Per spalancare le porte della scuola a piattaforme nate per essere vendute a clienti sono bastati pochi minuti. Non sembra invece esserci tempo per decidere di aprire i cancelli degli edifici scolastici a ingeneri, tecnici, operai, associazioni di genitori e dirigenti che spieghino le esigenze del fare scuola, per ipotizzare una formazione dicendo addio per sempre alle classi numerose e un piano straordinario di reclutamento di personale. Abbiamo bisogno di pensare l’educazione diffusa, come da tempo argomentato sulle pagine di Comune, ma anche di prenderci cura con urgenza delle scuole pubbliche. Eccola la grande opera di cui dovremmo tutti occuparci

Per chi insegna lo scandalo dell’inuguaglianza ha volti, nomi e cognomi, radicati nella sua memoria fin primi anni in cui è andato a scuola, quei ricordi lontani che il mestiere ha più volte riportato alla luce, ha volti e nomi che hanno attraversato, e spesso segnato, la sua esperienza, volti e nomi di chi, ai tempi della didattica di emergenza, è aggrappato con mezzi di fortuna alla sua classe, volti e nomi di chi resta in silenzio perché non ha adulti al suo fianco, volti e nomi di coloro che sono scomparsi o addirittura non sono mai stati presenti. Lo scandalo della disuguaglianza ha anche delle cifre e le più ottimistiche gridano comunque allo scandalo, anche perché le cifre, oltre che al milione e mezzo di giovanissimi corpi lasciati indietro, non fanno riferimento alle tante zone d’ombra che sono emerse in questo straordinario e al tempo stesso terribile rapporto tra presenza e assenza nella quasi quotidiana, diurna e notturna, scuola delle distanze.
Lo scandalo degli scandali però è quello a cui stiamo assistendo in questi giorni, con le aule delle nostre scuole deserte, avvolte dentro e fuori dalla ragnatela di chiacchiere in libertà, lo scandalo delle dichiarazioni di principio, proclami apologetici sull’informatizzazione ma inerzia e silenzio spettrale su cosa si dovrebbe fare per restituire la scuola a tutte e tutti quelli che legittimamente la devono abitare. Abbiamo dovuto subire anche le umilianti dissertazioni sull’ignoranza o la mancata formazione delle maestre. Ma che se ne stiano tutti tranquilli, per imparare a usare le piattaforme fatte per essere vendute a clienti di tutto il mondo è bastata qualche notte e qualche giorno, mentre le più brave maestre e i più bravi maestri sanno che non basta una vita per insegnare meglio di come si è fatto. E sono loro, quelle e quelli che non hanno mollato, quelle e quelli che hanno trascorso e trascorrono quotidianamente in rete, al telefono, in video o in voce, una quantità di tempo superiore a ogni previsione possibile con classi intere, gruppi di alunne e alunni, genitori, colleghe, dirigenti e burocrazia scolastica, che ci dicono in maniera chiara e distinta, come fanno centinaia di docenti bolognesi, che “ora, dopo nove settimane di esperienza possiamo e vogliamo dirvi che il re é nudo: la didattica a distanza non esiste... le lezioni messe in campo… sono un surrogato di cattivo sapore di ciò che é la didattica che realizziamo quotidianamente a scuola”.
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Una sentenza senza appello da parte di chi nella scuola pubblica ci mette anima e corpo (e sì, certo, lo dico per tranquillizzare i tuttologi che sputano sentenze senza conoscere l’argomento, esistono qua e là anche gli “imboscati”, i famosi uomini che mordono i cani che permettono a qualche indignato della domenica di spargere fango sul lavoro di centinaia di migliaia di persone di scuola.) Alla luce di quello che è emerso in questi mesi, e lo dico ancora, alla luce dei nomi e dei volti di quelle alunni e alunni presenti o lontani, c’è l’urgenza assoluta di ricominciare la scuola a settembre in luoghi dove corpi, emozioni, ansie, paure e gioie, scoperte ed incertezze si incontrino e si parlino negli occhi, ed è semplicemente immorale non avere già un piano ora che definisca tempi e modi di un intervento adeguato.
La scuola è un percorso di apprendimento che ha bisogno di tre dimensioni, lo spazio, il tempo e la relazione. Ora come non mai, grazie alla tragica prova a cui siamo sottoposti, è il momento di ripensare a ognuna di queste dimensioni. Per questo è inaccettabile che le scuole siano vuote in questi giorni. Io non vorrei le scuole restassero vuote neanche in maggio. Le vorrei con dentro ingegneri, tecnici dei Comuni e delle città metropolitane, architetti, con insegnanti e dirigenti che spieghino le esigenze del fare scuola, operai pronti a intervenire per ampliare dove si può, per tirare giù muri e fare se serve prefabbricati, costruire con le tecniche più moderne altri edifici, progettare e mettere in sicurezza luoghi nel territorio per utilizzarli ai fini scolastici, ipotizzare una formazione delle classi che dica addio per sempre alle classi numerose e un piano straordinario di reclutamento di personale.
Se non si lavora da subito per aprire le scuole a settembre e in sicurezza la situazione sarà drammatica, perché come abbiamo visto in questi mesi di doverosa e necessaria didattica di emergenza, e come ci hanno spiegato insegnanti che in questi mesi l’hanno realizzata, come ci hanno raccontato anche tante madri e padri, stiamo perdendo non tempo ma persone, in particolare i più fragili (e le fragilità sono anche quelle più insospettabili).
Pensare di tornare a settembre immaginando meno scuola, orari ridotti e didattica a distanza sarebbe già una resa. Se non si lavora per una vero ritorno a scuola rischiamo di provocare una lesione culturale e sociale soprattutto in quelle fasi decisive della crescita della persona che sono l’infanzia e l’adolescenza. Per questo la ricostruzione della scuola pubblica, delle scuole pubbliche, deve essere la nostra grande opera.
Mirco Pieralisi, insegnante
Mai più edilizia scolastica.”Il luogo dell’educazione non è assolutamente indifferente all’educazione stessa e non ha alcun senso pensare di realizzare l’educazione diffusa negli stessi luoghi chiusi e gerarchici della scuola tradizionale o anche solo timidamente innovativa, ma neppure solamente nei boschi o nelle radure delle cosiddette scuole libertarie e naturaliste per l’effetto settario e un po’ elitario di talune esperienze.
Bisogna infatti superare l’edificio scolastico o anche solo il bosco per un territorio complesso dell’apprendimento: la città e la natura insieme con il loro complesso di luoghi, persone, attività, atmosfere e spazi. Una provocazione che potrebbe diventare un modello di ricerca per la futura scolarizzazione. Un’aula unica aperta al mondo e composta da mille stanze diverse e dedicate, dall’universo fisico fino anche a quello virtuale del web, che metta in relazione continua bambini, ragazzi, adulti, anziani, gente che lavora, che usa il tempo libero, che amministra, aiuta, fa politica, produce e al tempo stesso insegna e impara. Oggi si fatica a tollerare la scuola in un unico edificio o recinto. La realtà scolastica non è statica ma, quasi per etimologia, dinamica nello spazio, oltre che nel tempo. Le modalità di fruizione delle informazioni, di apprendimento e di applicazione pratica mal sopportano i muri e i limiti di un unico luogo deputato ai saperi e alla conoscenza.
L’errore sta nel pensare ad edifici dedicati e separati, a luoghi privilegiati o a campus frikkettoni in città o nei boschi, nel far coincidere la scuola con un manufatto o comunque con un recinto reale o virtuale che sia. Le aule, i laboratori, le palestre sono già nel territorio: basta adattarli, collegarli e utilizzarli per raccogliere la sfida di una scuola oltre le mura e senza le mura. Da queste premesse si potrebbe iniziare a progettare un prototipo flessibile di intervento sperimentale che possa fornire dati attendibili sulla fattibilità dell’idea e sulla sua esportabilità in contesti diversi, più ampi e magari di grandi aree metropolitane. ” https://comune-info.net/aule-aperte-al-mondo/
È un orizzonte che, purtroppo, spiazza ancora molti, Giuseppe, quello dell’educazione diffusa, cioè vissuta in tanti spazi urbani e naturali diversi e con modalità differenti, ma che al tempo stesso fa intravedere una straordinaria ricchezza per ripensare non solo l’apprendimento ma, più in generale, la società.
Tuttavia è utile una riflessione anche sugli edifici scolastici per almeno un paio di ragioni.
La prima: è ragionevole ipotizzare un’educazione diffusa per passaggi graduali (tanto più in un paese come il nostro e in questo momento di pandemia). Del resto è auspicabile una impostazione per piccoli gruppi e non per classi-pollaio come le attuali: questo significa che il numero delle classi dovrebbe almeno raddoppiare (dovremmo arrivare a oltre un milione di classi…) e resta l’esigenza di avere dei luoghi di incontro e di studio personale e collettivo, anche solo per un giorno a settimana… Perché abbandonare completamente quelli che ci sono?
La seconda: gli edifici delle scuole pubbliche restano un prezioso bene comune da vivere in molti modi, al di là degli orari e delle giornate scolastiche, come dimostrano le importanti esperienze delle “scuole aperte e partecipate”, in cui gruppi di genitori, cittadini e attori del territorio autogestiscono iniziative sociali e culturali favorendo prima di tutto la ricomposizione delle relazioni sociali massacrate dal dominio del mercato. Gli edifici e i cortili delle scuole possono diventare dunque delle nuove piazze.
Prendersi cura degli edifici scolastici ha uno costo elevato? Forse sì, anche se si sottovaluta il ruolo dell’impegno volontario di migliaia di cittadini-genitori, in ogni caso sappiamo bene che quantità infinite di soldi pubblici finiscono, solo per fare qualche esempio, nel commercio delle armi, nelle forze armate, nelle grandi opere…
Grazie per il tuo contributo Giuseppe.
Caro Mirco Pieralisi, poco prima di leggere il tuo scritto su Comune che ringrazio, a mia volta scrivevo le mie amare riflessioni in tempi di Coronavirus e di didattica dell’emergenza e le condivido con quanti patiscano lo stesso disagio. La ritorsione della clausura per pandemia prima e della paura degli untori poi si è fatta avanti, lasciando segni anche sul corpo: l’impossibilità di arrivare ad uno spegnimento al termine della giornata, dell’essere vinta dalla stanchezza e dal sonno.
L’insonnia è una brutta bestia, conseguenza della prigionia della rete e dell’eterna connessione, necessaria per comunicare e per lavorare, ora, più che mai, nostro spazio abitabile senza soluzione di continuità. Questa pandemia non è più soltanto una parentesi ed il tempo delle nostre attività digitali si sta protraendo modificandoci nel corpo, nella mente e nelle percezioni.
Ho trovato una gestualità che mi da pace: impastare il pane che lavoro ogni venerdì, ritrovando la sacralità di un gesto a me caro. Ho imparato a fare la Challah, il pane a treccia della tradizione ebraica dello Shabbat e lo faccio ricordando il mio amico Piero Terracina, quasi a farlo rivivere nell’atto dell’impasto e della lievitazione, per sentirlo al mio fianco, per elaborane la perdita.
La didattica digitale si prende tutte le mie energie, così fanno i miei studenti più fragili che non voglio lasciare indietro o, peggio, perdere. Sono tanti, oltre un centinaio, gli studenti da sostenere, ognuno agito da questa didattica dell’emergenza. Ognuno a patire un disagio in solitaria.
Mi interrogo sul modo in cui sto usando questo tempo per l’educazione, mettendo al centro sempre la relazione che mai è venuta meno con loro ma con grande sforzo di tutti per poterla nutrire e mantenere vitale: siamo tutti spaventati. Tanti, troppi, sono i vuoti di relazione: tra me ed i colleghi (di cui mi importa soprattutto in relazione agli studenti) tra me e gli studenti privi di banda larga e di strumenti di connessione che non siano gli inadeguati smartphone e che mostrano i segni di un divario economico, sociale e culturale quasi insormontabile in questi tristi tempi di distanziamento sociale, ed ancora, tra me e la comunità educante che è la scuola, di cui mi sento parte e che ora non è più o, forse, non è mai stata perché scomparsa nel momento del bisogno.
Le richieste che arrivano dagli studenti sono di ascolto, richieste che già c’erano nella scuola ma che ora hanno preso il sopravvento per l’urgenza di essere dichiarate a gran voce: il virus ha fatto sì che il vulcano del disagio esistenziale eruttasse lapilli e lava e sembrerebbe non esserci modo di salvarsi.
Da adulta, assorbo il loro malessere che si mescola con il mio, appesantito dalla consapevolezza di non essere in grado di sostenerli perché io stessa non sono a mia volta sostenuta da una comunità educante che fa acqua da tutte le parti e mostra le proprie falle.
A noi insegnanti è richiesto un grande impegno nella cura degli studenti, impegno che, in questo particolare momento, non può e non deve contare solo sull’iniziativa o sulle attitudini e sensibilità di ognuno di noi.
Il digital divide è oggi emergenza sociale, culturale, educativa che lede il diritto allo studio ed i diritti costituzionali. Ci troviamo in balia di piattaforme che, approfittando dell’emergenza, stanno divorando i nostri metadati e, molto presto, presenteranno il conto, se non l’hanno già fatto. Patisco l’emergenza ed a questa condizione devo far fronte ripescando dal profondo strategie relazionali, risorse vitali, equilibri in questo stare. Patisco il disagio e non dormo più, sopraffatta da una solitudine nel mondo delle connessioni irreali e di finzione. Occorre reinventarsi ed inventare ogni santo giorno, con sensibilità e lungimiranza, non senza generosità, accettando consapevolmente la quotidiana paura di sbagliare.
Grazie Anna Maria per il tuo intervento. Sarà pure un tempo sospeso questo ma emergono sempre di più ferite di diverso tipo: non solo quelle provocate dal virus ma anche quelle indirette, a cominciare dalla violenta crisi economica. Eppure, come segnali, nelle zone più in ombra si nota anche altro e spesso riguarda ragazzi e ragazze: “Il virus ha fatto sì che il vulcano del disagio esistenziale eruttasse lapilli e lava e sembrerebbe non esserci modo di salvarsi…”. Ecco, una scuola diversa a settembre dovrebbe partire anche e soprattutto da quel vulcano.
Anna Maria, penso che quello che stai dando alle tue alunne e ai tuoi alunni stia alimentando e tenendo viva (alimentare e tener vivo, come si fa con il lievito madre…) non solo una relazione ma una grande speranza.
Da genitore sempre attivo e attento al percorso didattico di mio figlio, esprimo le stesse preoccupazioni espresse da docenti, perché anche dalla nostra parte di genitori c’è la volontà di comprendere come sarà il futuro scolastico dei nostri figli. Abbiamo sempre cercato di educarli alla socializzazione e ci siamo sempre ribellati all’uso del cellulare, della play station in modo improprio e continuativo e ora viene proposto un’attività didattica, metà frontale e metà online, senza pensare che invece la crescita di questa generazione avviene soltanto se c’è un contatto fisico, visivo, relazionale con i propri compagni, con i propri docenti senza il filtro di uno schermo che non ti permette di toccare con mano cosa sta succedendo agli studenti, quali difficoltà hanno rispetto alla materia, ma soprattutto alla relazione tra loro, elemento indispensabile in una società fatta di azioni, relazioni. Il sistema scolastico deve essere rivisto soprattutto sulla capienza delle aule, perché anche in tempi non sospetti non poteva essere giustificato formare aule da 29 alunni perché la scuola non era dotata di aule e di relativi docenti. La scuola negli anni è stata massacrata dai tagli e questo è inaccettabile in un paese che necessita di persone istruite per sostenere la competizione con altri paesi. L’economia si basa anche su questo, a costo di costruire nuove scuole, assumere docenti, che ritengo essere un investimento e non una perdita. Scusate questo sfogo, ma come genitore mi sono trovata a dover imparare l’utilizzo di piattaforme che fino ad ieri non ne sapevo l’esistenza, perché ho sempre creduto che la scuola fosse ben altra cosa che un appello metallico da un microfono che purtroppo non tutti posseggono discriminando la fascia più debole di questo ingranaggio chiamato istruzione pubblica nata appunto per istruire tutti, nessuno escluso e non è un caso che siano stati attivati progetti di inclusione, di alfabetizzazione, etc etc.
Scusate questo sfogo, ma la preoccupazione è veramente tanta.
Buona giornata