Ci sono parole-concetto, come rivoluzione, libertà, esperienza, cura il cui significato è divenuto sfuggente. Ci aiuta rileggere Rosa Luxembrug, Walter Benjamin o Etty Hillesum, ma anche alcuni processi, come le migrazioni. Si tratta, ad esempio, di pensare ai migranti, a cominciare da coloro che sono costretti a vivere nei “campi” che continuano a nascere in Bosnia, Grecia, Siria, Turchia, Libia, solo per pensare al Mediterraneo. Ma si tratta di pensare anche alle esperienze spontanee e autogestite che nascono con i migranti e intorno a loro. Occorre essere consapevoli che non è più “questione di prendere il potere – scrive Gian Andrea Franchi, insegnante di filosofia – Oggi l’unica possibilità ‘rivoluzionaria’ sta nel partire dall’esperienza, nel non rimandare, nell’impegnarsi qui oggi… ricostruire il mondo dal basso. Il mondo, tutto il mondo, è nel piazzale della stazione di Trieste, è nel Bira di Bihac, lungo la strada di Kljuc…”

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Per alimentare il tentativo di elaborare una filosofia di strada (questo articolo segue altre riflessioni qui leggibili), può essere utile provare a mettere in gioco due parole importanti: rivoluzione, una parola il cui significato è divenuto sfuggente, e cura, parola che deve molto soprattutto dal movimento politico delle donne (leggi anche Il corpo sofferente e il bisogno di cura di Lea Melandri, ndr). Per mettere in rapporto attivo partiamo da un’altra parola-concetto: esperienza. Nel mio caso, si tratta dell’esperienza della cura dei piedi, piedi feriti da un lungo pericoloso cammino.
L’esperienza, se è veramente tale, nell’accezione che cercherò di sviluppare più avanti, deve essere concreta ma non particolare. Deve avere sempre un qualche rapporto con una valenza universale. Deve tenere insieme singolarità e universalità. In questo caso, l’universale concreto è rappresentato appunto, dai piedi feriti nel duro cammino del migrante, del profugo. Le attuali migrazioni verso l’Europa dal Medioriente, dall’Africa, dall’Asia, non sono, infatti, un fenomeno contingente. Insieme alla crisi ecologica, di cui sono anche manifestazione, mostrano il cuore oscuro della civiltà nata in Europa e divenuta mondiale. I migranti profughi sono la metafora vivente dell’odierna condizione umana. Siamo tutti apolidi, ancora di più chi si ritiene cittadino di una cittadinanza divenuta esclusiva ed è per questo imprigionato fra paura e odio o murato dall’indifferenza.
Vediamo il significato “tradizionale” di rivoluzione. Le grandi rivoluzione storiche, da quella francese alla sovietica, alla cinese ad altre ancora – il significato storico prevalente del significante “rivoluzione” – sono state in effetti solo il passaggio da una forma statuale a un’altra: una grande sollevazione di strati sociali subalterni subito rinchiusa fra le maglie di uno Stato autoritario, anche se in partenza il progetto o i valori che guidavano i nuovi gruppi dirigenti erano valori di giustizia e uguaglianza – ho tutto il rispetto per un Lenin, anche se ritengo non più accettabile la sua visione.
Libertà e cura
Venne tolto di mezzo però un valore fondante, che non poteva essere scisso dagli altri senza svuotarli: libertà – ma occorre intendersi: la parola libertà, nell’uso corrente, è stata completamente corrotta in termini individualistico-mercantili dal liberismo, che considera contrattualmente liberi l’uno di fronte all’altro lo sfruttato e lo sfruttatore. Forse anche contro questa accezione individualistica, nel movimento comunista prevalse la fedeltà alla direzione del Partito, che avrebbe dovuto rappresentare il proletariato. “Libertà” va ridefinita, invece, rigorosamente in termini relazionali: la mia singola libertà, per esserci, implica necessariamente la libertà di tutti. Un’esigenza e una pratica di liberazione erano ben attive, però, inizialmente nel processo rivoluzionario. Dovettero ben presto scontrarsi con le esigenze dell’elite comunista. E arriviamo rapidamente a Kronstadt, marzo 1921: inversione del processo rivoluzionario. La difficile esperienza della libertà fu subito sacrificata alle esigenze di coesione e rapidità esecutiva nella guida del processo rivoluzionario.
Proprio alla libertà, inerisce, invece, il gesto della cura. La cura avviene, infatti, perché chi si prende cura dell’altro, esperisce che la sua libertà, la sua vita, è intrinsecamente relata a quella degli altri, di tutti gli altri, tendenzialmente.
Le rivoluzioni storiche si sono dunque sviluppate secondo dinamiche per cui a momenti iniziali di apertura ha risposto rapidamente la costituzione di organizzazioni politiche fortemente autoritarie, gestite da nuove elites. Il loro svolgimento, così simile in situazioni diverse, ci ha insegnato o ci dovrebbe aver insegnato una cosa fondamentale: non è questione di prendere il potere, ma di abolire ogni forma di potere.
Il problema irrisolto di Rosa Luxemburg
È il problema irrisolto, già intravvisto, con angoscia, da Rosa Luxemburg, che ne è rimasta travolta. Una ragione fondamentale di questa rapida involuzione sta nel fatto che le rivoluzioni storiche non hanno permesso alla stragrande maggioranza delle persone di fare esperienza, anche per il rapido succedersi degli eventi. Lo diceva a modo suo Rosa Luxemburg:
“Il socialismo non è fatto e non può essere fatto mediante decreti (…) il socialismo deve essere fatto dalle masse, da ciascun proletario”. (R. Luxemburg, Scritti politici,Editori Riuniti 1967, p. 622).
Notiamo quel “dalle masse, e da ciascun proletario”, che vuol dire da tutti e da ciascuno.
“Nessuno schema prestabilito valido una volta per tutte, nessuna guida infallibile gli [al proletariato] mostra il sentiero che deve percorrere. L’esperienza storica è la sua sola maestra, la strada di spine della sua autoliberazione non lastricata soltanto di infinite sofferenze, ma anche di innumerevoli errori” (Scritti politici, op. cit., p. 441).
Queste parole si adattano perfettamente alla situazione attuale (notiamo che Rosa Luxemburg parla di esperienza, ovviamente, di tutti e di ciascuno).
Sergio Bologna, nel capitolo “Storia e memoria” del suo recentissimo libro Ritorno a Trieste (Asterios, 2019), scrivendo del Sessantotto, lo definisce
“una rivoluzione in senso completamente diverso” da “gli stereotipi della rivoluzione francese o russa, cioè un rovesciamento dell’ordine costituito attraverso un atto o una serie di atti di forza” (p. 62). Il Sessantotto sarebbe stato una rivoluzione che avrebbe “in parte demolito lo schema comunista, l’etica dell’obbedienza a un gruppo dirigente … contrapposto la democrazia diretta al principio gerarchico” (p. 68).
In qualche modo, il Sessantotto studentesco e operaio avrebbe ripreso quello che, sessant’anni prima, Rosa aveva sentito e cercato di elaborare nel cuore di anni veloci e terribili.
Oggi, dopo mezzo secolo, siamo, però, in una situazione ancora diversa, di cui quegli anni del primo Novecento sono il prodromo.
Ho citato Rosa Luxemburg: ci può anche introdurre al nostro tema fondamentale: A chi le parlava delle sofferenze degli ebrei tedeschi e polacchi, Rosa Luxemburg rispondeva.
“A me le povere vittime delle piantagioni di gomma a Putumayo, i negri dell’Africa con i cui corpi gli europei giocano a palla mi sono altrettanto vicine (R. Luxemburg, Lettere 1893-1819, Editori Riuniti, p. 222). Nella stessa lettera, riferendosi al genocidio degli Herero nella colonia allora tedesca della Namibia, guidato dal generale von Trotha, quando, dice, “echeggiavano senza essere uditi tanti gridi…”.
Ricordo che possiamo considerare il genocidio degli Herero della Namibia, l’antecedente africano dei genocidi nazisti, anche per la sperimentazione sul terreno del parascientismo razziale con personaggi come il genetista Eugen Fischer, maestro del dottor Mengele. Solo recentemente, i crani di alcuni indigeni della Namibia, spediti a Berlino per gli studi di biologia razziale, sono stati “restituiti” – per così dire – sono ritornati, cioè, a essere non dei reperti biologici in un museo, ma dei morti su cui fare lutto e il governo tedesco ha ammesso il carattere genocida dell’impresa di von Trotha – tanto non gli costa nulla: infatti non vuol parlare di risarcimento. Il chiedere scusa da parte di esponenti di uno Stato già macchiatosi di nefandezze è un tipico esercizio della democrazia rappresentativa, in cui il linguaggio politico serve a occultare lo stato delle cose. Come si vede, si agitavano allora questioni fondamentali, poi rimosse, diventate oggi il nostro amaro pane quotidiano.
Accade oggi a Trieste
Da qualche tempo (novembre 2019) si è formato a Trieste un gruppo (di cui faccio parte), che chiamerei d’intervento solidale. Due o tre volte a settimana, interviene nel piazzale della stazione con i migranti di passaggio in questa città terminale delle rotte balcaniche. Fornisce mezzi indispensabili (scarpe, vestiario, cibo) e interventi di prima necessità, fra cui primeggia la cura dei piedi. Si tratta di piedi provati da un lungo cammino fra i boschi e i monti che stanno fra la Bosnia e l’Italia, attraversando tre confini, inseguiti e perseguiti dalle polizie, fra cui si distingue per efferatezza quella croata, delegata dall’Unione Europea alla funzione di cane da guardia – e cani usano, in effetti, addestrati anche a uccidere e che uccidono (ma poi anche droni e altri costosi strumenti tecnologici) (leggi La lavanda dei piedi).
In tale contesto, la parola cura ha pienezza di significato: comincia con il curare le ferite di un corpo avendo come orizzonte di questo corpo la cura del diritto a una vita degna di essere vissuta, in una ri-significazione dal basso di ciò che chiamiamo diritto e diritti (secondo una rilettura politica dell’etimologia di diritto, che significa: movimento in linea retta, nel senso di tracciare una direzione – il corpo dei migranti traccia proprio una direzione rifondativa del diritto).
Da quando mi occupo di piedi e di scarpe, mi viene spesso in mente un celebre passaggio de La tregua di Primo Levi, che parla appunto dell’importanza delle scarpe per chi cammina a salvarsi la vita.
“…il discorso tornò sulle mie scarpe…mi spiegò che essere senza scarpe è una colpa molto grave. quando c’è la guerra, a due cose bisogna pensare prima di tutto: in primo luogo alle scarpe, in secondo alla roba da mangiare; e non viceversa come ritiene il volgo: perché chi ha le scarpe può andare in giro a trovare da mangiare, mentre non vale l’inverso. – Ma la guerra è finita, – obiettai: e la pensavo finita, come molti in quei mesi di tregua, in un senso più universale di quanto si osi pensare oggi. – Guerra è sempre, – rispose memorabilmente Mordo Nahum” (da Primo Levi La tregua, in Opere, Einaudi 1987, p. 256…).
Il lapidario “guerra è sempre“, letto oggi, appare, oltre ogni metafora, un giudizio storico preciso e profondo: la guerra è diventata diffusa, permanente, un modo di vivere e soprattutto di produrre, in modalità ormai visibilmente suicide – anzi: biocide.
Fare esperienza con Benjamin
Le parole che voglio mettere in relazione sono quindi tre. E con la terza parola – esperienza – ecco invitato nella mia baracca filosofica di strada un altro autore: Walter Benjamin. Guarda caso un altro ebreo: anche lui ha avuto a che fare con la migrazione del profugo, dell’apolide. Ne è, anzi, morto, schiacciato dentro il dispositivo omicida del confine, che oggi conosce una nuova primavera. Benjamin si riferiva alla difficoltà di fare esperienza (Erfahrung) nell’epoca dopo la prima guerra mondiale, in cui agiva già con forza, e con forza politica, la comunicazione di massa e tecnologica (radio, pubblicità, cinema). Tutto ciò ebbe letteralmente un’esplosione, appunto nella prima guerra mondiale – che fu la prima guerra industriale e tecnologica -, producendo un massacro di quattro anni che ha segnato una cesura storica, anche per l’avvento in Europa di quei massacri, tendenzialmente o fattualmente genocidari, prima riservati al resto del mondo.
“Con la guerra mondiale cominciò a manifestarsi un processo che da allora non si è più arrestato. Non si era visto alla fine della guerra che la gente tornava a casa ammutolita, non più ricca ma più povera di esperienza comunicabile? Ciò che poi, dieci anni dopo, si sarebbe riversato nella fiumana dei libri di guerra, era tutto fuorché esperienza passata di bocca in bocca. E ciò non stupisce. […] Una generazione che era ancora andata a scuola col tram a cavalli, si trovava sotto il cielo aperto, in un paesaggio di cui nulla era rimasto immutato, fuorché le nuvole, e, sotto di esse, in un campo magnetico di correnti ed esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo. (W. Benjamin, Angelus novus, Saggi e framenti, Einaudi 1982, p.248).
Possiamo ben dire invece, oggi, che anche le nuvole sono mutate. Voglio ricordare – per amor genealogico – che questa notissima meditazione benjaminiana è presente, in nuce, nel concetto di alienazione di Marx.
“Alienazione” (Entfremdung), nei Manoscritti economico-filosofici del’44, ma anche in maniera più articolata nei Grundrissee anche altrove, significa non riuscire a fare esperienza della condizione reale in cui ci si trova, individualmente e collettivamente. Nel capitalismo, noi viviamo, afferma Marx, in uno stato di “derealizzazione” (Entwirklichung). Le nostre paure e le nostre speranze sono catturate da un dispositivo costruito dal dominio (l’economia capitalista), in cui veniamo rinchiusi come in una gabbia, che domina il nostro immaginario, diventa la nostra rappresentazione di noi stessi e della società in cui viviamo, la nostra persona, la nostra identità. La nostra attività vitale, il rapporto con il nostro corpo, con gli altri, con quel nostro corpo inorganico che è la natura, diventa un’attività, il cui senso giace nelle dinamiche astratte e incontrollabili del gigantesco meccanismo produttivo di merci che ha nel denaro la sua articolazione e la sua soluzione finale: il denaro, come forma generale di relazione sociale, diventa il senso unico e assoluto della vita, in fine non solo umana.
In tale contesto, in termini benjaminiani, l’alienazione consente solo Erlebnisse, vissuti incomunicabili, mentre l’esperienza comunicabile, Erfahrung, è invece bloccata. Fare esperienza, nel senso di Erfahrung, è, innanzitutto, esperienza del tempo, del tempo della nostra singola vita in quanto partecipe del tempo storico; tale, cioè, da poter cogliere in ogni presente “la piccola porta da cui poteva entrare il Messia”. Ciò vuol dire rompere “il tempo omogeneo e vuoto” del dominio, in cui possiamo solo avere Erlebnisse, vissuti incomunicabili, per cogliere dal passato la possibilità di un presente diverso, che non sia ripetizione: leggere il passato come fioritura di possibili altri da quell’unico che, in effetti, fu imposto.
Ciò significa – e qui interpreto – capacità di narrare, di raccontare storie personali e collettive diverse dall’unica dominante. Afferma Benjamin che il narratore (essenzialmente il romanziere) “attinge la sua autorità dalla morte”: l’autorità della morte, dunque,presiede alla capacità di narrare. Benjamin pone quindi un rapporto essenziale fra morte e narrazione.
Che rapporto c’è fra morte e narrazione? Io penso che narrare voglia dire sempre anche progettare la fine della narrazione, come in un romanzo. Credo che una narrazione, la quale non implichi ed esiga la sua fine non sia una narrazione, ma un fluire di parole che, non giungendo mai ad una conclusione, perdono senso e quindi anche significato. La forma temporale, come il racconto, ma soprattutto il romanzo, implica un inizio e una fine: elementi che si rimandano l’un l’altro. Il narrare quindi deve fare implicitamente i conti con la fine, nel suo stesso svolgersi. Deve accettarla, anzi accoglierla. Non so se Benjamin volesse dire questo, ma mi sembra che intenda qualcosa di simile quando scrive che la “vita vissuta” di un uomo “assume forma tramandabile [cioè narrabile] solo nel morente” (op. cit., p. 258).
Lasciare il mondo un po’ meglio di come lo abbiamo trovato
Fare esperienza è quindi cogliere il proprio rapporto singolare con la collettività storica di cui facciamo parte e ciò vuol dire anche accettare la propria finitezza, la propria mortalità, il proprio passare, lasciando una traccia negli altri, far sì che dopo il proprio passaggio il mondo non sia come l’avevamo trovato ma qualcosa di più… Non è forse questa l’aspirazione di chiunque si impegni seriamente in qualcosa – in un qualunque lavoro creativo, da un artefatto artigianale a un’opera d’arte, in qualunque situazione sociale, relazionale, in un incontro pubblico o cosiddetto privato, non si spera che ci si possa lasciare migliori di quando ci si è incontrati?
Benjamin è rimasto schiacciato dalla seconda guerra mondiale: non è riuscito a farne esperienza, Erfahrung, ma solo Erlebnis. È rimasto bloccato nel suo vissuto, inenarrabile, senza uscita, se non la morte. “In una situazione senza uscita, non ho altra scelta se non quella di farla finita”, scrive il 25 settembre del 1940 ad Adorno, nell’ultima sua lettera. Il suo corpo, calato, dopo pochi anni, in una fossa comune, non fu più rintracciato. Morto, e in parte anche vissuto, come un profugo Benjamin, ma la sua vita ha prodotto un’intensa “forma tramandabile”.
Dani Karavan, lo scultore ebreo autore del monumento commemorativo di Benjamin a Port Bou dove morì, ha lasciato questo commento: “È più difficile onorare la memoria dei senza nome che non quella degli uomini famosi e celebrati, ivi compresi i poeti e i pensatori”. Parole attualissime oggi, nell’epoca delle migrazioni balcaniche e mediterranee.
Il primo gennaio ci giunge a Trieste la notizia che, quella mattina, un migrante tunisino era caduto in un burrone carsico sulla frontiera sloveno-italiana ed era poi morto in ospedale. Questo mi rimanda a un ricordo, ancora peggiore, di un altro migrante, caduto in una delle numerosissime cavità carsiche, che, a differenza del giovane citato prima, comunque soccorso da polizia e vigli del fuoco, rimase ad agonizzare per ore fino alla morte, benché i compagni di game avessero avvisato la polizia croata, giunta volutamente in ritardo. Negli ultimi due anni, i morti accertati nel passaggio nel Cantone bosniaco Una/Sana, confinante con la Croazia, all’Italia sono più di trenta.
Chi ha accettato la propria finitezza, la propria mortalità, facendone gesto intensissimo di vita, è stata Etty Hillesum, che ha voluto, invece, portare l’Erfahrung sino al limite. Certo: Hillesum ha una dimensione religiosa, peraltro del tutto sui generis, ma quello che mi ha colpito, nel Diario e nelle Lettere da Westerborg, è l’intensità del suo rapporto con i compagni e la capacità di vivere, non solo di sopravvivere, nella tragedia, mediante un’inestinguibile interesse per gli altri. Ciò che lei chiama Dio è forse proprio soltanto la capacità di essere-con-gli-altri fino al limite estremo, senza cadere nella disperazione. E ciò si manifesta anche nell’esigenza di raccontare, di tenere un Diario, di fare esperienza, di dare forma ai vissuti, cioè di narrare, di accogliere la morte, nel suo caso, in senso anche letterale, ma lasciandone testimonianza in una narrazione. Forse, fare esperienza significa questo, soprattutto: accogliere la morte, che equivale a dar forma narrativa al proprio vissuto, offrirlo agli altri. Narrare.
La resistenza di Etty Hillesum
Qualche tempo fa, un’amica mi raccontava che una sua amica, malata terminale, non riusciva a leggere altro che il Diario di Etty Hillesum. Posso capirlo. Il gesto di Etty Hillesum è anche un gesto di resistenza, che, a mio parere, non nega affatto l’altra resistenza, anche armata. Etty ha scelto di consistere nella situazione in cui si è trovata, stando in mezzo a coloro che subivano la catastrofe. È necessario tenere insieme, considerandoli complementari, il comportamento di Hillesum, che sceglie di restare fra le vittime, agendo fra di loro per aiutarle a conservare umana dignità nel morire, a non cadere nella “zona grigia” di cui scrive primo Levi; e quello di chi sceglie la lotta armata. La scelta di Hillesum è una vittoria sull’abbrutimento cui i dominatori vogliono sottoporre i dominati, riducendoli a vittime; è, per dirla in un modo che può suonare un po’ retorico, una vittoria della vita sulla morte. In questo senso, analoga alla morte di chi cadrà combattendo il nazifascismo. “Sono pronta in ogni situazione e nella morte a testimoniare che questa vita è bella e piena di significato”, scrive Etty (Diario, 160): questa frase sarebbe retorica se non fosse scritta da chi sta andando incontro a una morte orribile che, combatte accogliendola, nella misura in cui ne tramanda l’esperienza. È importante affermare esistenzialmente che “questa vita2, la vita cioè di chi sta andando incontro a una morte orribile, ha ancora un senso, sia nel presente, riaffermando in una situazione limite la qualità relazionale del vivere:
“Dovunque si è, esserci al cento per cento. Il mio fare consisterà nell’essere” (Diario, 222); sia nel futuro, con il suo lascito.
“Il nostro unico dovere morale è quello di dissodare in noi stessi vaste aree di tranquillità, fintanto che si sia in grado di irraggiarlo anche sugli altri”” (Diario, 221): bisogna sottolineare e ribadire: “fintanto che si sia in grado di irraggiarlo anche sugli altri”.
Questo significa mantenere la piena dignità umana, ovvero l’esperienza attiva del carattere relazionale della condizione umana in una situazione limite. Questo vale per se stessi, nell’ultimo presente e per quelli che rimangono.
L’esperienza narrataci da Etty Hillesum non ha nulla di edificante, come potrebbe sembrare a una lettura superficiale, ma è un’esperienza tragica di “persuasione”, per usare un concetto di Carlo Michelstaedter.
Quei campi in Bosnia, Grecia e Libia
Rileggere oggi coloro che chiamerei filosofi-narratori esistenziali (da non confondere con esistenzialisti) acquista un significato più denso e concreto, se pensiamo a quello che succede anche oggi con i migranti, ad esempio, fra quelli racchiusi nei campi della Bosnia o, peggio, della Grecia, per non parlare della Turchia, della Siria e della Libia, ma anche altrove, il “campo”, questa invenzione prettamente coloniale, spazia in tutti i continenti… Etty Hillesum, in mezzo al campo di Westerborg, scrive.
“A ogni nuovo crimine o orrore dovremo contrapporre un nuovo pezzetto di amore… che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravviveremo intatti a questo tempo… senza amarezza e odio, allora avremo il diritto di dire la nostra parola a guerra finita” (lettere, 87).
Il linguaggio di Hillesum, che – sento il bisogno di ripetere – può apparire, soprattutto se estrapolato, troppo sentimentale e poco rigoroso. va invece letto e ascoltato come una lezione esistenziale filosofico-politica, profonda e molto concreta, dentro una tragedia storica, purtroppo esemplare della condizione umana.
Abbiamo ai nostri giorni un’altra situazione drammaticamente esemplare di quanto sto cercando di dire, che rimanda a quella in cui è vissuta e morta Etty. Penso all’odio e alla violenza capillare che sono le insegne dello Stato di Israele, che si pretende erede della tradizione ebraica e della Shoah. Di fatto è mimeticamente erede, invece, dell’odio razziale nazista. Israele ci fa vedere come l’odio sia una passione mimetica e negativa, che distrugge e non costruisce, ma che ripete ottusamente la tragedia storica. Questo è un insegnamento politico essenziale.
L’odio è sempre figlio della paura di essere distrutti, della paura della morte ed è incapace di dare impulso a moti costruttivi. Il superamento dell’odio non significa rifiuto della lotta, con ogni mezzo ritenuto necessario al fine della lotta stessa. In molte situazioni è difficile, forse impossibile, non odiare, ma il punto è che l’odio non domini l’orizzonte emotivo, immaginativo e mentale: Israele non docet. L’odio è per eccellenza l’emozione legata al potere, è l’emozione della geopolitica: il nemico del mio nemico è mio amico – la legge della politica di potere.
Gli autori che ho citato sono tutti ebrei: Luxemburg, Benjamin, Michelstaedter, Primo Levi, Hillesum, interpreti tutti, originali e profondi, di una tradizione ebraica radicalmente alternativa alla visione distorta e violenta imposta dal razzismo sionista, che invece accoglie il peggio della tradizione razziale e coloniale europea.
Il problema che mi pongo, ma che è il problema dell’oggi, è il rapporto fra una trasformazione sociale radicale e la possibilità di fare esperienza – l’Erfahrung benjaminiana – per quelle che una volta venivano chiamate le “larghe masse” che il processo di trasformazione deve coinvolgere. È problema della rivoluzione oggi, se vogliamo conservare questa parola.
Ribellarsi facendo, qui e ora
Oggi l’unica possibilità “rivoluzionaria” sta nel partire dall’esperienza, nel non rimandare, nell’impegnarsi qui oggi e insieme creare relazioni sempre più estese e coerenti, che vuol dire fare società, frammento dopo frammento: questo vuol dire fare esperienza, ricostruire il mondo dal basso – il mondo, tutto il mondo, è nel piazzale della stazione di Trieste, è nel Bira di Bihac, lungo la strada di Kljuc…
Mettere la gente nell’incapacità di fare esperienza è sempre stato uno degli strumenti principali del potere, di ogni forma di governo. Lo aveva ben capito il giovane Marx. Questa incapacità genera indifferenza o, oltre una certa soglia di sicurezza, paura e quindi bisogno di affidarsi a un potere.
Non si tratta necessariamente di un potere di tipo dittatoriale. La democrazia rappresentativa liberale è basata sulla delega dell’interesse collettivo a specialisti, cioè sul pubblico disinteresse: è il contrario dell’autogestione, della democrazia diretta. La storia ci dimostra che il dispositivo della delega è alla lunga più efficace della dittatura nel creare un separazione fra chi ha il potere e che deve subirlo. Fare esperienza, invece, pone il problema di unificare i tempi soggettivi senza “alienarli” in un tempo generico, incomunicabile e incontrollabile, come è quello delle merci e del denaro, ma anche quello della rivoluzioni classiche, perché è comunque delegato a un’autorità che decide.
Non so se sarà possibile raggiungere una dimensione sociale priva di ricadute nella paura, nell’odio, nella violenza. Probabilmente, la condizione strutturalmente precaria della soggettività comporterà la perenne presenza di tale rischio. Sembra che la condizione umana implichi una dimensione tragica ineliminabile.
Oggi, ci troviamo in una situazione del tutto nuova in cui l’urgenza di una trasformazione ben più radicale di quella immaginata per le rivoluzioni “classiche2, assume di anno in anno il carattere di una urgenza vitale, che va oltre quella sacrosanta di eliminare lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. O piuttosto, questo è traboccato in uno sfruttamento generale delle forme di vita vita. Il contrasto fra quest’urgenza e la capacità di fare esperienza collettiva di modi alternativi dell’essere-insieme non potrebbe essere più grande.
E qui vengo ancora una volta al nostro umile e faticoso impegno con i migranti. Far esperienza è sempre anche fare esperienza di se stessi, mettersi in gioco anche nella propria soggettività, nelle proprie emozioni di base, accettando la crisi delle proprie certezze, accogliendo l’incertezza; e mi chiedo se un certo modo di far politica, di cui ho avuto lunga esperienza, non tenda, anche involontariamente, a rimuovere proprio questa dimensione essenziale; e se non sia questa la ragione o una delle ragioni, ma certamente fondamentale, della sua consunzione. In tutta questa problematica, c’è una diversa esperienza del tempo. Il tempo delle rivoluzioni “classiche”, e di un certo modo di far politica, è tutto proiettato verso il futuro: vi si viveva di rimandi. Questo si è rivelato un errore, da ogni punto di vista, anche da quello epistemologico. Il “comunismo” diventava una specie di religione giustificatrice della violenza del presente. Dobbiamo imparare, invece, che il valore non è una credenza ma il presupposto attivo di una pratica: o è in atto anche fra i pochi o meno pochi che lo praticano o non è.
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Insegnante di filosofia, Gian Andrea Franchi da alcuni anni con Lorenza Fornasir promuove periodiche azioni lungo la rotta balcanica con cui portare medicinali e scarpe ai migranti in Bosnia e creare relazioni. Ha aderito alla campagna 2019 di Comune Ricominciamo da tre: “Reti di relazioni come Comune sono strumenti importanti, anzi essenziali, come contributo alla costruzione di pezzi di quella società solidale di cui c’è un bisogno vitale”.
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