Se ti ribelli sei un criminale, devi essere messo in condizione di non nuocere. Con qualsiasi mezzo. Anche con la violenza più brutale. I governi del mondo sono in preda al panico. Sanno di aver perduto legittimità e potere politico. Sanno di aver perso il controllo e, per farsi obbedire, non hanno che la forza arbitraria delle loro polizie. Spesso, però, non basta neanche quella. E allora il panico cresce. Il capitalismo è allo stremo, non riesce più a dominarci. Cosa accadrà? Potrebbe anche andar peggio. Si prepara un sistema di dominio che conserva lo sfruttamento ma rende la spoliazione della gente più aperta e diretta. La facciata democratica va in pezzi: anche la resistenza deve cambiare
di Gustavo Esteva
La criminalizzazione della protesta sociale si estende rapidamente nel mondo intero.
I modi e i metodi sono così simili fra loro che è difficile resistere alla tentazione di immaginare che siamo di fronte a una cospirazione, o quanto meno a una precisa concertazione tra i governi. Si impiegano le stesse tattiche e gli stessi strumenti. Dovunque appaiono degli infiltrati che provocano la violenza. In tutti i luoghi si constatano le operazioni di violenza brutale e insensata di forze di polizia in uniforme o in abiti civili, illustrate con dovizia nei media. Dovunque si eseguono detenzioni arbitrarie di dirigenti o di giornalisti o di semplici cittadini che passeggiano in strada…
Tuttavia, non c’è necessità di ricorrere a questa ipotesi per spiegare la convergenza dei governi in queste azioni repressive… se ne adottiamo, in cambio, un’altra che sembra avere basi più solide. È certo che i governi scambiano informazioni e imparano gli uni dagli altri. È certo che confabulano a gruppi per adottare politiche somiglianti. Ciò che però rende uniformi le loro azioni è soprattutto la reazione istintiva di tutti loro di fronte all’ondata di panico che li attanaglia.
Il panico ha due sorgenti molto specifiche. Innanzi tutto, i governi hanno consapevolezza crescente di aver perduto legittimità e potere politico. Le loro capacità di gestione politica e di competenza amministrativa sono chiaramente messe in dubbio. La gente ormai sa che non esprimono la volontà generale. Il lemma di Wall Street comincia a essere condiviso universalmente: loro rappresentano solo l’uno per cento. I governi, pertanto, perdono la capacità di controllo. Per ottenere obbedienza restano loro soltanto la polizia, l’intimidazione, l’arbitrarietà… e il panico cresce quando non la ottengono neppure così.
Il panico ha anche un’altra fonte. Al di là delle loro ambiguità, dei loro compromessi e delle loro incompetenze, i governi, tutti i governi, si trovano di fronte all’impossibilità reale di rispondere alle necessità della gente, che sono ogni giorno di più quelle vitali. Non hanno mezzi per farlo. Sanno in modo confuso, con un vago disagio, che il regime in cui siamo non è più in grado di rispondere…
Teodor Shanin lo anticipò alcuni anni or sono. “Vediamo ormai la fine del capitalismo reale, in un senso molto concreto. Alcuni tuttavia credono ancora di trovare un’alternativa all’interno del capitalismo. Ben presto perderanno questa illusione”.
Il capitale ormai non può governare un paese. Lo Stato nazionale era lo spazio ideale per il capitalismo, per poter esercitare il proprio dominio per mezzo delle sue amministrazioni statali, alle quali si riconosceva una certa capacità di gestione e di relativa autonomia, per governare i conflitti, mantenere la stabilità sociale e proteggere il capitale dai suoi stessi eccessi.
Oggi la forza stessa del capitale, la sua trans-nazionalizzazione, lo hanno privato del suo spazio naturale di esistenza, dell’arena in cui poteva governare. Le società reali, che tuttora hanno la forma di Stati nazionali, non possono più essere governate per mezzo del capitalismo, neppure nella forma del capitalismo di Stato che si sta ogni giorno di più adottando.
Questa non è in sé una buona notizia, perché al posto dell’attuale regime dominante ne è stato preparato un altro molto peggiore. Non viene abbandonato lo sfruttamento ma è in crescita la spoliazione aperta e diretta, quella che aveva caratterizzato il pre-capitalismo, l’accumulazione originaria. E sta scomparendo la facciata democratica per impiantare l’esercizio autoritario nella paura del disordine e del caos che si diffonde fra la gente allorché la protesta sociale si generalizza.
Quello che abbiamo visto in Messico in questo periodo non è la restaurazione del vecchio PRI e neppure il modo di governare stile Atenco. Come tutti gli altri governi, quello di Peña ha imparato ad ignorare la gente, quale che sia la dimensione della protesta nelle strade o l’insistenza dei non sottomessi. Lo sanno bene i lavoratori dell’impresa di elettricità (della quale si sta tentando la privatizzazione, ndt) o i dipendenti di Mexicana (l’azienda aerea già di Stato, ndt). Lo stanno imparando gli insegnanti.
Se il punto di origine del panico e di queste reazioni feroci dei governi è l’iniziativa della gente, di coloro che ormai non ne possono più di loro e lottano più per la sopravvivenza che per i propri diritti, sembra giunto il momento di cambiare il significato delle loro lotte.
Non si tratta di abbandonare la difesa dei propri territori o dei propri diritti: la resistenza deve continuare, con tutti i mezzi, fino al successo. Però il modo di condurre la resistenza, nelle condizioni reali che oggi abbiamo di fronte, consiste nel portare la lotta sul nostro terreno, concentrarla sulla riorganizzazione della società dal basso e cercare un’articolazione efficace delle larghe coalizioni di scontenti che si sono venute creando.
Fonte: La Jornada del 14 ottobre 2013. Titolo originale: Rumbos de la protesta
Traduzione a cura di camminar domandando.
Gustavo Esteva vive a Oaxaca, in Messico. I suoi libri vengono pubblicati in diversi paesi del mondo. In Italia, sono stati tradotti: «Elogio dello zapatismo», Karma edizioni: «La Comune di Oaxaca», Carta; e, proprio in questi mesi, per l’editore Asterios gli ultimi tre: «Antistasis. L’insurrezione in corso»; «Torniamo alla Tavola» e «Senza Insegnanti». In Messico Esteva scrive regolarmente per il quotidiano La Jornada ma i suoi saggi vengono pubblicati anche in molti altri paesi. In Italia collabora con Comune-info.
Gli altri articoli di Gustavo Esteva su Comune-info li trovate QUI.
DA VEDERE
Media indipendenti documentano le brutalità della polizia il 2 ottobre 2013
[youtube]http://www.youtube.com/watch?v=-d197yvrCy4[/youtube]
L’articolo di Esteva in spagnolo.
Rumbos de la protesta
La criminalización de la protesta social se extiende rápidamente en el mundo entero.
Los modos y maneras son tan similares que es difícil resistir la tentación de imaginar una conspiración o por lo menos una concertación precisa entre los gobiernos. Se usan realmente las mismas tácticas, los mismos dispositivos. En todas partes aparecen los infiltrados que provocan la violencia. En todas partes se dan los ejercicios de violencia brutal y sin sentido de policías uniformados o vestidos de civil que son ampliamente exhibidos en los medios. En todas partes se realizan detenciones arbitrarias de dirigentes o periodistas o simples paseantes…
Sin embargo, no hace falta esa hipótesis para explicar la convergencia de los gobiernos en esas acciones represivas… si adoptamos, en cambio, otra que parece tener mejor sustento. Es cierto que los gobiernos intercambian información y aprenden unos de otros. Es cierto que se confabulan en grupos para adoptar políticas semejantes. Lo que uniforma sus reacciones, empero, es sobre todo la reacción instintiva de todos ellos ante la ola de pánico que los invade.
El pánico tiene dos fuentes muy específicas. Ante todo, los gobiernos tienen creciente conciencia de que han perdido legitimidad y poder político. Su capacidad de gestión política y su competencia administrativa están abiertamente en entredicho. La gente sabe ya que no expresan la voluntad general. El lema de Wall Street empieza a ser convicción universal: sólo representan al uno por ciento. Los gobiernos, por tanto, perdieron capacidad de conducción. Sólo les queda la policía, la intimidación, la arbitrariedad, para ser obedecidos… y el pánico aumenta cuando ni siquiera así lo consiguen.
El pánico tiene también otra fuente. Más allá de sus inclinaciones ses gadas, sus compromisos y sus incompetencias, los gobiernos, todos los gobiernos, enfrentan la imposibilidad real de atender las exigencias populares, que son cada vez más básicas. No tienen con qué. Saben de alguna manera, así sea con una vaga incomodidad, que el régimen en que estamos no da ya más de sí…
Hace años nos lo anticipó Teodor Shanin. “Vemos ya el fin del capitalismo real, en un sentido muy concreto. Algunos todavía creen encontrar en el capitalismo una alternativa. Pronto se desilusionarán.”
El capital ya no puede gobernar un país. El Estado nacional era el espacio ideal para el capitalismo, para que en él pudiera ejercer su imperio por medio de sus administradores estatales, a quienes se otorgaba cierta capacidad de gestión y de autonomía relativa, para procesar los conflictos, mantener la estabilidad social y proteger al capital de sus propios excesos. Pero la propia fuerza del capital, su trasnacionalización, lo han privado de su espacio natural de existencia, de la arena en que podía regir. Las sociedades reales, que todavía tienen la forma de estados nacionales, no pueden ser ya gobernadas por medio del capitalismo, ni siquiera en la forma de capitalismo de Estado que se adopta cada vez más.
Esto no constituye en sí una buena noticia, porque en vez del régimen dominante se ha estado preparando otro mucho peor. No se abandona la explotación, pero aumenta el despojo abierto y directo, el que caracterizó más bien al precapitalismo, la acumulación originaria. Y se desvanece la fachada democrática para montar el ejercicio autoritario en el miedo al desorden y el caos que cunde cada vez más entre la gente, cuando la protesta social se generaliza.
Lo que hemos visto en este periodo en México no es la restauración del viejo PRI y ni siquiera el estilo Atenco de gobernar. Como todos los demás gobiernos, el de Peña ha aprendido a ignorar a la gente, no importa la magnitud de la protesta callejera o la persistencia de los inconformes. Lo saben bien los electricistas o los empleados de Mexicana. Lo acaban de aprender los maestros.
Si el punto de partida del pánico y de estas reacciones feroces de los gobiernos es la iniciativa de la gente, de quienes ya están hartos de ellos y luchan más que por sus derechos por la supervivencia, parece llegado el tiempo de que cambien el sentido de su lucha.
No se trata de que abandonen la defensa de sus territorios o de sus derechos: la resistencia debe continuar, por todos los medios al alcance. Pero la forma de llevar adelante la resistencia, en las condiciones reales que hoy enfrentamos, es traer la lucha a nuestro propio terreno, concentrarla en la reorganización de la sociedad desde abajo y buscar una articulación eficaz de las amplias coaliciones de descontentos que se han estado formando.
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