Non sappiamo come potrebbe essere una società post neoliberista. Possiamo cercare risposte solo mentre proviamo a costruirla, una società molto diversa da quella in cui l’economia la fanno i mercati e la politica è cosa che riguarda i partiti e i governi. Quello che però possiamo fare subito è delineare un orizzonte che orienti l’azione e un’agenda dei passaggi che riteniamo necessari per vivere insieme il post-capitalismo. Per l’economia che si dice non profit, per esempio, sarà opportuno approfondire la riflessione intorno a nuove istituzioni politiche. Il pericolo di non coglierne il carattere specificamente politico resta infatti serio e generalizzato. Anche perché una radicatissima abitudine di pensiero ci spinge a rinunciare a rompere quello schema “normale” in cui ciascuno deve restare al proprio posto con un ruolo preciso. La realtà è di fatto molto più in disordine di quanto quello schema suggerisca: da tempo Stato e mercato vanno a braccetto, per esempio. Il primo ha smesso di prendersi cura degli interessi dei cittadini e di contribuire alla creazione di condizioni di vita dignitosa; l’economia del mercato non si cura affatto di rispondere ai bisogni e ai desideri reali delle persone per dedicarsi invece prevalentemente a giochi finanziari. Nemmeno la società civile, tuttavia, è rimasta al suo posto, quello tra lo stato e il mercato, e ha smesso di essere solo la “parte” buona, generosa e solidale della società. Ne è diventata il motore e forse può portarla finalmente altrove
Lo scorso 9 novembre 2019 ho partecipato, presso lo Scup (Sportculturapopolare) di Roma, al primo incontro nazionale di preparazione verso il Forum mondiale delle Economie Trasformative che si terrà dal 25 al 28 giugno 2020 a Barcellona. Il Forum ha come obiettivo quello di “riunire tutti coloro che nel mondo si stanno organizzando, innovando ed esplorando nuove strade verso la costruzione di una società post-capitalista, al fine di conoscersi meglio, rafforzarsi e convergere verso una agenda della transizione globale”[1]. E’ stata una giornata di lavoro intenso a cui hanno partecipato più di 100 persone da oltre 120 realtà e 14 reti, provenienti da 15 regioni.
Dopo un primo momento di presentazione e spiegazione dell’organizzazione tematica e della piattaforma con la quale interagire a livello nazionale e sovranazionale[2] ci si è divisi in gruppi per conoscersi e cominciare ad individuare quegli aspetti e problemi caratterizzanti le esperienze italiane da proporre nel Forum di Barcellona. Sulla base dei risultati del lavoro dei gruppi sono state delineate nell’assemblea plenaria cinque macro-aree, ritenute altrettanti terreni di confronto e di riflessione per le economie trasformative, che costituiscono le linee guida per le discussioni e gli incontri locali che in ciascuna regione da qui a giugno si attiveranno nel percorso vero Barcellona.
Tali macro aree possono essere riassunte nelle seguenti domande: in che modo le pratiche e le riflessioni all’interno delle economie trasformative si pongono nei confronti del modello estrattivista e rispetto alla crisi climatica che ne è la conseguenza? Che cosa hanno da dire relativamente al sistema di produzione industriale, anche nella sua forma 4.0 e ai modelli di consumo che esso innesca? Come interagiscono con il problema del debito e le disuguaglianze economiche? In che modo influenzano e riescono ad orientare le politiche territoriali? Come riescono a modificare stili di vita, valori e modelli culturali e in particolare, come contribuiscono a smantellare il sistema patriarcale?
Durante la giornata, i racconti e gli scambi fra i partecipanti hanno evidenziato una grande consapevolezza rispetto alle capacità trasformative delle pratiche economiche agite, per le caratteristiche, ormai ben note, di radicamento sul territori, di vicinanza ai bisogni delle persone, per la capacità di modificare stili di vita e valori culturali, per la connessione con la vita reale; è emerso, inoltre, il grande desiderio di assumersi e portare avanti tale processo di trasformazione verso una società post-capitalista, malgrado l’enormità del compito. Il desiderio unito alla coscienza del limite hanno prodotto un generale clima di serietà e concretezza, una lucidità intellettuale che ha consentito di individuare, accanto a questi elementi di forza, le difficoltà e gli inciampi e che ha portato a non eludere la domanda cruciale: cosa manca?
Per quanto riguarda le difficoltà, oltre ad alcuni problemi che spesso in questi contesti tornano ad essere evidenziati come, ad esempio, una certa debolezza strutturale data spesso dalle piccole dimensioni, la difficoltà di sostenersi economicamente e la conseguente necessità di fare rete e collaborare, piuttosto che competere, è emerso un rischio che sembra particolarmente avvertito negli ultimi tempi e che personalmente sento con una certa urgenza per essermene molto occupata nell’ambito del progetto Mag “Cooperiamo per il buon vivere comune”[3], il rischio di farsi scippare i propri valori e il proprio simbolico: proprio perché questa economia funziona, vi è una rincorsa da parte di aziende capitalistiche e della finanza ad accaparrarsi quella fetta di consumatori, in costante aumento, sensibili e attenti alla qualità dei prodotti sia da un punto di vista relativo alla genuinità che all’eticità della produzione Questa rincorsa, che si traduce in un’offerta “di massa” di prodotti etichettati come sostenibili, ha come contraltare l’abbassamento della capacità critica, l’annacquamento dei contenuti, la perdita di politicizzazione.
A me sembra che il pericolo di non cogliere il carattere specificamente politico dell’economia non profit sia piuttosto generalizzato a causa non solo di una insufficiente informazione, ancora troppo circoscritta all’interno del mondo dell’economia sociale e solidale e troppo scarsamente diffusa nel senso comune, ma anche di una abitudine di pensiero tanto radicata da essere ormai quasi inconscia e, quindi, acritica, in base alla quale la politica è solo quella fatta dai partiti e dai governi quella della lotta per il potere, e l’economia è solo quella dal mercato che produce beni, servizi e posti di lavoro ma soprattutto cerca il profitto. In mezzo ci sta la società civile: quel variegato mondo della socialità e della solidarietà che si dedica al volontariato, alla cultura, alla beneficienza, o a qualche altra buona azione. Questo schema, in cui ciascuno è al proprio posto con un ruolo preciso, è un modo di pensare che dà sicurezza perché fa ordine e definisce la normalità. Peccato, però, che nella nostra epoca la realtà sia molto più in disordine di quanto lo schema suggerisca: tutto si è mischiato perché da tempo Stato e mercato vanno a braccetto, tanto che lo Stato ha smesso di prendersi cura degli interessi dei cittadini e di contribuire alla creazione di condizioni di vita dignitosa, e l’economia ha smesso di rispondere ai bisogni e ai desideri reali delle persone dedicandosi prevalentemente a giochi finanziari. Soprattutto, però, è la società civile che non sta più esattamente al suo posto, tra lo stato e mercato, perché ha smesso di essere soltanto quella “parte” buona, generosa e solidale della società e ne è diventata il motore che la manda avanti e che può portarla altrove.
Allora, gli incontri come quello del 9 novembre o come il Social Forum stesso, hanno proprio la funzione politica di togliersi dalla mischia, dall’intreccio con stato e mercato, di separarsi come facevano le femministe anni ’70, per collocarsi nella realtà, per prendere le misure e disegnare mappe[4], per rendere evidente, cioè, il fatto che alla normale socievolezza che si instaura nelle associazioni benefiche e di volontariato, nei circoli sportivi o letterari, al desiderio di fare cose per sé insieme ad altri, si è aggiunto altro e questo altro è stato sottratto all’economia e allo Stato. All’economia è stato tolto l’orientamento al profitto affermando, nella pratica, l’idea che per rispondere ai bisogni umani attraverso la produzione di beni e servizi non è necessario l’arricchimento personale, né l’uso privatistico del profitto. Allo stato e alla politica istituzionale è stata tolta la delega, l’idea che qualcuno possa rappresentare qualcun altro, affermando, nella pratica, l’idea che la prima mossa politica sia partire da sé, dai propri bisogni e desideri, per scoprire poi, nel cammino, che si tratta di bisogni e desideri percepiti e riconosciuti anche da altri e altre.
Ecco allora che il titolo del forum “Economie trasformative” tiene insieme questo aspetto di rimescolamento della dimensione economica, sociale e politica facendo delle organizzazioni non profit dei soggetti contemporaneamente economici e politici; sottraendo alla politica l’orientamento al potere, le restituisce il suo significato primario e profondo: trasformazione della realtà e accompagnamento dei processi che portano dal già conosciuto verso qualcosa che si desidera, si intravede, di cui si sente la necessità ma ancora non si conosce. Come può essere una società post neoliberista, infatti, non possiamo saperlo perché si comprende mentre la si prova a costruire ma è oggi possibile, tramite i racconti reciproci e il dialogo, delineare un orizzonte che orienti l’azione e un’agenda dei passaggi che si individueranno come necessari. Forse, però, sarebbe opportuno fare un ulteriore passo: accanto all’idea di una trasformazione della società che passa attraverso l’economia, bisognerebbe approfondire la riflessione intorno alle nuove istituzioni politiche. Se, infatti, guardiamo alla grande variabilità di pratiche che caratterizzano le economie trasformative non possiamo non cogliere quegli elementi di trasversalità che già operano in questo senso.
Oltre al partire da sé, all’assunzione in prima persona della trasformazione, che implica il ritiro della delega e la superfluità del sistema di rappresentanza, vediamo che la pratica principale è l’autogestione in assenza di gerarchia con una modalità di presa di decisioni orizzontale, aperta e trasparente, in contesti organizzativi fluidi senza capi o leader ma con un senso vivo di riconoscimento della competenza e della capacità di ispirazione, il tutto legato a modalità relazionali in vista delle necessarie collaborazioni. Tutto questo parla già di nuove istituzioni politiche ma spesso, come è successo in questo incontro, quando si discute dei rapporti con le amministrazioni pubbliche, che siano gli enti locali o le istituzioni europee, mi sembra che si stenti a considerarne fino in fondo le conseguenze. Riconoscendo che i soggetti pubblici sono partner necessari alla realizzazione dei progetti in quanto erogatori di bandi e di fondi, non si va oltre il tentativo di individuazione il tipo di relazione che è possibile instaurare con loro e si rileva come, soprattutto da parte degli enti locali, l’apertura e la disponibilità siano ingredienti fondamentali per realizzare le trasformazione ma che, nella maggior parte dei casi si trova sordità e incomprensione, quando non veri e propri ostacoli, soprattutto a causa di una burocrazia che con i suoi regolamenti, linguaggi e richieste diventa una cappa che soffoca. Allora, un passo forse va fatto nella direzione del riconoscimento di una profonda inadeguatezza delle forme istituzionali per come le conosciamo.
I soggetti di economia trasformativa nel loro intreccio stanno già praticando una forma di organizzazione istituzionale e politica altra che supera i confini nazionali e che funziona per relazioni dirette: a Barcellona non andranno rappresentanti ma i protagonisti stessi del processo. Forse per fare il “salto”, per mettere a sistema l’economia non profit, sociale e solidale, dovremmo cominciare a chiederci: che cos’è questo altro modo di organizzazione politica? in che modo si possono intendere queste istituzioni come istituzioni pubbliche? Il concetto di pubblico può essere specificato da quello di “in comune? Ha senso oggi chiudere i popoli nei confini degli stati nazione? Ha senso in un periodo di economia globalizzata e di crisi climatica che la Foresta Amazzonica, gli oceani e i ghiacciai siano di proprietà di singoli stati o non dovrebbero essere considerati a pieno titolo “beni comuni”? La trasformazione dello stato nazione non potrà, d’altronde essere più utopistica della trasformazione dell’economia neoliberista: se ci si impegna su quest’ultima con grande desiderio e serietà, perché non impegnarsi anche su quest’ulteriore essenziale sfida?
[1] Costruiamo insieme un’agenda globale inclusiva di azioni politiche trasformative per cambiare l’economia (non il clima!); Appello internazionale a partecipare al World Social Forum on Trasformative Economies, http://transformadora.org
[2] http://forum.transformadora.org/assemblies/Italia
[3] In particolare nel ciclo di corsi sulla Responsabilità Sociale d’Impresa confluito nella pubblicazione Responsabilità sociale integrata: dalle imprese ai territori e ritorno, scaricabile al link http://magverona.it/prodotti-cooperiamo/
[4] La mappa delle realtà che hanno aderito al primo incontro allo Scup, costruita in tempo reale il 9 novembre e continuamente aggiornata, può essere visualizzata al link http://umap.openstreetmap.fr/it/map/forum-sociale-economie-trasfromative-barcellona-20 386034#6/42.569/13.623
(pubblicato su trimestrale di azione Mag e dell’economia sociale AP – autogestione e politica prima, n.1/2020, gennaio-marzo)
Antonio Savino dice
Ottima iniziativa ma scarsa analisi sul capitalismo.
Un contributo:
https://www.comunardo.it/index.php/proposte/16-uscire-dalla-economia?start=1