Bisfenolo A, etere di difenile polibromurato, Pfoa e poi pesticidi come alacloro, atrazina, clorpirifos e insetticidi come Ddt. Sono le molecole chimiche trovate nelle urine o nel sangue di quasi tutti i 2.400 volontari esaminati dal Center for Disease Control nel 2001, una vera e propria «zuppa chimica» che è alla base delle definizione di «accumulo chimico nel corpo». Ma come ci arrivano queste sostanze dentro di noi?
Alla risposta è dedicato Il veleno nel piatto – I rischi mortali nascosti in quello che mangiamo (Feltrinelli), libro inchiesta di Marie-Monique Robin su responsabilità, omissioni e complicità che minano la sicurezza dell’intera catena produttiva del cibo. I primi a figurare sul banco degli imputati, sono i pesticidi, «unici perché sono i soli prodotti chimici concepiti dall’uomo e intenzionalmente liberati nell’ambiente per uccidere o danneggiare altri organismi viventi», come scrive il Pesticide Action Network, rete nazionale che si batte contro i pesticidi, in un fascicolo pubblicato nel 2007 «con l’appoggio finanziario dell’Unione europea», sottolinea la Robin
Oggi, più che di pesticidi, si preferisce parlare di ‘prodotti fitosanitari’ o ‘fitofarmaceutici’. Ma il nome non cambia il fatto che «in pochissimi sanno che ogni anno circa 220.000 persone muoiono per le conseguenze di un’intossicazione acuta dovuta a questi prodotti. La cifra proviene da uno studio dell’Organizzazione mondiale della sanità pubblicato nel 1990, secondo il quale si contano ogni anno tra un milione e due milioni di casi di avvelenamento non volontario, verificatesi per incidenti legati alle attività di disinfestazione», scrive la Robin.
Il volume analizza alcuni aspetti legati all’utilizzo di sostanze chimiche in agricoltura, e non solo, dalle connessioni tra pesticidi e cancro e tra pesticicidi e malattie neurodegenerative, alla questione della Dga, la dose giornaliera accettabile. Non risparmia critiche feroci alle aziende e alle istituzioni preposte al controllo, ma c’è anche un un particolare encomio all’italiano Istituto Ramazzini, che ha sede nel castello di Bentivoglio, a un trentina di chilometri da Bologna. Fondato nel 1987 in omaggio al padre della medicina del lavoro, su impulso dell’oncologo Cesare Maltoni, l’istituto è un centro di cancerologia ambientale che lavora in collaborazione con il Collegio Ramazzini composto da 180 scienziati di 32 Paesi. Dall’anno della sua fondazione ha testato circa 200 sostanze chimiche inquinanti e «contrariamente alla stragrande maggioranza degli studi eseguiti in ambito industriale, quelli dell’istituto sono condotti su coorti sperimentali enormi, composte da migliaia di cavie, cosa che ovviamente ne avvalora il potere statistico», scrive l’autrice aggiungendo che qui gli studi sulle cavie «non durano solo due anni, ma si lasciano vivere le cavie fino alla mporte naturale, visto che l’80 per cento dei tumori maligni rilevati negli esseri umani si manifesta dopo i 60-65 anni» (fonte Adn kronos).
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