Senza la devastante militarizzazione dei territori, il capitalismo dei giorni nostri non potrebbe riprodurre la sua accumulazione depredando ed espropriando le risorse naturali, i beni comuni dei popoli, il tempo di vita delle persone e tutto ciò di cui si alimenta. Per questo, a differenza di quanto si continua a credere come se le lancette degli orologi fossero ferme, la fase attuale del neoliberismo non comporta meno ma più Stato. Raúl Zibechi trae queste considerazioni dall’osservazione puntuale di quanto avviene in misura generalizzata in América Latina, dove quasi sempre certi processi sono più acuti ed evidenti, ma il suo punto di vista è largamente declinabile a scala planetaria. Per quel che riguarda l’Europa, non è difficile pensare a quel avviene con i megaprogetti e le Grandi Opere, alla nuova fame di territorio che impone la crescita esponenziale degli interessi legati alla guerra o alla “difesa” delle frontiere marittime e terrestri. La militarizzazione avanza, in modo impressionante e sostanzialmente incontrastata, ovunque. Seppur volessimo affermare che non modifica le ragioni di fondo per cui gli Stati-nazione sono nati, cioè la loro natura di protezione dell’accumulazione del capitale, di certo l’impiego di tecnologie e apparati armati sui territori sta producendo enormi trasformazioni

La realtà non è proprio come vorremmo che fosse, e neppure come era decenni fa. Avendo dichiarato guerra ai popoli per appropriarsi dei beni comuni (acqua, terra, aria e tutto ciò che è vivo), il capitale ha trasformato gli Stati-nazione nello scudo dei potenti, usando e abusando degli apparati armati, legali e illegali, per controllare e disciplinare i settori popolari.
Contrariamente a quanto sostiene gran parte della sinistra, il neoliberismo non comporta meno, ma più Stato. Se lo guardiamo nel suo insieme, vediamo che la militarizzazione è la risposta strutturale del capitale per procedere all’espropriazione, controllare i popoli che vi resistono e incoraggiare l’accumulazione violenta ed espropriatrice. È lo Stato che militarizza i territori in cui vivono i popoli: il capitale non avrebbe la possibilità di compiere i suoi misfatti senza questa presenza devastante dello Stato.
Coloro che sostengono che il progressismo non è neoliberista, perché accresce la presenza dello Stato nella società e nell’economia, trascurano del tutto il fenomeno della militarizzazione, che trascende governi e colori politici per diventare una realtà soffocante in tutta l’America Latina. In Perù, Amnesty International (AI) riconosce in un rapporto del 16 febbraio che la violenza dello Stato contro i contadini e gli indigeni durante le proteste degli ultimi mesi è un segno di disprezzo per la popolazione.
Érika Guevara, direttrice di Amnesty International per le Americhe, ha affermato che non è una coincidenza il fatto che decine di persone abbiano detto ad AI che ritenevano che le autorità le stessero trattando come animali e non come esseri umani. Quale indigeno, contadino o persona dei settori popolari non ha provato qualcosa di simile nei suoi rapporti con le autorità e in particolare con gli apparati armati dello Stato?
Dobbiamo rifiutare l’idea dei particolarismi se vogliamo capire il sistema. Perù, Messico, Guatemala, Honduras, Cile, Ecuador, Argentina, Brasile e Venezuela stanno attraversando situazioni in cui le similitudini e le tendenze di fondo sono molto più importanti delle differenze specifiche. Ci stiamo muovendo verso regimi sempre più autoritari, in tutte le aree geografiche, con differenze nei tempi e nelle modalità.
L’ultimo esempio si verifica in questi giorni in Brasile. Il presidente Lula ha promesso agli indigeni durante la campagna elettorale che avrebbe legalizzato i loro territori, come previsto dalla Costituzione approvata nel 1988. Non sarà in grado di farlo perché l’agrobusiness blocca qualsiasi iniziativa a favore delle popolazioni indigene e dei contadini, impedendo da anni solidi progressi nella riforma agraria.
Un recente servizio sul sito Sumauma.com, intitolato “Può Lula realizzare ciò che ha promesso agli indigeni?”, spiega che durante l’amministrazione neoliberista di Fernando Henrique Cardoso (1995-2002) in otto anni sono stati omologati 145 territori indigeni [si dice omologazione la conferma della demarcazione di una terra indigena, che deve essere effettuata dal Presidente della Repubblica; questo atto conclude il processo amministrativo di regolarizzazione e permette la registrazione nel catasto delle proprietà – ndt], e che con Fernando Collor (1990-92) sono state raggiunte 112 omologazioni in soli due anni e mezzo di governo. Al contrario, durante i due governi di Lula (2003-10), solo 81 territori indigeni sono stati omologati, e sotto Dilma Rousseff (2011-16) appena 21. È scioccante che i governi conservatori abbiano superato largamente il governo del Partito dei Lavoratori sia nella legalizzazione dei territori indigeni che nella consegna della terra ai contadini.
Dobbiamo spiegare questa realtà, capire che siamo di fronte a una svolta del capitale e dello Stato. Il problema che non si vuole vedere, in parte a causa degli interessi delle sinistre a concentrarsi su obiettivi immediati, ma anche a causa dell’inerzia che pervade tutta la cultura politica, è che lo Stato è mutato, che è stato sequestrato dall’1% che vuole salvaguardare il proprio potere e la propria ricchezza. Questa mutazione del capitale, con l’accumulazione per riproduzione che si è aggiunta all’accumulazione per espropriazione, è alla base degli attuali Stati che appoggiano l’espropriazione, obbligando i popoli a proteggersi in vari modi, dalla creazione di guardie indigene e cimarrone [è stato dato il nome di cimarrones agli schiavi africani riusciti a fuggire dalle piantagioni e a costruire importanti comunità – ndt] alle autonomie e agli autogoverni territoriali.
Al recente incontro internazionale El Sur Resiste, convocato dal Congresso Nazionale Indigeno e tenutosi al Cideci (San Cristóbal de las Casas) [si veda la Dichiarazione finale dell’incontro – ndt], è stato spiegato che la guerra di espropriazione è solo all’inizio, perché quasi il 40% delle terre del continente sono ancora nelle mani di indigeni e neri, di piccoli agricoltori, di pescatori e di tutte quelle famiglie che producono cibo, come risulta dai rapporti annuali dell’Istituto per lo sviluppo rurale del Sud America.
Ad essere contesi, nel continente, sono quei territori che il capitale non controlla ancora. Contrariamente a quanto dice Max Weber, dobbiamo affermare che oggi lo Stato è quell’istituzione che orchestra le violenze contro i popoli: militari, paramilitari, narcotrafficanti e bande criminali di ogni genere. Scommettere sullo Stato come strumento di trasformazione significa lasciare i popoli in balìa delle bande armate.
Fonte: “Los estados existen para el despojo”, in La Jornada
Traduzione a cura di Camminardomandando.
Stiamo andando verso una direzione sgradevole