Quando capita di ricordare qualcuno, magari per caso, o anche perché s’è scelto di farlo, di solito ci sono percorsi facili, segnati, oppure ce ne sono di più impervi, pronti ad inasprirsi curva dopo curva. Ci sono, però, anche percorsi ben più labirintici, visibili soltanto a certi occhi attenti che sanno andare molto oltre lo sguardo abituale, un po’ come accade in uno dei libri più originali di Chatwin, dove si pensa che tutto il mondo possa esser visto come una mappa di canti e che esso sia nato da quelli tramandati di generazione in generazione. Annamaria Rivera racconta qui di aver ripensato a Ivan Della Mea con un pensiero ricco di tempo vissuto e profondità quanto struggente. Lo fa, ci pare, con uno di quegli sguardi attenti ai percorsi meno visibili, e forse anche un po’ labirintici, che scarta dall’immagine classica di Ivan tanto cara a molti di noi – “la colonna sonora delle lotte studentesche e operaie degli anni sessanta e settanta” – per entrare, subito, in un mondo felino che lei associa un tratto certo meno noto della personalità di Della Mea. Si tratta della conciliazione o della convivenza tra opposti “che Ivan perseguiva, o solo coltivava, caoticamente e ostinatamente: natura e cultura, dolcezza e selvatichezza, sensitività e razionalità, tenerezza e intransigenza, intuito e ponderatezza, affettività e distacco, creatività e saggezza”. Ne deriva il ritratto politico, e insieme intimo, di un cantore militante quanto poliedrico di umiliazioni, ricatti, sconfitte, umili storie quotidiane e piccole resistenze al dominio e alla violenza della merce, che tende a impossessarsi della totalità della vita sociale. Un intellettuale “autodidatta” assai anomalo, Ivan Della Mea, che, per esempio, sa misurarsi – tratto quantomai essenziale per la sua generazione – con la nobiltà della sconfitta, senza rimuoverla né dissimularla ma senza farsene schiacciare. Ne “porta la croce”, scrive Annamaria, come se il peso del legno potesse alleggerirsi con l’ironia, la tenerezza, la creatività, il gusto della vita… Una lezione indimenticabile perché, tra le altre cose, capace di aprire nuovi, straordinari percorsi alla memoria di tutti
È ricordare il 24 aprile 2010, una sera un po’ malinconica che mi fa ripensare a Ivan Della Mea. E non perché sia la vigilia dell’anniversario della Liberazione. L’associazione d’idee è un’altra. Mi ha messa di malumore una cena in cui per caso ero l’unica donna. Niente di grave: un paio di battute sessiste, il solito vizio maschile di parlarsi addosso. Bastano a farmi rimpiangere complicità femminili, conversazioni autentiche, confidenze, empatia. Vere interlocutrici, penso. E mi viene in mente Ivan, interlocutore di genere maschile, femminile e neutro. Raro quanto intenso. È un pensiero struggente, come si dice. Lo è ancor di più perché devo scrivere un articolo sulla sua figura di intellettuale autodidatta, come ho promesso. Non ho l’ispirazione. Mi avvicino al telefono. Un clic e sul display ricompare il messaggio: “Mi sei venuta in mente perché vi voglio bene”. È ancora in memoria, unico, solitario. Nessuno mi ha più mandato sms al telefono fisso.
Cercando l’ispirazione, osservo la copertina della stravagante autobiografia di Ivan (Se la vita ti dà uno schiaffo, 2009, Jaca book): il suo gatto appare in copertina, ancora più enigmatico, con quello straccio rosso accanto. Nero, gli occhi enormi, i baffi un po’sghembi, dacché Ivan è morto sembra un po’ intristito. Già prima non tendeva all’allegria: appena nato, già sapeva -perché i gatti lo sanno sempre – che chi lo aveva creato sarebbe morto poco dopo, giovanissimo. Una meteora nel panorama artistico del Novecento, dicono le biografie. Penultimo di dodici figli di una famiglia sarda, povera, un’adolescenza orfana, una vita tribolata e quella morte precoce sul fronte greco-albanese. Anni dopo il gatto di Ivan rimase stupito e contento che l’autobiografia di Ivan gli abbia ridato un pizzico di notorietà. In qualcosa somiglia alla vita del mio creatore, pensa subito il gatto: entrambe le vite hanno un odore di orfanità inconfondibile, almeno per il fiuto felino. Ma sa anche – non era difficile immaginarlo – che pure Ivan se ne sarebbe andato presto. Riflette: forse l’autobiografia è il tentativo di beffare la morte imminente anticipando la resurrezione dell’uno dalle spoglie del trino.
Il gatto nero della copertina di Se la vita ti dà uno schiaffo (2009) non è l’unico nella vita e nelle opere di Ivan. Felina è la sua canzone più bella e più radicale, El me gatt: ha il coraggio di affermare che giustizia e ingiustizia valgono per tutte le creature, che la vita di un gatto vale quanto quella di una Ninetta. In Accadde a Tuscamelot. Cose di vita, cose di delirio, (Jaca Book, Milano 2005). Tre gatti, Tatanka, Chicola e Macchiettanera, sono state le muse ispiratrici, le voci che hanno interloquito col suo flusso di coscienza, che gli hanno indicato il senso della vita e lo hanno richiamato alla saggezza. Nella vita-e-opere di Ivan della Mea i gatti non sono espedienti retorici o estetici, né elementi esornativi. Sono, invece, la sintesi – non solo metaforica ma anche vivente, ronfante, miagolante, graffiante – di quella conciliazione di opposti o convivenza che Ivan perseguiva, o solo coltivava, caoticamente e ostinatamente: natura e cultura, dolcezza e selvatichezza, sensitività e razionalità, tenerezza e intransigenza, intuito e ponderatezza, affettività e distacco, creatività e saggezza.
La conciliazione o solo la convivenza fra opposti o divergenti, Ivan le trasferisce anche sul piano ideologico e politico. Comunista e anarchico: a sedici anni si iscrive al Pci, giusto il 1956, l’anno della rivolta ungherese duramente repressa dalle truppe sovietiche; ma libertario rimane nel profondo dell’animo.
Nondimeno riesce a restare nel Pci a lungo, forse in virtù della capacità d’immaginazione: d’immaginare sempre un altro possibile, al di là della realissima ortodossia burocratica che presto si sarebbe tramutata in frettolosa liquidazione del passato.
Cristiano in versione francescana, ma panteista per sensibilità e apprensione del mondo. Francescane potrebbero dirsi, in modo un po’ banale, la noncuranza verso beni e denaro, la quasi povertà, l’altezza del senso morale, la propensione a fare ciò che si deve in modo disinteressato, talvolta fino al sacrificio.
Ma forse si potrebbe precisare: “francescano senza connotazioni confessionali”, quindi panteista o anche spinoziano, perfino buddista oppure jainista, per la sensibilità e l’inclinazione a cogliere il senso delle relazioni fra tutti i viventi e fra i viventi e il cosmo; e per la pratica della com-passione, o dell’ahimsa, si potrebbe azzardare.
Eppure intransigente e settario, come pochi nell’appassionata quanto antiquata difesa del comunismo. Che per lui significa qualcosa di netto ed essenziale: stare sempre dalla parte degli “ultimi del mondo”, per citare L’internazionale di Franco Fortini; dei reietti, dei subalterni, degli sfruttati, dei ribelli. In definitiva, stare sempre dalla parte dei più remoti e basilari fra i tanti sé: orfano d’adozione, ragazzo abbandonato e rinchiuso, operaio elettromeccanico, verniciatore, fattorino, cameriere, barista, correttore di bozze… Agli altri sé, quelli del riscatto – revisore editoriale, pubblicista, cantautore, sceneggiatore, ricercatore, scrittore, poeta, saggista, presidente dell’Arci Corvetto e presidente pure dell’Istituto “Ernesto de Martino” -, egli affida il compito di raccogliere, interpretare, abbellire, restituire le voci o solo i mugugni, le imprecazioni, i lamenti dei reietti, dei subalterni, degli sfruttati, dei ribelli.
E finalmente vengo al dunque: che genere d’intellettuale è stato Ivan Della Mea? Per cominciare: un autodidatta senza la mania dell’erudizione propria degli autodidatti, un colto che si è fatto tale non per frequentazioni accademiche o per dura disciplina di studio, ma per esperienza e curiosità, ingordigia della vita, per ansia di trovare risposte al frullio di dubbi che lo sovrasta e lo accompagna come un’aureola di gabbiani.
Era anche un intellettuale “totale” come quelli di una volta. Quindi del tutto fuori moda dacché si è imposta, come sola legittima e riconosciuta, la figura dello specialista, dell’intellettuale “circoscritto”, colui che sa tutto, o quasi, di un solo campo specifico del sapere. Per Ivan, sensibilità, esperienza e cultura erano tutt’uno. In lui la cultura “alta” si nutriva della cultura “bassa”, e viceversa. Ed è la prossimità alla cultura popolare che gli favoriva ricerca e sperimentalismi di ogni genere e un’elevata capacità di comunicare con mezzi molteplici: dalla musica al cinema, dall’editoriale al racconto, dalla poesia al romanzo, dalla satira politica all’autobiografia.
“Saper di non sapere è quanto c’è di più prossimo alla divinità, ovvero all’ente primigenio, ovvero al vivente”, scrive nell’autobiografia[1]. Era perfino sconcertante, Ivan, nell’umiltà che certe volte gli veniva dalla nudità di chi sa di non sapere. Era capace di telefonarmi in orari assurdi per domandarmi se ça va sans dire suonasse bene nel contesto di una certa frase, se la teoria del sacrificio di René Girard fosse attendibile, in che modo si possa definire il malocchio dal punto di vista antropologico, quando sia appropriato parlare di razzismo e quando di xenofobia.
Sapendo di non sapere, Ivan è sfuggito al rischio di diventare un semicolto, di approdare a quella mezza cultura che, per dirla con Horkheimer e Adorno, “a differenza della semplice incultura, ipostatizza a verità il sapere limitato”[2]. Del resto, bastian contrario com’era, mai avrebbe potuto essere un orecchiante, uno di quei piazzisti che se ne vanno in giro sempre lesti a mostrare la loro mercanzia di mezze idee, frasi fatte, formulette risapute; sempre pronti a tirar fuori dal fagotto il luogo comune adatto alla circostanza e all’interlocutore.
Ivan non solo sapeva di non sapere, lo ammette anche, tanto da sembrarti ingenuo. Non maschera le sue lacune, come dicevano un tempo i nostri insegnanti, dietro qualche espediente retorico. Le sfoggiava, quasi, non per arroganza o goffaggine, ma perché, sapendo di non sapere, riconosceva gli altri e le altre e le loro competenze, purché non fossero disgiunte dalle qualità umane che apprezzava. Come scrive Emmanuel Lévinas, è la relazione con l’altro-nostro maestro che rende possibile la verità. “E la verità è così legata al rapporto sociale che è giustizia. La giustizia consiste nel riconoscere in altri il mio maestro”[3].
È per questa inclinazione al riconoscimento che per Ivan, poco più che ventenne, l’incontro con Gianni Bosio è stato fondamentale – folgorante, si potrebbe dire – tanto da cambiargli non solo la vita, ma anche il pensiero e l’opera. Ivan ha riconosciuto Bosio come maestro, ma anche come interlocutore e amico. E così è diventato “un artigiano di canzoni”, come una volta si è definito: in realtà era un pilastro del movimento di ricerca e riproposta, reinvenzione e divulgazione della canzone popolare e politica.
In una specie di poesia per la sua resurrezione come uno, ho scritto che egli è stato la colonna sonora che ha scandito e dato senso al fluire dei nostri anni ruggenti, ma anche degli anni più infelici e oscuri. In realtà, Ivan non è stato solo “la colonna sonora delle lotte studentesche e operaie degli anni sessanta e settanta”, come si è soliti scrivere, ma anche e da subito, un cantore di umiliazioni, ricatti, sconfitte, umili storie quotidiane e piccole resistenze al dominio e alla violenza della merce, che tende a impossessarsi della totalità della vita sociale: piccole resistenze – anche fatte solo di gesti, testimonianze, comportamenti, delicatezze – intese come tracce, prefigurazioni ipotetiche, non garantite, di una società affrancata dal profitto.
“La cultura autentica (…) non ama esibirsi, non sbandiera rumorosamente se stessa, non si mette al centro della scena (…) Chiede anzi di sparire, di annullarsi e trasformarsi in altro: comportamento, gesti, sensibilità, esistenza”[4]. Quel che Ivan sapeva o aveva appena appreso, ingordamente, anche disordinatamente, lo restituiva alleggerito dal suo peso specifico facendolo volare sulle ali dell’ironia. E, se gli era piaciuto davvero, lo incorporava e poi lo convertiva in gesti, sensibilità, esistenza. Dopo averlo assorbito ed elaborato, lo riversava in canzoni, poesie, articoli, romanzi, racconti, narrazioni, fascicoli della rivista o solo conversazioni con amici e compagni. In cui delle volte, sanguigno com’era, si appassionava e s’inalberava, litigava ferocemente e subito chiudeva la polemica con una battuta leggera o con una dichiarazione di affetto.
Un giorno, a Sesto Fiorentino, ci trovammo a discutere di immigrazione e razzismo. Ivan non se n’era mai occupato granché, ragion per cui inframmezza alcune osservazioni acute e non convenzionali con qualche luogo comune di genere milanese, di quelli che forse punteggiavano le conversazioni al circolo Arci Corvetto. Discutemmo a lungo e pacatamente, io senza rinunciare a smontargli le idées reçues.
Poco dopo lui mi sorprese per la capacità di meditare sulle obiezioni altrui e di cambiare opinione. Aveva deciso che quello era un tema tanto cruciale che era urgente dedicargli un numero della rivista, e mi propose di curarlo. Così nel 2000 uscì il numero monografico del “de Martino” su Stranieri e cittadini. Più tardi si buttò a capofitto nell’impresa di una ricerca basata su racconti di vita di migranti, nella quale coinvolse un mio allievo, Marcello Tarì. Ne conseguirà, nel 2004, un altro bel fascicolo della rivista: “Qui noi viviamo”. Migranti. Storie di vita, curato da Tarì. Così Ivan diventò pure antirazzista abbastanza militante, peculiarità che andò ad aggiungersi al suo essere antifascista, libertario, comunista, ecologista, animalista, gattofilo, anche un po’ femminista. E molte altre cose.
“Questo pugno che sale, questo canto che va…”. Nel modo in cui egli interpretava L’Internazionale di Fortini sta tutto Ivan o almeno sta la chiave per cercare di comprendere che genere d’intellettuale engagé egli fosse. La canta nel solito modo ruvido e imperfetto, più sommesso del consueto, la esse scivolante che scivola più che mai, perfino con qualche stonatura e con qualche vena di malinconia.
È come se il suo modo imperfetto di cantare un testo così “utopico” volesse scongiurare il rischio della retorica e della fede nel sol dell’avvenir. Anche in quella maniera di cantare risiede la convivenza fra opposti o divergenti che egli coltivava: l’utopia del comunismo e lo spirito francescano più immanente, la disperazione del presente e l’ostinazione nel proiettarsi oltre, la coscienza acuta della sconfitta irrevocabile e la ricerca di tracce di resistenza, per quanto minute e quotidiane, perfino personali, sentimentali, gestuali.
In questo consiste la sua “lezione”, come si dice. In un tempo in cui sembra avverarsi la profezia di Debord[5] – lo spettacolo che diviene l’equivalente generale astratto di tutte le merci – un uomo di spettacolo, a suo modo, canta, scrive, racconta con ostinazione le resistenze al dominio del valore di scambio. In epoca di sconfitta, egli non la rimuove né la dissimula dietro nostalgie patetiche, retoriche roboanti o abiure difensive. Neppure se ne fa schiacciare e non si rintana nel guscio del risentimento, dell’individualismo o del cinismo. Invece, “ne porta la croce” ma, come se il peso del legno potesse alleggerirsi con l’ironia, la tenerezza, la creatività, il gusto della vita, la vista di “un volo libero di rondini”, di “uno sciame pulsante di lucciole in amore”, di “un cavallo pazzo in libera uscita”[6]. Perché infine questo conta: “scoprire la carità che ci dobbiamo e dobbiamo a tutto il vivente”, per poter continuare a lottare affinché “niente e nessuno nell’universo mondo abbia bisogno della carità”.
[1] I. Della Mea, Se la vita ti dà uno schiaffo, op. cit., p. 152.
[2] M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’Illuminismo (1947), Einaudi, Torino 1997, p. 210. Vedi anche: T. W. Adorno Teoria della semicultura (1959), in Scritti sociologici (1972), Einaudi, Torino 1976, pp. 95-114.
[3] E. Lévinas, , Totalità e infinito, Jaca Book, Milano 19902, p. 70.
[4] F. La Porta, Basta con la letteratura!, in: “Origine. Scritture in movimento”: http://www.rivistaorigine.it/basta_letteratura.html
[5] G.-E. Debord, La società dello spettacolo (1967),Massari Editore, 2002.
[6] I. Della Mea, Se la vita ti dà uno schiaffo, op. cit., p. 155.
Silvana Rivera dice
Ha fatto bene Annamaria a ricordare questo artista unico e schivo. È stato amato da tanti, che come me guardavano ad un futuro migliore, direi utopico. Io ho avuto la fortuna di conoscerlo e di cantare le sue indimenticabili “canzoni”. Peccato, che oggi non ci sia più traccia di questo immenso artista, soprattutto fra le nuove generazioni.
Leonardo De Franceschi dice
Cara Annamaria,
grazie di questo intervento che unisce il calore del ricordo in prima persona alla consueta e preziosa ricchezza di riferimenti. Confesso di aver scoperto Della Mea proprio grazie a te, incuriosito dai richiami che ti ho sentito fare più volte al suo percorso. Non mi è stato difficile trovare nei mercatini di vinile tanti suoi 33 giri, ceduti anche a pochi euro. È stato come fare un viaggio in un’altra epoca, sicuramente più ricca di ideali ma a me colpì, oltre alla dimensione dell’impegno, anche l’attenzione alle microstorie di un’Italia minore, di provincia, raccontate in dialetto o comunque in un italiano mai standard. Mi ha fatto piacere ritrovare “El me gatt” nell’ultimo disco di Francesco Guccini, un tributo sentito che mi auguro possa contribuire a farlo riscoprire.
Pietro Luigi Clemente dice
letto volentieri e con tanti ricordi e sintonie grazie
Daniella Ambrosino dice
grazie per questo ricordo, necessario per i più giovani, di un compagno indimenticabile, fuori dal coro, e grandissimo artista
Alfonso Gianni dice
Annamaria coglie l’essenza di Ivan della Mea, qunado dice “racconta con ostinazione le resistenze al dominio del valore di scambio”. Almeno così io lo ricordo. E non solo una volta che la sconfitta si è manifestata, ma anche prima, quando sembrava – e in parte era vero – che avessimo il vento alle spalle. Per questo “El me gatt” è fondamentale nella poetica di Ivan. Una piccola storia – così profondamente milanese, per chi in quella città è nato – e priva di luogo allo stesso tempo, quasi un universale spaziale. Una piccola storia che vuole denunciare la perdurante ingiustizia nel mondo. Non è miniomalismo, nè semplice rifiuto di enfasi retorica: è riconoscere nella vita materiale-affettiva di ognuna/o di noi esperienze rivelatrici e formative non altrimenti acquisibili. E il dialetto non è nostalgia, è la migliore modalità espressiva. Grazie Annamaria per averci ridato Ivan tutto intero.
Maurizio Catroppa dice
Un artista vero
Gianluca Paciucci dice
La sua versione dell’Internazionale di Fortini è quanto di più profondo il pensiero politico della sinistra comunista/anarchica/
francescana/gattofila (ma dentro tutto il vivente, con errori ed erranze nel quotidiano) etc. abbia prodotto. “Noi siamo gli ultimi del mondo…” non è la stessa cosa di “Compagni avanti il gran Partito…” ed è invece vicinissima al testo francese “Debout, les damnés de la terre…”, cui dovremmo rifarci (spingendoci anche oltre la prima strofa). Ivan Della Mea la cantava in modo intimo, artisticamente complesso, quasi recitandone dei passaggi – da osteria di sogni e pensieri o cabaret. Verso la prosa, in umiltà. Ringrazio Annamaria per l’articolo capace di entrare dentro un mondo di canti, continuamente in ricerca, a scoprire l’altra e l’altro (gli “altri sé” di cui scrisse A.M. Cirese). E poi Bosio, e altri/e protagoniste di una stagione ‘ripetibile’…: continuare a cantare, nei nostri cori, senza enfasi – cantare Della Mea con il suo modo di porgere i versi. Trasmissione dei canti, del “sapere (e non sapere) cantato/cantante”. Grazie Annamaria, grazie Ivan… Ora e sempre!