
“Mi chiamo Kaled, ho diciassette anni. In Sudan sono stato narcotizzato. Quando mi sono risvegliato ero rinchiuso in una cella, in Libia. La stanza era piccola ed eravamo più di cinquanta, ammassati gli uni sugli altri: donne, uomini e bambini. Non era possibile dormire. Non era possibile neanche stendere le gambe: eravamo costretti a fare i turni per sederci a terra. Sono stato otto mesi lì dentro: otto mesi nei quali mi obbligavano a videochiamare i miei genitori mentre i carcerieri mi puntavano un coltello alla gola. Mi costringevano a chiedere i soldi per pagare la mia libertà. Otto mesi di scosse elettriche, sprangate sulle ginocchia e sui gomiti. Non c’era cibo sufficiente e ho perso tanto peso. Sono arrivato a pesare trenta chilogrammi. La mia famiglia ha impiegato otto mesi per trovare i soldi richiesti. Più tempo si impiega, più dura l’incubo. Quando ho chiesto dell’acqua da bere, sono stato accoltellato. È una fortuna, sai? Un giorno, senza motivo, degli uomini sono entrati in cella e hanno sparato a un ragazzo rinchiuso lì con me. Lo hanno ucciso, davanti ai miei occhi…”.
Questa testimonianza è stata raccolta lunedì 29 maggio al presidio umanitario di Baobab Experience, a Roma.
L’Italia persevera a considerare la Libia un paese sicuro, continuando a finanziare forze di polizia equivoche e criminali affinché blocchino, a tutti i costi, le partenze. Ecco i costi.
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Nel paese dei ciechi, quelli che ancora vedevano scelsero di chiudere gli occhi. Proverbio