Le condanne non solo verso il suprematismo bianco ma, almeno per questa volta, anche nei confronti del razzismo istituzionale, dopo l’assassinio di George Floyd, sono state tante, nette e unanimi in ogni Paese del mondo. Esattamente il contrario, per quel che riguarda la reticenza o la censura, di quanto avviene nei confronti del razzismo implacabile che viene tutt’ora alimentato verso i gitani, gli zingari o comunque li si voglia chiamare. In questo ottimo articolo – scritto da due autori appartenenti a Kale Amenge, un’organizzazione che, da una prospettiva de-coloniale, si batte contro l’integrazione forzata e per l’autonomia e l’emancipazione del popolo gitano – si prende in considerazione il caso della violenza della polizia e del razzismo di stato della Spagna. La situazione, naturalmente, non è certo migliore in Italia e in molti altri paesi europei. Uno dei problemi più acuti, scrivono Fernández e Giménez, è che parlare della brutalità e della violenza della polizia, per qualunque persona zigana, é un compito arduo, perché non é una cosa astratta, ma qualcosa che sentiamo nei nostri corpi, che si manifesta nella nostra vita quotidiana, che coinvolge le nostre famiglie e che arriva a porre fine alle nostre vite. Nel momento in cui un poliziotto ci ferma per strada, ci perquisisce, ci aggredisce, ci insulta o persino ci uccide, noi kalos (zingari, NdT) non rappresentiamo per loro nient’altro che un rischio. Siamo un corpo del rischio – il corpo razzializzato che deve essere controllato, disciplinato, “educato”, contenuto e/o eliminato prima di “infettare” la sacra vita sociale bianca

A Minneapolis un uomo afroamericano viene asfissiato fino alla morte, bloccato sotto al ginocchio di un poliziotto bianco, quasi nove minuti di agonia sono filmati, nove minuti in cui chiede che per favore lo lascino respirare. Che lo stanno ammazzando. Il funesto episodio accende la miccia e milioni di persone scendono in strada per fare giustizia, per assicurarsi che il suo nome, George Floyd, non venga dimenticato.
Le proteste percorrono gli Stati Uniti da una parte all’altra, mettendo in scacco il sistema di dominazione razziale, numerose aggressioni della polizia vengono filmate e diffuse nella nostra società dell’immagine. I social network sono pieni di uno sfondo nero come foto del profilo, in omaggio a George Floyd. Moltitudini di star del cinema, accademici e persone influenti mostrano pubblicamente il loro appoggio alla protesta e condannano il razzismo istituzionale e la brutalità della polizia.
La Casa Bianca viene circondata dai manifestanti e, per la prima volta nella sua storia, si devono spegnere le luci durante la notte. Il personale di sicurezza accompagna il presidente Trump in un bunker, al riparo da ció che può succedere, mentre lui twitta in modo malsano i suoi deliri razzisti con l’appoggio del resto della ultradestra internazionale.
Dato che la protesta é già globale, ogni politico che non vuole essere “messo nel sacco” assieme al disprezzato Trump, si affanna ad uscire allo scoperto appoggiando le proteste statunitensi, evitando di criticare le politiche razziste applicate dallo Stato, così visibili nei segni che i loro corpi di sicurezza provocano nelle vite delle persone razzializzate.
Tutte queste proteste hanno un punto in comune, l’ipocrisia che dimostra una società per la quale é facile commuoversi per la morte di George Floyd, a un oceano di distanza, ma che dall’altra parte é capace di dichiarare che in Spagna il razzismo non esiste, e che le sue gravi conseguenze sono prodotto della aporofobia o della mancanza di educazione. È facile pronunciarsi cosí quando non soffri il razzismo, ma quando istintivamente cominci a tremare alla vista dell’azzurro delle sirene della polizia, allora é un’altra storia.
È che parlare della brutalità e della violenza della polizia, per qualunque persona zigana, é un compito arduo, perché non é una cosa astratta, ma qualcosa che sentiamo nei nostri corpi, che si manifesta nella nostra vita quotidiana, che coinvolge le nostre famiglie e che arriva a porre fine alle nostre vite. Nel momento in cui un poliziotto ci ferma per strada, ci perquisisce, ci aggredisce, ci insulta e persino ci uccide, noi kalos (zingari, NdT) non rappresentiamo per loro nient’altro che un rischio. Siamo un corpo del rischio – il corpo razzializzato che deve essere controllato, disciplinato, “educato”, contenuto e/o eliminato prima di “infettare” la sacra vita sociale bianca.

Daniel Jiménez, zingaro di 37 anni, é stato fermato dopo una chiamata alla polizia, arrestato e trasferito al commissariato di Algeciras sotto custodia della polizia, dove é stato trovato morto in cella. La versione della polizia dice che Daniel si é impiccato, ma lui ha chiamato i genitori dicendo che stava bene e che sarebbe uscito quello stesso lunedì.
Nello stesso commissariato a febbraio é stato trovato il corpo senza vita di Imad Errafali, marocchino di 23 anni, come ben riportato da El Faro de Ceuta. Stessa dichiarazione della polizia, “suicidio” per impiccagione con un lembo di coperta.
Nel 2018 la famiglia di Manuel Fernández, zigano, riceve una terribile chiamata dalla prigione di Albocàsser (Castellón): il figlio di 28 anni é stato trovato morto in cella di isolamento. “Morte istantanea” hanno scritto i funzionari del carcere; i famigliari, nonostante le resistenze ferree, sono riusciti a vedere il corpo senza vita di Manuel…un corpo pieno di graffi, con il naso rotto, polsi e caviglie con lividi, unghie distrutte…
Nel carcere di Zuera (Zaragoza), Pedro Antonio Calahorra Hernández, zigano, di 21 anni, é messo in reclusione in una cella di isolamento in cui, ricordiamo, non si possono portare lacci delle scarpe o altri oggetti che possano risultare lesivi. Aveva parlato con sua nonna solo due giorni prima della terribile notizia, Pedro Antonio viene trovato morto non in isolamento, secondo quanto affermano le autorità competenti, impiccato con il cavo della televisione. Un altro “suicidio”.
Miguel Ángel Fernández, zigano, é stato arrestato a Saragozza e imprigionato nelle celle del commissariato del corpo nazionale di polizia, dove ha scontato un’odissea in cui gli é stato somministrato ripetutamente un cocktail di psicofarmaci, tra cui metadone, nonostante non fosse tossicodipendente. Secondo l’attestato della polizia muore per “morte repentina”, ma nell’attestato non sono menzionati gli avvisi da parte dei compagni di cella che parlano della sua difficoltà a respirare, e non si tengono in considerazione i 15 minuti di registrazione che sono spariti durante la detenzione di Miguel. Nonostante le denunce, il giudice ha dichiarato l’archiviazione della causa.
È evidente che i meccanismi di repressione di questo sistema di dominazione che chiamiamo antiziganismo hanno molte facce, ma la più cruda, il meccanismo di repressione per antonomasia usato dal potere payo (non zingaro, NdT) per subordinare, “civilizzare” e persino eliminare il popolo zigano sono stati e sono la polizia e le altre forze di “sicurezza” dello Stato che, assieme al sistema giudiziario e a quello penitenziario, assicurano che il sistema razziale continui a funzionare alla perfezione.
L’incarcerazione massiva di zingari é una realtà latente nello stato spagnolo, come già evidenziato all’inizio del 2000 dal proyecto “Barañí” che ha realizzato uno studio sulle donne zingare incarcerate, portando cifre impressionanti, dato che sebbene costituiscano l’1,7% della popolazione spagnola, le donne zigane sono il 25% della popolazione carceraria femminile. Anche se nel caso della violenza antizigana della polizia esiste una chiara differenza di genere, dato che l’obiettivo principale degli attacchi sono solitamente giovani uomini, sfortunatamente questo tema non sembra attirare l’attenzione delle ricerche e dell’agenda accademica dominante.
La costruzione dell’immaginario collettivo zigano-carcerario, che ha trovato il suo punto più algido alla fine degli anni 70 e negli anni 80 con il cinema kinki, assieme al successo musicale di gruppi zigani con testi crudi sul carcere e la marginalità, non solo trovano una risposta reale in come eravamo trattati da quella società che con disprezzo ci chiamava la “Spagna cañí”, ma costituiscono ancora oggi un riflesso fedele del vissuto degli zingari nei quartieri ghetto. É cosí che questo nefasto sistema razzista continua a importunarci, vigilarci, incarcerarci e assassinarci con la complicità della società civile, poiché nell’immaginario collettivo é quello che ci meritiamo.
Questo riflesso oggi convertito in cultura pop dell’emarginazione zigana negli anni settanta, é la stessa costruzione che la logica della modernità europea ha costruito su di noi, oltre che su musulmani, neri e indigeni. É il racconto disumanizzato di esseri irrazionali e pericolosi che non arrivano alla categoria di esseri umani e perciò non sono degni di essere trattati come tali. É questo il principio su cui si basano le nostre relazioni con lo stato, la violenza e il controllo.
Da una parte, la paura che genera la violenza perpetua a cui siamo sottomessi, la sfiducia perpetua nelle istituzioni, i seri ostacoli per denunciare e il pessimismo più assoluto che regge la nostra relazione coi poteri, fanno sí che non denunciamo nemmeno le più selvagge aggressioni contro di noi.
D’altra parte, l’invisibilizzazione mediatica o il trattamento razzista del razzismo antizigano incentivano la non visibilizzazione o meglio, la stigmatizzazione sociale dei nostri problemi.
Tutto il racconto mediatico tende sempre a caricaturizzarci come animali, e lo abbiamo visto molto chiaramente nel “Programa de Ana Rosa” (trasmissione di Telecinco condotta da Ana Rosa Quintana, ndt) con Manuel Fernández, che é stato vittima di un proiettile in testa sparato da un vicino di casa payo. Dato che era vicino al suo orto, questo “gentile pensionato”, per usare le parole del programma, ha pensato che Manuel gli avrebbe rubato le fave.
L’usurpazione dello spazio politico romaní e il rifiuto sistematico del riconoscerci come un soggetto politico autonomo in condizioni di uguaglianza con il resto delle autonomie che compongono lo stato spagnolo, oltre alla netta negazione della nostra identità a livello tanto informativo come ufficiale, rende quasi impossibile realizzare un registro delle vittime fedele. É perciò molto complicato avere dati per dimostrare all’amministrazione la sproporzione che si dà negli arresti delle persone zigane, nelle loro incarcerazioni e nelle loro morti sotto custodia della polizia.
La brutalità della polizia é solo la punta dell’iceberg, la faccia più visibile di un sistema di dominazione razzista che rivela il radicamento della società attuale nel passato genocida che si rifiuta di affrontare; un riflesso palpabile della supremazia bianca e della sua profonda penetrazione nelle narrative e aspirazioni politiche dello stesso stato e delle sue istituzioni.
Oggi vediamo città di tutto il mondo sollevarsi nella protesta, stiamo vedendo come la stessa società che ha eretto con orgoglio statue a riconosciuti schiavisti o genocidi le sta abbattendo o vandalizzando. Se voltiamo lo sguardo verso la società in cui viviamo ci assalta il dubbio se la Spagna sarà capace di abbattere le statue di Colombo, di bruciare le “gesta eroiche” di Nuñez de Balboa o di cancellare dalla toponomastica e dalla memoria collettiva l’infame Marqués de la Ensenada. Bisogna vedere se quel momento che tanto desideriamo sarà un atto audace che si limiti solamente ad abbattere l’evidente violenza “simbolica” che quei monumenti esercitano, oppure se saremo capaci, come indica Barnor Hesse, di mettere in discussione il perché queste storie siano state normalizzate e convertite in fatti eroici, in simboli della patria.
Nell’attuale scenario politico ci resta solo da chiederci: sarà capace la società spagnola di accettare la responsabilità politica di strappare con vergogna, pentimento e coerenza questa pagina della sua storia che ancora condiziona il presente dei razzializzati di questo paese?
Per Daniel Jiménez
Per Manuel Fernández
Per Pedro Antonio Calahorra
Per Miguel Ángel Fernández
Per Ilías Tahiri
Per Mohammed Bouderbala
Per Mame Mbaye
Per George Floyd
Per Lucrecia Pérez
Per tutti i nostri morti, faremo in modo che succeda.
Gli autori fanno parte di Kale Amenge (zingari per i nostri) é un’organizzazione politica romaní indipendente che, da una prospettiva de-coloniale, lavora per l’emancipazione collettiva del popolo Rom e per la costruzione dell’autonomia politica zigana www.kaleamenge.org
Fonte: El Salto
Traduzione per Comune-info: Michela Giovannini
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