Sono stati, e sono ancora, i giorni del “muoiono solo anziani e malati”. Ci siamo abituati a quelle parole ripetute all’infinito, utili a creare paure come a sedarle. L’assuefazione ci ha fa accettare tutto. “Muoiono solo anziani e malati”, è normale. E non ci siamo accorti che di normale non c’era e non c’è proprio nulla, che chiunque, soprattutto chi è più fragile, in una società dal volto umano dovrebbe essere difeso per primo. Sono stati e sono ancora i giorni del virus della selezione, lo stesso con cui guardiamo alla società con le lenti del Pil, il garante dei migliori produttori, gli abili, giovani, i forti, quelli che dobbiamo preservare. Non si tratta di migliorare la fase 2 o di ripartire con più forza, no, dobbiamo pensare l’impensabile…

“Muoiono solo anziani e malati”, così hanno cominciato a rassicurare la gente quando si è affacciata alla finestra del nostro mondo la minaccia di un virus che stava attaccando la società e metteva in pericolo la nostra salute e la nostra stessa vita. “È una semplice influenza”, “sono tutti in paranoia”, hanno aggiunto e ci hanno tranquillizzato tutti, dai politici agli specialisti. E noi a seguirli connessi a un computer o davanti a uno schermo. Le stesse parole ripetute all’infinito, tutti bravi a creare paure come a sedarle. Pochi fuori dal coro.
È facile raccogliere queste rassicurazioni di fronte a un pericolo tanto minaccioso. Ed è successo che almeno per un istante, abbiamo considerato una cosa normale che potevamo stare tranquilli perché quel virus che, arrivava dalla Cina, colpiva solo chi aveva vissuto abbastanza o già era malato e fragile.
“Muoiono solo anziani e malati”, è normale, accettabile e non ci siamo accorti che di normale non c’era proprio nulla, che chiunque, soprattutto chi è più fragile, in una società dal volto umano deve essere difeso, curato: è un diritto in una società che voglia dirsi democratica.
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L’abitudine, l’assuefazione ci fa accettare tutto. La tecnica retorica della ripetizione continua di un messaggio ha come effetto la persuasione soprattutto se si innesta nell’inerzia del pensiero dei più: un pensiero, che riteniamo essere di tutti, rende normale ciò che normale non dovrebbe essere. C’è bastato saper che non eravamo noi a essere in pericolo, che non era un nostro problema. Da sempre questo atteggiamento mentale tiene fuori dalla nostra mente tutto ciò che riguarda “l’altro”.
Milano non si ferma
La vita doveva continuare. “Milano non si ferma” ci dicevano i politici e si facevano vedere tranquilli e sicuri. E invece avremmo dovuto fermarci subito. Ciò che ha prevalso in quei giorni è che la macchina produttiva non poteva subire un rallentamento o addirittura fermarsi. La gente ha continuato ad andare a lavorare, ad andare al cinema o a passare la serata nelle strade della movida… Tutto era normale: morivano solo i vecchi e i malati.
Sono morte più di 30mila persone (molto probabilmente 40mila, ndr) ed è vero i deceduti sono per lo più uomini o donne che hanno superato i sessant’anni, molti di loro erano già malati. Davvero questo deve tranquillizzarci? O invece ci dovrebbe porre delle domande sulla società che stiamo costruendo?
Per l’uomo antico essere vecchi significava essere il luogo vivente della memoria, essere vecchi voleva dire sì, essere più fragili e deboli, ma anche essere portatori di valori irrinunciabili e preziosi: degni quindi di rispetto e di grande considerazione in quanto portatori di una sapienza capace di guidare e consigliare anche i giovani eroi che di fronte a loro si inchinavano. Invece, sembra che la filosofia eugenetica in quei giorni, e forse ancora adesso, sia diventata, più o meno in modo manifesto, la pratica e lo spirito di questi tempi.
Lo testimoniano, ad esempio, il documento degli anestesisti spagnoli, la teorizzazione dell’immunità di gregge degli inglesi: si sceglie insomma di fronte al carico di malati e morti, fra i vecchi e i giovani, come fra i deboli e i forti come se una vita – la più forte, la più abile – sia solo per questo degna di essere mantenuta, mentre un’altra più fragile (vecchi e persona con disabilità) possa essere sacrificata.
Il virus della selezione
Dobbiamo vigilare perché il “virus”” della selezione non riprenda a infettare la società. Lo ha già fatto allora, in tempi più bui, lo sta facendo quando si accetta che ancora tante troppe persone vivano in condizioni disumane in altri paesi… E davanti alla “morte collettiva” della pandemia, la sensibilità umana sembra regredire a uno sguardo primordiale, quello delle necessità di specie. E gli individui molto vecchi occupano uno spazio eccessivo, sottraggono troppe risorse.
La domanda che ci dobbiamo porre è in che modo stiamo utilizzando il progresso che ha segnato il nostro mondo, per chi, per cosa?
Di fronte a uno schermo freddo cresce il nostro essere cinici spettatori in una società che è sempre meno comunità e sempre più sommatoria di individui che mettono sempre al centro il loro personale e individuale interesse. In una società che guarda solo il Pil come garante o meno della sopravvivenza, sono solo i migliori produttori, cioè gli abili, i giovani, i forti che dobbiamo preservare per poterli magari sfruttare meglio dopo.
Il poeta Franco Arminio si è reso disponibile ad ascoltare al telefono chiunque avesse bisogno di parlare con qualcuno in questi giorni e una donna di Bergamo gli ha detto: “Qui adesso non si muore soltanto, si sparisce”. La morte è naturale, la sparizione delle persone no. Ed è quello che è successo.
Abbiamo sentito parlare di tamponi, zone rosse, fasi, evoluzione del virus, ci hanno martellato di notizie e contronotizie, ma mai si è parlato di dolore, di sofferenza, di lutto. Il dolore di chi ha perso i cari che non ha potuto accompagnare, salutare. È mancata una “meditazione” su quanto ci stava accadendo, su come imparare da tutto ciò che abbiamo e stiamo vivendo.
“Una comunità è tale se sa essere attenta al dolore di chi ne fa parte”. Dice Arminio, solo ripartendo di lì sapremo quali sono le priorità per costruire una società che metta al centro l’uomo in quanto tale, non solo quello produttivo. “La relazione tra persone è l’esaltazione del no global per eccellenza. Insieme creiamo un ambiente irripetibile, irriducibile, mai seriale, sempre particolare. Unico. C’è un’atmosfera nel nostro abbraccio che si costruisce solo tra me e te”. E l’abbraccio è sì fisico, ma anche mentale. Dentro di te puoi abbracciare il mondo che vuoi faccia parte del tuo paesaggio affettivo.
Enea, Anchise e Ascanio

È bella e significativa l’immagine di Enea che fugge dalla sua patria in fiamme: sulle spalle si porta il vecchio padre Anchise e per mano il figlioletto Ascanio. Un’immagine simbolica: una società che si rispetti deve aver in grande considerazione chi rappresenta il passato e i bambini che rappresentano il futuro, deve saper mettere insieme in modo armonico tutti quelli che la abitano, deve almeno provarci, viaggiare verso questo orizzonte.
Non si va da nessuna parte, racconta quell’immagine, se non con tutti, senza sacrificare nessuno e questo vuol dire con Eugenio Borgna, che dobbiamo resistere “al fascino stregato del pregiudizio che nasconde in sé un segreto disprezzo per la debolezza che si manifesta nella vita incrinata dalla malattia, dagli handicap e dalla condizione anziana”.
“La qualità della sosta decide la qualità della ripartenza – dice Franco Arminio – Sapremo ripartire meglio se non abbiamo solo coltivato sentimenti di rabbia e di rancore. Mantenere le distanze, ma andare avanti restandoci ‘vicini’. Stare vicino a chi ha perso qualcuno, a chi ha perso il lavoro, a chi ha sofferto profondamente. Starci vicino. Questo è ciò che una comunità sana può fare quando riparte, altrimenti faremo gli stessi errori e saremo ancora più lacerati”.
Ma sapremo ripartire se i morti, i tanti morti usciranno dal puro dato statistico per tornare a essere persone. Non se ne parla più… Eppure anche nella città più potente del mondo ci sono state tante persone seppellite in fosse comuni. Prima di ripartire dovremmo chiedere a tutti un momento di silenzio e perché ognuno possa ricordarsi che nessuno va lasciato indietro, che tutti abbiamo diritto alla cura, a una vita dignitosa e che sicuramente tutti abbiamo diritto a non morire così.
Se, invece, l’unica preoccupazione sarà voltare pagina, i problemi rischieranno prima o poi di ripresentarsi anche peggio di prima perché abbiamo dimenticato con i morti la nostra umanità. Dobbiamo pensare l’impensabile…
Emilia De Rienzo, iInsegnante (qui altri suoi articoli), ha aderito alla campagna Un mondo nuovo comincia da qui. Cura questo blog e, insieme ad altri e altre, il sito ArsDiapason, associazione di Torino che lega diversi centri di iniziativa per giovani, genitori, persone con disabilità.
Sono in SINTONIA AL 100/100
Finalmente un articolo che non si lamenta delle restrizioni della libertà, ma si sofferma giustamente sul dolore troppo taciuto di coloro che sono morti e di quello dei loro cari