La violenza è diventata l’argomentazione principale delle classi dominanti che scatenano tempeste ambientali, militari, politiche, paramilitari, economiche, femminicide, scrive Raúl Zibechi. Poi prende in esame alcuni casi, in America Latina, dove il capitalismo non smette di avanzare su cadaveri di esseri viventi umani e non umani, fiumi, montagne e campi coltivati: dall’incendio repressivo dei raccolti dei Mapuche, nella Patagonia cilena, al sacrificio argentino di ogni libertà e dignità in nome del dio della mega-miniere, dell’agroindustria e dello sfruttamento del petrolio e del litio. Al di là delle forme più o meno grossolane, non c’è alcuna differenza sostanziale nella strenua difesa del modello di accumulazione per espropriazione tra i governi che si dicono di destra o di sinistra. In alcuni casi, tutt’al più, si predicano i diritti mentre l’estrattivismo li viola in modo sistematico. I beni comuni servono a pagare il debito estero e a nutrire la fame insaziabile delle multinazionali e dei gruppi dominanti. Per opporsi a tanta violenza, servono davvero a molto poco, conclude Raúl, le leggi e i decreti, il solo modo di difendersi, difendendo la vita stessa, è la ribellione organizzata
Sono molteplici e simultanee. Sono tempeste ambientali, militari, politiche, paramilitari, economiche, femminicide. È il narcotraffico come strumento dei potenti e degli Stati. È una politica di accumulazione di capitale e di potere, che depreda tutto ciò che incontra sul suo cammino. La violenza è diventata l’argomentazione principale delle classi dominanti.
Non c’è abbastanza spazio per elencarle, ma si riassumono in morte e distruzione. Questo è il capitalismo reale, che in America Latina non smette di avanzare su cadaveri umani e non umani, cadaveri di esseri viventi, fiumi, montagne e campi coltivati.
Nelle ultime settimane i governi e le classi dominanti hanno dispiegato una serie di modalità di attacco alle popolazioni, che rivelano come il potere stringa la morsa dei suoi artigli. La comunità autonoma di Temucuicui, un villaggio mapuche nel sud del Cile, è stata attaccata dalle forze di polizia con il bilancio di un ferito grave e con l’incendio del raccolto di grano.
Non è la prima volta che questa comunità subisce la repressione, né sarà l’ultima. Ma bruciare il cibo è troppo grave. Il 10 febbraio hanno sequestrato 80 tonnellate del loro grano e la scorsa settimana hanno bruciato 50 ettari di terreno comunitario senza permettere il raccolto. I gendarmi hanno impedito violentemente il lavoro dei raccoglitori, circa venti persone sono state ferite con pallini di acciaio e il comunero Hugo Queipul si trova in gravi condizioni.
Il comunicato della comunità autonoma aggiunge che “questo atto è la semplice reiterazione del trattamento riservato al popolo mapuche dallo Stato terrorista cileno, che nel diciannovesimo secolo bruciava le ruka [case] e i raccolti, e si impadroniva del bestiame per darlo ai coloni espatriati che erano fuggiti dalla povertà che c’era in Europa”.
In Guatemala, il giornalismo viene criminalizzato e perseguitato. Un giudice ha aperto una procedura d’inchiesta nei confronti di un gruppo di giornalisti di el Periódico per intralcio alla giustizia. A ragion veduta la giustizia teme le inchieste giornalistiche, perché mettono a nudo la miseria del sistema.
L’obiettivo finale è distruggere il giornalismo indipendente come spazio democratico per eccellenza, o contaminarlo quel tanto che basta per ottenere che le voci più scomode tacciano, si auto-censurino e rinuncino a contestare il potere, dice La Prensa Gráfica.
Anche il Movimiento de Liberación de los Pueblos viene ostacolato in modo che non possa presentare candidati, con un atteggiamento che ricorda la dittatura di Daniel Ortega. Viene però autorizzata la candidatura di Zury Ríos, figlia del dittatore Efraín Ríos Montt, espressamente vietata dalla Costituzione, o di individui corrotti, processati e condannati da organismi internazionali.
Si afferma che El Salvador, l’Honduras e il Guatemala (oltre al Nicaragua), non sono più democrazie. Lo sono mai stati? Quale democrazia può essere costruita sulla povertà del 70% della popolazione, sull’emarginazione e sulla violenza?
Finiamo questa breve panoramica con l’Argentina. L’UNICEF afferma che il 66% dei bambini sono poveri e che l’87% delle famiglie nei quartieri popolari ha difficoltà ad accedere al cibo. Il giornalista Darío Aranda sostiene che, come ormai da 200 anni, l’idea principale dei governanti locali è che il paese sia un esportatore di materie prime, il che è precisamente una delle principali cause della povertà e della dipendenza.
Aranda aggiunge che le loro proposte per uscire dalla crisi sono state le stesse del 2022: più mega-miniere, più agroindustria, più sfruttamento del petrolio e del litio. Non vogliono far altro che ripetere continuamente ciò che è già stato un fallimento e che è alla base dei problemi attuali. Alberto Fernández, il presidente argentino, sembra copiare AMLO [ndt – Andrés Manuel López Obrador, presidente del Messico] nella decisione di risolvere la violenza con più armi per le strade. Di fronte all’offensiva dei narcotrafficanti a Rosario, la sua risposta è l’invio di polizia e militari.
Nei paesi che ho citato ci sono governi sia di destra che di sinistra, conservatori e progressisti. Ma tutti fanno esattamente la stessa cosa. Alcuni mantenendo un certo decoro. Altri con modalità più grossolane. Ciò che non viene messo in discussione è il modello di accumulazione per espropriazione. L’unico dibattito realmente esistente riguarda il modo in cui gestire un modello che né la destra né la sinistra discutono: una realtà impossibile da nascondere con elezioni e diritti.
Predicano i diritti mentre l’estrattivismo li viola sistematicamente. Usano i beni comuni per pagare il debito estero e per appagare le multinazionali e i gruppi dominanti. Aranda quindi conclude: i governi non pensano alla prossima generazione, ma alle prossime elezioni. Non a caso, nelle aree devastate da quel modello ormai si parla di una dittatura mineraria.
Il modello non può essere rovesciato dalle istituzioni, ma dall’azione diretta dal basso. Possiamo imparare dai popoli originari e dalle donne che lottano: non si pone fine all’estrattivismo con i decreti e le leggi, ma con la ribellione organizzata.
Fonte: “Las tormentas de arriba”, in La Jornada.
Traduzione a cura di Camminardomandando
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