, giustificata, glorificata ed erotizzata.
Ma se non riusciamo a dirlo, non c’è alcuna speranza che la violenza cessi. Se non riusciamo a dirlo, trovare la prossima Noemi sotto un mucchio di pietre è solo questione di tempo. Se non riusciamo a dirlo e ad agire di conseguenza, la prossima Noemi l’avremo uccisa anche noi.
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