Abbiamo bisogno di abbandonare parole usurate dal dominio del denaro e da vecchi e nuovi razzismi. Dobbiamo cercare ogni giorno una grammatica diversa per lasciar crescere un mondo nuovo

Slessico familiare, Edizioni Interno4, è il nuovo libro di Guido Viale. Una preziosa cassetta degli attrezzi con cui cominciare a guardare e raccontare il mondo da punti di vista diversi da quello del pensiero dominante. Abbiamo scelto per i lettori di Comune due parole-concetto, tra le oltre settanta prese in considerazione dall’autore: Sorellanza e Conversione ecologica. L’adesione di Viale alla campagna Un mondo nuovo comincia da qui è leggibile invece in questa pagina.
di Guido Viale
Sorrellanza
Lungo la faglia aperta dall’arrivo dei profughi si stanno componendo in Europa, come in altre parti del mondo, due fronti che poco hanno a che fare con le tradizionali divisioni politiche e meno ancora con delle chiare distinzioni di classe; due fronti che saranno però i veri protagonisti sulla scena politica e sociale dei prossimi decenni.
Da una parte c’è la schiera rumorosa di coloro che pretendono o promuovono i respingimenti, a qualsiasi costo, sospinti lungo questa deriva da partiti e circoli nazionalisti, xenofobi e razzisti che ne ricavano un sostanzioso dividendo politico ed elettorale. Privi di alternative, nel tentativo di non perdere il loro elettorato, le maggioranze di governo europee non fanno che inseguire questo approccio, spesso mascherandolo dietro vaghi enunciati umanitari, in una corsa cinica e feroce che finirà invece per affossarle, come è già successo in diversi paesi. Per reazione le comunità migranti insediate in Europa, di recente o da tempo, portate a chiudersi su se stesse di fronte agli attacchi di cui sia loro che soprattutto i nuovi arrivati vengono sempre più spesso fatti oggetto, sono alle prese, al loro interno, con lo sviluppo di forme di rancore che sfociano, in un numero ridotto ma significativo di casi, in iniziative stragiste.
Ma accanto a queste comunità, e a contrastare queste derive, opera una moltitudine, in molti casi maggioritaria, anche se in gran parte senza voce, di cittadine e cittadini impegnati sul fronte dell’accoglienza, dell’inclusione e della promozione di una combinazione di culture diverse nelle più svariate combinazioni. Se si moltiplicassero in Europa delle enclave di tolleranza e accoglienza, i legami che permangono tra profughi, migranti e le loro comunità di origine potrebbero trasformarsi nella base da cui prospettare delle alternative di governo, sia politiche che sociali ed economiche, anche nei paesi da cui quei profughi sono fuggiti. La dimensione euro-mediterranea di questa prospettiva si è già palesata in varie occasioni.
Il ciclo di lotte nato in Tunisia con le primavere arabe è stato presto normalizzato o schiacciato nel sangue, non senza interventi militari devastanti delle grandi potenze, che hanno lasciato dietro di sé solo macerie, giganteschi grumi di odio, milizie armate assetate di denaro e potere, dittature e instabilità permanenti. Quelle primavere erano nate da un rifiuto del modello economico e sociale esportato dall’Occidente, ma era loro venuta meno, ben prima dell’89, la prospettiva di un’emancipazione perseguita adottando percorsi socialisti o nazionalisti. E non avevano trovato in nessuna delle forze politiche e dei movimenti sociali dei paesi europei un modello alternativo a cui rifarsi o a cui collegarsi. Nondimeno, il loro effetto era rimbalzato prima in Spagna con gli Indignados e il movimento M15; poi in tutto il continente nordamericano, con Occupy Wall Street e Occupy the World, e poi di nuovo in Europa, con la rivolta di Gezi Park, gli iniziali successi di Syriza, Podemos e Nuit debout (foto in alto).
Ma è ancora sull’altra sponda del Mediterraneo, nel cuore della guerra guerreggiata, nelle comuni autogestite del Rojava e nella difesa di Kobane, che si trova l’esempio più avanzato di autorganizzazione, di condivisione, di resistenza. Lì soprattutto, come componente vitale e centrale di una nuova prospettiva sociale democratica, multietnica, comunitaria e libertaria, fondata sulla parità di genere, si può vedere all’opera il rovesciamento radicale di quella sottomissione totale della donna all’uomo che costituisce la bandiera di tutti gli integralismi: di quello feroce e sanguinario del fondamentalismo islamico come di quello ottuso (tradizionalista o sconciamente sessista: pari sono) in cui si è rifugiata gran parte della difesa dei “valori occidentali”. La lotta del Rojava porta finalmente alla ribalta un rovesciamento dei rapporti tradizionali tra donne e uomini che può minare alle radici tanto la ferocia dei regimi islamici integralisti quanto la cultura patriarcale che ancora domina anche in Occidente. È il rovesciamento a cui ci invita da decenni la rivoluzione femminista per insegnarci ad affidare la lotta politica e sociale, e il nostro modo di organizzare conflitto e partecipazione, a una critica pratica dei mille risvolti in cui si incarna la cultura patriarcale.
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Conversione ecologica
Alex Langer preferiva il temine conversione ecologica a quelli di rivoluzione, riforma, svolta, cambiamento e simili perché ha un risvolto “soggettivo” e uno oggettivo, un risvolto etico e uno sociale, un risvolto personale e uno strutturale. Conversione rimanda a un cambiamento personale, e anche spirituale (Alex era un cristiano) del nostro stile di vita, dei nostri consumi, del modo in cui lavoriamo, del fine per cui lavoriamo o vorremmo lavorare, del nostro rapporto con gli altri e con l’ambiente.
“Ecologica” in italiano, suona diverso da ambientale, perché allude a una continuità ontologica tra l’essere umano e il suo ambiente. La conversione è ecologica, perché tiene conto dei limiti dell’ambiente in cui siamo gettati: limiti essenzialmente temporali; perché fanno i conti con il fatto che siamo esseri mortali in un mondo destinato a durare anche dopo di noi; e per questo toccano il nucleo più profondo della nostra esistenza; e perché ci ricordano che non si può consumare in un tempo dato più di quello che la natura è in grado di produrre; né inquinare più di quanto l’ambiente riesce a rigenerare. Vale tanto per il singolo che per una comunità, per una nazione, per l’umanità intera.
Ma se i nostri comportamenti, quelli individuali, ma soprattutto quelli collettivi, sono la radice ultima sia dello stato di cose presente sia della sua possibile abolizione o trasformazione, questa si potrà tradurre in un cambiamento strutturale, in un recupero di sostenibilità (cioè di capacità di durare: sostenibile in francese si dice durable), di compatibilità con i tempi di rigenerazione dell’ambiente, solo se sarà l’oggetto di un progetto consapevole e condiviso. Ciò richiede uno sguardo disincantato sul lato oggettivo di ogni progetto di conversione. La crisi in atto non si può fronteggiare, né ora né mai, riprendendo il cammino interrotto della crescita e della distruzione dell’ambiente: più ci si accanisce in questa direzione e più la crisi si avvita su se stessa. Lo comprova la sua dimensione finanziaria che trascina con sé redditi, occupazione, sicurezze, aspirazioni.
Lo si vede ancor meglio nell’incapacità delle classi dominanti di tutti i paesi di affrontare la crisi ambientale che incombe sul nostro pianeta. Lo si vede più di tutto nella moltiplicazione delle guerre che ormai stringono in una morsa anche l’Europa.
Non si cambia il mondo solo con scelte individuali su come vivere e che cosa consumare; i comportamenti collettivi in grado di incidere sulla realtà richiedono sempre una condivisione più o meno spinta di analisi, intenti, progetti, strumenti. Il che non esclude certo presenza e permanenza di divergenze e di conflitti tra chi di essa partecipa. In questi comportamenti collettivi e orientati rientrano quelli che chiamiamo “lotte” e, prima tra tutte, ciò che resta della lotta di classe; ma le lotte sociali non esauriscono l’arco delle opzioni coinvolte dalla conversione ecologica, perché molte trasformazioni avvengono sottotraccia e non sulla ribalta della vita sociale e dello spazio pubblico, attraverso processi molecolari e non molari, di massa. Più in generale, i processi che contribuiscono a cambiare il mondo secondo un progetto, anche quando l’esito non corrisponde che in parte agli obiettivi perseguiti, sono sempre frutto dell’aggregazione di una domanda sociale, esplicita o latente, enunciata o silente. Aggregare domanda, per rispondere a desideri, aspettative, bisogni che non possono essere soddisfatti in forma individuale, rivolgendosi a quello che oggi offre o non offre il mercato, costituisce una vera e propria impresa sociale.
L’esempio più chiaro, perché capillare, diffuso e alla portata di tutti è forse costituito dai Gruppi di acquisto solidale (Gas) che nel corso degli ultimi anni hanno registrato una forte crescita. Ogni impresa sociale richiede comprensione del contesto, ascolto, relazioni dirette, ma anche competenze tecniche e capacità imprenditoriali. Non tutte queste doti possono essere riunite nella stessa persona o nello stesso gruppo; ma dove non ci sono persone che si assumono delle responsabilità che travalicano la loro individualità, le lotte non partono o si arenano, la disgregazione prevale e i processi di trasformazione non raggiungono la meta
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