Cinquanta canti poetici collettivi, cinquanta storie di donne e uomini che hanno pagato con la vita le loro scelte di libertà, cinquanta tentativi per imparare a non cadere nel vittimismo e fare nostra “quella loro rara capacità d’amare”. Si parte dal 1969 con Giuseppe Pinelli per arrivare al 2021 con Maria Soledad Rosas, passando, tra gli altri, per Fabrizio Ceruso, Giorgiana Masi, Giuseppe Uva, Samb Modou e Diop Mor. Per tutte, per ciascuna, per tutti, per ciascuno (Edizioni D.E.A.) è un testo di Filippo Kaloomenìdis e del Collettivo artistico e politico Eutopia. “La disperazione e la gioia, la comprensione e la poesia…”, scrive Franco Berardi Bifo nelle note introduttive. Qui le pagine dedicate a Becky Moses, cittadina di Riace. «Le case erano abbandonate, ma ora è di nuovo tutto a posto. Grazie al sindaco, gli immigrati possono vivere qui». Furono mattine che non aprii mai gli occhi. Se si aprono gli occhi, il sogno finisce…”


«Le persone viaggiano perché vogliono scoprire il mondo. Il mio è stato un viaggio che non volevo. È stato terribile».1
Fui femmina nella nera terra antica del fiume Niger. Fui nipote e figlia.
Mia madre fuggì, io rimasi. Poi presi la via che lei tracciò, troppo tardi mi accorsi che era buia. Ci si poteva soltanto piegare. Fui puttana vestita di gocce di sudore. Gambe aperte, ventre pieno e schiena lucida di sperma.
Amina mi chiamarono, non più Becky, maledetta dalla tua bocca, nne nne2. Amina, anima che pagò salato. Salato come il mare che mi prese sul suo dorso e che ogni giorno minacciava di darmi ai pesci astuti annidati nel fondo. Rimasi in silenzio, pensai alle foglie di mangrovia che non vogliono ingiallire ma essere a lungo foglie più belle dei fiori. E riuscii ad approdare.
«Sai che devi sopportare perché non hai nessuno al mondo. Sei sola. Quello che ho fatto potrebbe non essere buono, ma ora è perfetto».
Fu la calma che risuonava nelle strade. Fu l’odore dell’aria netta. Fu il calore del sole e dei vestiti. Le gambe chiuse, il ventre sazio, la schiena asciutta. E i lamenti divennero canti di risate.
La luce delle vie di Riace resisteva all’autunno, all’inverno, a quei tramonti improvvisi che non mettono paura neanche ai bambini. Imparai ogni parlata. «Uecchju a ra casa»3, sapevo dire alle amiche. Perché la voce può essere secca, ma il tavolo attorno al quale sedevamo, ci guardavamo e sbucciavamo i pipi4 era fertile come un campo. Ero di nuovo Becky, nne nne, la tua nwa nwa5.
«Le case erano abbandonate, ma ora è di nuovo tutto a posto. Grazie al sindaco, gli immigrati possono vivere qui». Furono mattine che non aprii mai gli occhi. Se si aprono gli occhi, il sogno finisce.
Un’alba dissero che la nera terra antica mi reclamava. Ogni gesto e l’impasto di lingue che davano forma ai giorni nostri sparirono. Come i respiri dei mogani recisi nel villaggio dov’ero cresciuta.
A monosillabi ripeterono che non potevamo più stare a Riace. Qualcuno l’odiava perché la pace vera è intollerabile. Tre volte sono stata respinta, tre volte sono tornata. Ma non c’era più posto. A occhi chiusi, nel sonno del sogno, mi ritrovai tra baracche di cartone, legno e plastica. E mi aprirono di nuovo le gambe. E furono ancora lamenti.
Sognai il caldo braciere estraniante. Quello pieno di nenie che una nonna cantava alla sua nwa nwa. L’incendio lavò la ragione e le fiamme alte si fecero mantello. Sognai abiti di fuoco. Su gambe chiuse. Su un ventre a riposo. Su una schiena legnosa.
Fui liquida come il mare. Cibo per i pesci astuti. Poche briciole di gambe, poche briciole di ventre, poche briciole di schiena.
Il rogo sputò la fiamma che divorò il reale e lasciò il sogno: la foto col mio nome scritto sotto. «A volte la cattiva strada che prendi ti condurrà alla buona strada. Poi ti siedi e guardi come sarà il futuro. Ma so che il futuro sarà perfetto per me».
Becky Moses
Alle due di notte del 27 gennaio 2018 un incendio devasta la baraccopoli di San Ferdinando a Rosarno. Una ragazza nigeriana, Becky Moses, 26 anni, muore tra le fiamme. A dicembre aveva ricevuto il rifiuto alla sua richiesta d’asilo ed era stata costretta a lasciare Riace, nei giorni dello spietato smantellamento dell’avanzato progetto sociale del sindaco Mimmo Lucano. A Riace, Becky aveva trovato accoglienza, un documento che riconosceva il suo nome, l’appartenenza alla comunità, il diritto a una casa e a una possibilità di vita.
Come se non bastasse, il processo istruito nei mesi successivi incrimina per il rogo e per la morte di Becky un’altra migrante nigeriana, risultata estranea ai fatti, e due ignoti complici africani. Anche in questo caso, le istituzioni declinano ogni responsabilità.
1 Le frasi virgolettate sono di Becky Moses e sono tratte dal documentario But now is perfect di Carin Goeijers (Italy, Netherlands, 2018).
2 Nonna, in lingua igboo.
3 Prenditi cura della casa, in calabrese.
4 Peperoni, in calabrese.
5 Nipote, in lingua igboo.
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Grazie
Riace è una esperienza che è stata dimenticata ma che è rivoluzionaria.
Ho visitato questo paese l’estate scorsa e ne ho capito la grandezza, anche se ora c’è solo l’ombra di quello che c’era. Un’occasione persa per la sinistra italiana e per la chiesa: Lucano non andava lasciato solo a combattete con le trappole della burocrazia.
E Becky è una vittima anche di questa omissione