Il finanziamento pubblico è stata la principale leva della rivoluzione copernicana nella ricerca dei vaccini contro Covid19, insieme alla tecnologia. Un recente e autorevole rapporto, parla di un investimento pubblico (in 11 mesi di attività sul Covid) di 93 miliardi di dollari, il 95% dei quali destinati ai vaccini – 86,5 miliardi – mentre solo il 5 è stato destinato ai farmaci e diagnostici. Il 32% dell’investimento viene dagli USA, il 24 dalla Commissione Europea, il 13 dal Giappone e dalla Corea del Sud. I governi, inchiodati in un permanente presente o in una logica di breve termine, hanno probabilmente perso la cognizione della concatenazione delle cose e l’asimmetria delle forze in campo. Nella furiosa gara all’accaparramento, hanno stipulato con le aziende contratti blindati dalla segretezza con un incomprensibile laissez faire, senza stabilire ex ante le clausole di accesso al vaccino in base a criteri di salute pubblica, senza uno sguardo rivolto oltre i propri confini. Il tiro alla fune attuale con le imprese, nelle minacce legali degli Arcuri nazionali o delle commissarie europee, è un deprimente saggio del fallimento della funzione pubblica, l’ennesima pagina della insipienza degli Stati nel rapporto con il settore privato. Chi, come me, segue da due decenni la battaglia per l’accesso ai farmaci essenziali – scrive Nicoletta Dentico – conosce fin troppo bene la sceneggiatura, dall’HIV/Aids in poi. Solo che la storia questa volta si ripete su scala mondiale mentre imperversa un virus di cui conosciamo ancora molto poco, e che ora presenta mutazioni importanti
Esattamente un anno fa la pandemia prendeva forma, giorno dopo giorno, nella reticenza cinese a dichiarare la pericolosità del virus e la sua trasmissione interumana. Il 30 gennaio 2020, un mese dopo il primo focolaio virale a Wuhan, l’OMS dichiarava l’emergenza sanitaria internazionale; fu presto evidente che il contagio causato dal virus SARS-CoV-2 non era uno scherzo, e che il mondo era del tutto impreparato, malgrado i ripetuti annunci premonitori. Allora erano 98 i casi, e nessun decesso ancora.
Oggi, i contagiati sono più di 100 milioni, oltre 2 milioni le persone nel mondo che hanno già perso la vita.
Occorre fare memoria dei numeri, che sono vite e persone appunto, per metterli in prospettiva. E’ davvero fastidiosa la sensazione che i governi, inchiodati in un permanente presente o al massimo in una logica di breve termine, abbiano perso la cognizione della concatenazione delle cose e, banalmente, la asimmetria delle forze in campo.
Il tiro alla fune tra governi e imprese farmaceutiche per i vaccini anti-Covid19, nelle minacce legali degli Arcuri nazionali o delle commissarie europee, è un deprimente saggio del fallimento della funzione pubblica, l’ennesima pagina della insipienza degli Stati nel rapporto con il settore privato.
Chi, come me, segue da due decenni la battaglia per l’accesso ai farmaci essenziali – malattia dopo malattia, farmaco dopo farmaco – conosce fin troppo bene la sceneggiatura, dall’HIV/Aids in poi. Solo che la storia questa volta si ripete su scala mondiale mentre imperversa un virus di cui conosciamo ancora molto poco, e che ora presenta mutazioni importanti.
Nella furiosa gara all’accaparramento, i governi hanno stipulato con le aziende contratti blindati dalla segretezza con un incomprensibile laissez faire, senzastabilire ex ante le clausole di accesso al vaccino in base a criteri di salute pubblica, senza uno sguardo rivolto oltre i propri confini.
Incuranti del proprio ruolo di buoni investitori, i paesi europei si sono lanciati, senza alcuna informazione sul ciclo di vita del vaccino, con una pratica preoccupante che non ha eguali nell’acquisto di beni o servizi da parte di strutture pubbliche. Nel pieno di una crisi pandemica si sono accostate a uno dei settori industriali più controversi e potenti come violette mammole, per la trattativa più complicata e decisiva della storia: i rimedi contro Covid19.
Questa inettitudine lascia allibiti almeno per due motivi. Nel maggio 2019 la comunità internazionale ha votato all’assemblea dell’Oms una storica risoluzione, proposta dall’Italia, che chiede ai governi trasparenza nei negoziati in ambito farmaceutico, dopo anni di riservatezze e assenza di informazioni che sono costati fortune agli stati.
Dobbiamo chiedere conto di questa flagrante incongruenza, e formulare qualche domanda. Sulla base di quali criteri di competenza, e soprattutto di conoscenza del settore farmaceutico, sono stati selezionati i negoziatori europei? Quale mandato hanno ricevuto dalla Commissione Europea?
E’ necessario fare chiarezza anche perché, in secondo luogo, il finanziamento pubblico è stata la principale leva della rivoluzione copernicana nella ricerca dei vaccini contro Covid19, insieme alla tecnologia. Il recente rapporto della fondazione kENUP rivela che in 11 mesi di attività su SARS-CoV-2 il pubblico ha investito 93 miliardi di dollari, il 95% dei quali destinati ai vaccini – 86,5 miliardi – e il 5% ai farmaci e diagnostici. L’iniezione proviene dai paesi industrializzati: il 32% dagli USA (Operazione WARP Speed), il 24% dalla Commissione Europea, il 13% dal Giappone e dalla Corea del Sud.
Perché l’Europa non fa valere questo considerevole impegno finanziario pubblico nel condizionare la gestione dei brevetti, come fanno gli USA con il vaccino di Moderna, di cui detengono parte dei diritti di proprietà intellettuale? Perché accettare che sia privatizzata del tutto la conoscenza prodotta con i taxpayers europei?
E’ urgente sollevare questo dibattito in Italia, afflitta dal caos politico proprio nel momento in cui è presidente del G20. Infatti è desolante ascoltare su Rai 3 il consigliere scientifico del ministro Speranza, Walter Ricciardi, quando sostiene che “con la legislazione internazionale vigente il brevetto non è violabile”. Non è così. Anzi, occorre superare quanto prima la reticenza europea nel contrasto a Covid19, che rischia di essere altrettanto scellerata del ritardo cinese della prima ora.
Per uscire dalla rissa contro big pharma, propongo poche concrete piste di azione politica di immediata applicazione. Questa la prima cosa da fare: per riprendere in mano un minimo di leva negoziale, la Commissione può adottare in tempi rapidi una licenza obbligatoria sui brevetti di Pfizer e Astra Zeneca. Cosa significa?
Significa rilevare il brevetto, a fronte del pagamento di royalties alle due aziende, per affidare la produzione dei vaccini ad altre imprese farmaceutiche in Europa, per rispondere alle esigenze di salute pubblica (Art.31 Accordo TRIPs).
La minaccia di azioni legali è una sceneggiata inutile; le aziende sono abituate a pagare multe per le loro “mascalzonate”, accumulano budget consistenti per questo scopo. La licenza obbligatoria invece manderebbe un messaggio politico inequivocabile, il solo che l’industria capisca, sempre che la funzione pubblica intenda esercitare appieno il ruolo di tutela del bene comune.
La seconda azione riguarda l’endorsement europeo in sede WTO alla temporanea sospensione di tutti i diritti di proprietà intellettuale, fintantoché non sia stata raggiunta l’immunità di gregge, come richiesto da India e Sudafrica e sostenuto da oltre 100 nazioni della comunità internazionale.
Anche questa è una pista perfettamente legale, prevista dall’Art. IX comma 3 e 4 dell’Accordo di Marrakesh, costitutivo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. La proposta gode di ampio sostegno di esperti e organizzazioni internazionali. Lo stesso Papa Francesco, nella giornata di Natale ha esplicitamente chiesto di evitare che i brevetti ostacolino l’accesso universale al vaccino.
L’Italia è vincolata a darsi una mossa. Infatti, una risoluzione del Parlamento del 9 dicembre 2020 impegna il governo italiano “a promuovere nell’OMC una deroga per i vaccini anti COVID-19 al regime ordinario dell’Accordo TRIPS sui brevetti e la proprietà intellettuale”.
Questa opzione permetterebbe a piccole e medie imprese di settore di accedere alla conoscenza scientifica esistente e di replicarla, o addirittura migliorarla, con il ricorso all’ingegneria inversa: la strategia che ha promosso l’avanzamento industriale di tutti i paesi del nord del mondo.
Liberare la conoscenza sarebbe una svolta per favorire l’accesso ai vaccini anche ai paesi del sud globale, visto che il mondo rischia un “catastrofico fallimento morale”, ha detto il direttore generale dell’Oms aprendo il Consiglio Esecutivo la scorsa settimana, se non dà seguito alla retorica del vaccino bene comune con iniziative credibili di equità. Il sud globale rischia di cominciare i programmi di immunizzazione alla fine del 2024, o addirittura nel 2025, scriveva pochi giorni fa The Guardian.
Infine, SARS-CoV-2 offre all’Europa l’opportunità di pensare alla costruzione di un sistema di ricerca e sviluppo pubblico comune in ambito biomedico e sanitario, e a una rete di produzione farmaceutica pubblica disseminata negli stati membri, che la metta in grado di affrontare le molte sfide sanitarie senza dipendere esclusivamente dal settore privato.
In altre parole, un business model simile a quello vigente per l’industria della difesa. La storia insegna che molti brevetti farmaceutici, sui cui monopoli hanno lucrato le aziende, provengono dal settore pubblico. Lo stato innovatore è una realtà dell’oggi, non solo del passato, come ricorda Mariana Mazzucato. Su questa visione l’Europa può davvero giocare il futuro per le nuove generazioni. Covid19 è uno straordinario pedagogo, ma è un pedagogo implacabile. Impariamo alla svelta le sue lezioni.
Gianni Hoxchkopfler dice
Come sempère siamo nella solita visione occidentalocentrica non si parla della ricerca dell’istituto Gamalaya russo e vaccino Sputnik V, ne delle difficoltà che il governo bolivariano del Venezuela ha PER accedere ai vaccini per i soldi rubati dal pseudopresidente riconosciuto dagli Usa, dai leacché dell’OEA e dell’Unione Europea.
Cuaba e i suoi vaccini non appare da nessuna parte.