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Le nuove domande

Gustavo Esteva
03 Gennaio 2014
Molti anni fa gli zapatisti hanno proposto di esaminare con attenzione lo smantellamento frenetico in corso dello Stato nazionale. Che oggi, in Messico come in molti altri Stati, si è ritirato dal campo energetico. Tuttavia, il vero problema è pensare di resistere in modo tradizionale, chiedendo più Stato. Oggi ci vogliono invece forme di coraggio e di fantasia che abbondano soltanto fra coloro che sono saldamente radicati nel terreno sociale e lì, dal basso, si lasciano ispirare dai milioni di persone che si sono messe in movimento

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di Gustavo Esteva

La cosa più pericolosa è lo stato d’animo che si sta generalizzando, la sensazione di disfatta e di impotenza, la tendenza a nutrire illusioni e fantasie per sentirsi meglio e non cadere nella disperazione.

Dobbiamo analizzare prima di tutto la singolare cecità di coloro che si sentivano collocati alla sinistra dello spettro ideologico. Da più di dieci anni era possibile constatare il continuo deterioramento dei tre poteri costituiti e la decomposizione delle classi politiche. Ma loro non potevano vedere questo spettacolo così patetico e doloroso, perché stavano al suo interno.

Il 20 agosto 2004 gli zapatisti ci hanno proposto di esaminare con attenzione quello che stava succedendo: «Lo smantellamento frenetico e implacabile dello Stato nazionale, condotto da una classe politica priva di professionalità e di pudore (e in non pochi casi scortata da alcuni mezzi di comunicazione e dall’intero sistema giuridico) porterà a un caos e a un incubo che non potrebbe essere uguagliato neppure dai più colossali film dell’orrore» (La Jornada, 20 agosto 2004).

Ho scritto allora che non era una prospettiva incoraggiante, né il brodo di coltura di una rivoluzione. Non era una trasformazione necessaria e sensata, per sostituire progressivamente i pezzi corrotti e inservibili di un macchinario obsoleto. Era un processo agitato e turbolento, pieno di sangue, nel quale i frammenti di quello che era stato il sistema politico messicano cercavano maldestramente e inutilmente di articolarsi di nuovo, oppure si fronteggiavano in modo maldestro e interminabile. Erano guidati dalla smania di sgomberare da altri contendenti una strada che solo nell’illusione degli interessati era ascendente, perché aveva tutto l’aspetto di un baratro nel quale per di più sembrava stessero precipitando anche gli altri Stati nazionali, ciascuno a suo modo.

Secondo gli zapatisti, si trattava della Quarta Guerra Mondiale: «Fra le macerie prodotte da questa guerra di conquista giacciono le basi materiali, economiche, dello Stato-nazione tradizionale… Sono anche distrutti, o gravemente danneggiati, gli apparati e le forme tradizionali di potere… La distruzione colpisce quindi anche la classe politica tradizionale» (La Jornada, 20 giugno 2004).

Dieci anni prima del Patto per il Messico e delle sue riforme, gli zapatisti avevano denunciato che là in alto regnano la spudoratezza, la sfacciataggine, il cinismo, l’indecenza. Ma mentre loro si mettevano all’opera, come era descritto nella Sesta Dichiarazione della Selva Lacandona che ci invitava ad accompagnarli nella resistenza e nella lotta, cecità e distrazioni si diffondevano fra coloro che non potevano distogliere lo sguardo dai cinici, dagli spudorati e dagli indecenti, e in tal modo erano contagiati dal loro cinismo e dalla loro indecenza…

Gli strumenti analitici che l’orrore di questi giorni produce sembrano gravemente avariati. Si dice, ad esempio, che si è realizzato il cambiamento strutturale più profondo dell’ultimo secolo, perché con la cosiddetta riforma energetica lo Stato si ritira completamente. Si continua in tal modo a pensare a uno Stato che non esiste più, quello che aveva una relativa autonomia e a cui ci si poteva affidare per difendere la nazione e le maggioranze, nonostante tutti i suoi limiti. Lungi dal ritirarsi, lo Stato attuale mantiene le sue facoltà e i suoi poteri, quelli di cui ha bisogno per proteggere e servire il capitale nazionale e transnazionale. Non è più lo Stato che c’era prima.

Ciò che appare sorprendente è che persino le analisi più lucide del disastro restano intrappolate nella rete concettuale e nelle prospettive di un’epoca ormai terminata. Come se nulla fosse successo. Come se potesse continuare all’infinito questo gioco in cui di volta in volta ci si appella ai dispositivi e ai meccanismi del sistema nel quale siamo vissuti per la maggior parte del XX secolo e che ormai non esiste più.

È sempre più evidente che le parole in uso hanno smesso di essere adeguate. Non servono più per comprendere quello che accade, e meno ancora per guidare la resistenza e la costruzione di qualcosa di nuovo. Le parole sono porte della percezione. Noi sperimentiamo il mondo in base alle parole che usiamo. Con le parole attualmente in voga si continua a bussare alle porte sbagliate, si alimentano false illusioni, si favoriscono paralisi e apatia in un momento in cui c’è bisogno di coraggio e di iniziativa…

Con gli occhiali del passato, che per molti sono l’unico modo di vedere, non si potrà arrivare molto lontano. Ma non è facile abbandonarli. Per aprire gli occhi, oggi ci vogliono forme di coraggio e di fantasia che abbondano soltanto fra coloro che sono saldamente radicati nel terreno sociale e lì, dal basso, si lasciano ispirare dai milioni di persone che si sono messe in movimento.

Fonte: La Jornada

Traduzione a cura di

Foto: protesta a Città del Messico contro le privatizzazioni in campo energetico.

Gustavo Esteva vive a Oaxaca, in Messico. I suoi libri vengono pubblicati in diversi paesi del mondo. In Italia, sono stati tradotti: «Elogio dello zapatismo», Karma edizioni: «La Comune di Oaxaca», Carta; per l’editore Asterios gli ultimi tre: «Antistasis. L’insurrezione in corso»; «Torniamo alla Tavola» e «Senza Insegnanti». In Messico Esteva scrive regolarmente per il quotidiano La Jornada ma i suoi saggi vengono pubblicati anche in molti altri paesi. In Italia collabora con Comune.

Gli altri articoli di Gustavo Esteva su Comune-info li trovate QUI.

DA LEGGERE:

Come ribellarsi al saccheggio

Raúl Zibechi | Sembrava una cavalcata inarrestabile, quella del “modelo” estrattivo in América latina. Moderna, spietata, vigorosa. E invece alcune delle monumentali imprese che meglio la rappresentano cominciano a conoscere sorprendenti sconfitte

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