Confini invisibili: Comunità liminali e pratiche di resistenza nella città neoliberista, di Antonucci, Sorice e Volterrani, è un manuale molto rigoroso su come si rigenerano i tessuti urbani a partire dalle loro comunità. Una sociologia che si posiziona al fianco degli innovatori ricostruendone e analizzandone il discorso per ridare voce e potere democratico a chi, in modi e luoghi molto diversi, “si ribella, facendo”
Ci sono dei giorni in cui ti ritrovi senza voce. Altri nei quali ti senti come la polvere sotto al tappeto: impalpabile ma non conforme, di troppo, di sporco, per chi stringe con sempre maggiore decisione il manico della società. Per questo vieni sottratto alla vista, rimosso, spesso con violenza, con la scusa del decoro o della sicurezza altrui. Eppure la materialità, la densità, l’urgenza di quello stare con altri nella stessa invisibilità si fa montagna, inciampa il passo, a volte riesce persino a rovesciare chi si ostina a nascondere, emarginare. Sotto al tappeto quei grumi di inerzia, nei casi migliori di variamente organizzata resistenza, fanno e diventano comunità.
Le comunità “liminali” nascono al limite dello spazio urbano percepito: in vista ma lontane, in spazi vulnerabili ma non per questo vinti, vicini ma non per questo coesi. A definirle e riconoscerle come “pratiche di resistenza nella città neoliberista” un volume di Meltemi, “Confini Invisibili”, edito non a caso nella collana “Sociologia di posizione”, a firma di Maria Cristina Antonucci, Michele Sorice e Andrea Volterrani. Tre studiosi con esperienze molto diverse di ricerca – politiche sociali, sociologia dei processi culturali, comunicativi e dei processi gestionali – con una prossimità al Terzo settore che li rende osservatori partecipanti ma esatti di questo fenomeno che nasce nella “città neoliberista” in cui l’espropriazione del territorio, le forme più violente di gentrificazione, la defamiliarizzazione, respingono i suoi abitanti in spazi liminali in cui la vulnerabilità dei soggetti è colpa da nascondere e di cui vergognarsi.
Lo stigma che cade sull’escluso rinforza, storicamente, le scelte di riduzione del welfare e di privatizzazione dei servizi a vantaggio della riduzione della tassazione su chi vince e imprende. La facilitazione della dimensione globale del mercato attraverso la deregulation, riduce i diritti agli standard più omogenei e più economici per il neopadronato nel breve periodo, scaricando sulla dimensione personale la “colpa” del bisogno e sulla collettività tutti i suoi impatti di medio-lungo termine. Ciò che questo volume esprime in premessa in modo del tutto proprio e interessante, è il neoliberismo e la sua auto-istituzione in specifiche forme degenerative, che non viene, però, definito con misure economiche di stampo monetarista, ma come “immaginario sociale”, o meglio come “razionalità politica globale”. Uno scatto in basso che mette meglio a fuoco quanto il Governo della maggioranza sia visto da queste nuove autocrazie finanza-digitali come una potenziale minaccia ai diritti individuali e alle libertà costituzionali. La democrazia è un lusso, possibile solo in condizioni di relativa ricchezza, congiunta a una forte presenza della classe media per garantire la stabilità politica. I neoliberisti di ultima generazione tendono, quindi, a favorire la conduzione della cosa pubblica da parte di esperti ed élite. Una prospettiva in cui, secondo gli studiosi, appare in tutta la sua terribile potenza quella “cultura dello scarto” contro cui si è più volte levata la voce di papa Francesco.
In questa cornice del tutto disperante, la prima buona notizia è che questo volume di ricerca è riuscito a rintracciare segni di resistenza (segni di speranza?) che si muovono in modalità inedite e originali – gli studiosi le chiamano “tattiche” – nelle tendenze antidemocratiche del neoliberismo. La disgregazione della comunità tradizionale è un dato di fatto abbastanza acquisito nelle società post-industriali, eppure alcune esperienze micro-comunitarie sembrano aver ripreso anche caratteri delle mutualità operaie di fine Ottocento, ma con una riproduzione di legami con il territorio accanto a quelli propri della produzione e del lavoro. La seconda buona notizia è che anche gli ecosistemi comunicativi digitali possono – a determinate condizioni di accesso e uso consapevole – rappresentare non solo spazi di mobilitazione, ma anche di costruzione di relazioni di resistenza e di nuove dimensioni comunitarie.
Gli spazi urbani sono quelli dove principalmente si possono rintracciare queste esperienze comunitarie contemporanee (Ecc), ma anche quelli dove c’è una più elevata densità relazionale tra i membri che la compongono. Gli spazi liminali urbani brulicano di nuove aggregazioni, e gli autori ne individuano alcune preminenti: comunità territoriali nate in funzione di difesa di uno spazio limitato o, al più, con finalità legate alla rigenerazione urbana. Poi gruppi di riappropriazione tecnologica: comunità di condivisione dell’accesso a Internet attraverso connessioni wi-fi aperte. Ci sono esperienze definite – per noi di Comune-info con qualche orgoglio – del “ribellarsi facendo”: realtà di movimento, con una forte connotazione territoriale, la cui attività si concentra sulla creazione di una sensibilità politica anche attraverso la trasmissione di saperi. Ci sono anche i gruppi di solidarietà orizzontale: dai gruppi di acquisto solidale (spesso legati a un territorio ma non necessariamente limitato). a quelli impegnati nelle lotte in difesa della casa o, più genericamente, nei progetti di co-housing. Ci si trovano le comunità urbane in senso stretto: spesso attivate da una o più motivazioni fra quelle precedentemente citate ma poi capaci di organizzarsi in maniera stabile come spazio di confronto e impegno politico sul territorio.
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La ricerca sul campo che è al cuore del volume, condotta attraverso interviste a 14 esperienze di rigenerazione urbana in altrettante città metropolitane italiane, analizza diverse pratiche e formati di interventi in spazi interstiziali e marginali, attivati da soggettività diverse e con modelli di lavoro differenti tra loro per dimensione, impatto sui territori, ragione sociale delle realtà promotrici e componenti delle reti attivate. Si va da chi incide in autofinanziamento in un particolare aspetto di un quartiere – il suo patrimonio verde, i suoi servizi digitali o di prossimità – a chi ha a disposizione il capitale paziente di fondazioni o investitori pubblici per grandi trasformazioni spaziali, produttive o interventi di legalità. Non è questa la sede per spoilerare tutti i risultati proposti, ma se c’è un aspetto che intriga e colpisce è che, grazie al rigore della metodologia proposta, emergono con grande forza alcune parole-guida che vanno a costruire, attraverso le voci dei protagonisti di queste storie di cambiamento, il dna di una società più libera, partecipata e per questo desiderabile perché profondamente trasformativa delle condizioni materiali dei protagonisti e dei determinanti di un futuro all’altezza delle loro fatiche. Si restituisce loro voce, per di più, praticando una costruzione induttiva della conoscenza.
Le parole che presentano la maggiore frequenza sono “attività”, “progetto”, “comunità”, ma anche “persone”, posizionata vicino a termini quali “stato” e “parte”. Esse fanno emergere, così, una “spiccata tendenza operativa”, all’interno di una dimensione di coinvolgimento e partecipazione sociale alle azioni, di valore istituzionale e costituente. Tracciando, invece, la mappa delle interconnessioni tra le diverse parole, si evidenzia la centralità della parola “territorio”, legata da “intense reti di connessioni con tutti gli altri termini”. È così che lo spazio fisico non solo si pone, per tutti gli intervistati, al centro dell’intervento, ma per chi lo osserva – e suggerisce come meglio interpretarlo per poterlo meglio valorizzare o amministrare – si carica più correttamente di tutta la propria densità non neutrale di significati culturali, storici e emotivi che appartengono alle persone che lo vivono. Allo stesso tempo, infine, da analoghe correlazioni verbali, emerge con chiarezza come ogni intervento riferito all’assetto spaziale non possa funzionare se non in modo integrato e interdipendente con la dimensione sociale e del lavoro.
Se c’è un’esperienza che ciascuna realtà condivide, pur a distanza di chilometri e di approcci, è la complessità dei rapporti con i soggetti pubblici. Soprattutto far capire all’istituito del momento quanto, si legge in una delle interviste, “il percorso di rigenerazione comunitaria e relazionale sia un elemento intangibile, rispetto all’idea, molto diffusa, di processi di rigenerazione urbana, fisici e tangibili, che hanno un impatto spendibile nell’immediato in termini di consenso”. Nella migliore delle ipotesi, il problema è come non imprigionare nelle griglie burocratiche l’innovazione di cui queste esperienze sono portatrici, per non indebolirne il potenziale innovativo. Il rischio peggiore è che anche le migliori di queste esperienze vengano sussunte nella logica neoliberista e si trasformino in valore da estrarre – come lavoro, pensiero, relazione, dati – alla vecchia maniera sotto il ricatto della sostenibilità economica e della emersione individuale o di clan. Una scelta che ha disseccato molte tra le migliori esperienze sociali nelle nostre città. Nuove alleate, al fianco delle comunità liminali, non normalizzate, unici limiti materiali ai processi di gentrificazione, atomizzazione, individualizzazione ed economicismo, possono e devono “posizionarsi” la comunicazione e le scienze sociali. Una proposta e una provocazione che ci sentiamo di raccogliere e che, con loro, rilanciamo ai media e all’università, per rinnovare la politica, o per superarla, nel segno della partecipazione e del confronto, condizioni ricostituenti della democrazia urbana e della prossimità.
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