Negli ultimi tre anni in Ecuador si sono imposte all’attenzione mondiale, in termini ovviamente assai relativi se si guarda dalla prospettiva dei media mainstream europei, due grandissime sollevazioni popolari con un marcato protagonismo indigeno. Per interpretarle e raccontarle, soprattutto quando le ondate della protesta superano impetuosamente gli argini convenzionali, l’attenzione dei media si concentra freneticamente nella ricerca delle voci dei leader e, tutt’al più, dei dirigenti delle organizzazioni più forti. È ormai da tempo una scelta stereotipata, superficiale e miope, molto lontana dalla realtà delle cose. In modo particolare e da decenni nel caso delle rivolte indigene. Per comprendere davvero qualcosa di quel che avviene oggi in situazioni come quella ecuadoriana, bisogna avere la pazienza di cercare in profondità e di guardare anche al prima e al dopo l’emergere dei levantamientos. È questa la chiave del reportage dalla Quito ribelle di Raúl Zibechi che si conclude con questa terza parte (qui trovate la prima e la seconda) e che mostra non solo la pluralità della galassia di gruppi e collettivi che hanno dato vita a quelle rivolte, ma anche la potenzialità latente – e tutt’altro che esaurita – di una resistenza al potere dell’estrattivismo che si rigenera di continuo nelle pratiche della vita quotidiana. Processi sotterranei quanto essenziali, del tutto invisibili all’informazione usa-e-getta che domina il pianeta a ogni latitudine

Le insurrezioni e le rivolte popolari, le grandi proteste nei viali con centinaia di migliaia di persone diventano incomprensibili se le guardiamo mettendo a fuoco solo i leader più noti e le organizzazioni di massa che riuniscono milioni di persone. C’è sempre un prima, che vede protagonisti piccoli gruppi, quelli che i media e la sinistra delle forze politiche non riescono a vedere, eppure senza di loro nulla sarebbe possibile.
L’Ecuador è stato protagonista di due enormi rivolte dal basso, nell’ottobre 2019 e nel giugno 2022, i più grandi movimenti della storia recente del Paese. Chi è stato lì, e io ho avuto la fortuna di vivere quelle esperienze quando entrambi gli eventi stavano per concludersi, potrà testimoniare che l’effervescenza delle giornate di ottobre e giugno era dovuta all’agire insieme di centinaia di piccoli gruppi. Mujeres de Frente e le hierbateras erano appena due di essi; un altro è il collettivo Desde el Margen che ha partecipato al più recente sciopero di 18 giorni.
Ho incontrato la gente del collettivo alla quinta edizione della Feria del Libro Insurgente, organizzata proprio da Desde el Margen a metà luglio al Museo della Città e dedicata all’abolizione delle prigioni. Pertanto, oltre a una quindicina di piccole case editrici, c’erano collettivi che resistono alle carceri, movimenti neri e indigeni, dissidenti sessuali e diverse altre espressioni del mondo de abajo locale.
I gruppi che hanno partecipato alla Feria Insurgente erano: Mujeres de Frente; Afrocomunicaciones, che si occupa di razzismo nei media; Kaleidos, che è un centro etnografico interdisciplinare; il Comitato dei parenti per la giustizia nelle carceri; Bunker Laboratorio Urbano, che si dedica all'”architettura della resistenza”; Yo no fui, un collettivo anti-carcere dell’Argentina; il Colectivo abolicionista contra el castigo della Colombia; l’associazione Nuevo Paraíso, composta da madri afro-ecuadoriane in passato private della libertà; la mensa popolare La Tola Chica e l’Assemblea delle donne e delle dissidenze.

I workshop e i dibattiti hanno coinvolto l’Imprenta Comunera e Pie de Monte della Colombia, che hanno insegnato come copiare e distribuire libri al di fuori delle norme, e hanno tenuto un corso di autopubblicazione, rilegatura e software libero.
Hanno inoltre partecipato rilevanti dirigenti del movimento indigeno, come Hatari Sarango, vicepresidente di Fenocin (Confederazione nazionale delle organizzazioni contadine, indigene e nere) e Apawki Castro della Conaie (Coordinamento delle nazionalità indigene dell’Ecuador), organizzazioni che sono state i principali promotori in giugno dello sciopero nazionale insieme a Feine, di stampo evangelico.
Tra i mezzi di comunicazione, va segnalato l’intervento del media comunitario Wambra, oltre a quelli di docenti e studenti di università pubbliche e religiose, come la mitica Università Salesiana di Quito. Non sono mancati spazi di lettura e giochi per i più piccoli – con pupazzi, musica, poesia e uno spettacolo circense – che hanno animato i patii del Museo.
Oltre alla questione delle carceri, sono stati affrontati i temi del razzismo, dei timori generati dalla brutale repressione delle mobilitazioni di giugno, della criminalizzazione della povertà e della questione sempre urgente dei massacri nelle carceri. Mentre si svolgeva la fiera, tredici detenuti sono stati uccisi nella settima strage degli ultimi anni.
Le piccole crepe e gli tsunami devastanti
Alejandro Cevallos e Natasha Sandoval, direttore e assistente del Museo della città, spiegano così la loro gestione nella conduzione dell’istituzione: “Un museo a Madrid non è la stessa cosa del museo di una città andina”. Entrambi confermano che si tratta di un’istituzione “molto efficace”, dal momento che tutte le scuole di Quito la visitano, ma insistono sul fatto che stanno spostando l’asse da uno spazio riservato alle classi dirigenti a un servizio per le comunità.
Il direttore sostiene che in America Latina istituzioni come i musei sono più fragili, “sono permeabili e hanno delle fratture”. La trasformazione è iniziata realizzando quelle che chiamano “visite critiche”, in particolare nella Sala del Novecento, una sala caratterizzata da silenzi e omissioni. “La storia che racconta il museo è quella di una città bianca, quando Quito fu creata dagli indigeni raccolti in una minga (lavoro comunitario). Nel museo, gli indios sono folclorizzati e occupano a malapena un angolo. Il punto è che hanno costruito una città a cui non hanno diritto”.

Le persone che visitano il museo analizzano le omissioni e la violenza simbolica denotata dai silenzi. Il secondo meccanismo di decostruzione del museo è il lavoro con la comunità territoriale nei dintorni del centro storico. Per metterlo in piedi hanno cominciato a collaborare con le hierbeteras e la scuola interculturale del mercato di San Roque, a quasi un chilometro di distanza, sulle pendici delle montagne.
Il mercato è un insieme di enormi capannoni dove sono distribuiti circa 4mila banchi e dove lavorano più o meno 1.200 scaricatori. Sono stati loro che hanno insistito per preservare le lingue originali e hanno creato la scuola interculturale negli anni Ottanta, lo stesso periodo in cui è stata fondata la Conaie.
Le persone delle scuola e delle comunas di Quito fanno parte delle “visite” critiche. “I musei sono luoghi di conciliazione e farsi carico del conflitto è come entrare in una specie di romanzo“, dice Natasha. La verità è che il Museo della Città si sta aprendo alle comunità, alle hierbeteras, agli scaricatori del mercato e ai venditori ambulanti di Quito. Tutti sanno, però, che in qualsiasi momento la fessura che hanno aperto con grande fatica potrebbe chiudersi.
La rivolta non è mai andata via
Un numero infinito di gruppi e collettivi, anche i più piccoli, ha partecipato allo sciopero indetto dalle organizzazioni indigene. Ciascuno di essi lo ha fatto portando la propria identità nello spazio pubblico, senza lesinare critiche e commenti sulla marcia di protesta.
Estefanía, dell’Assemblea transfemminista, sostiene che non ci sarà “mai più lotta senza di noi”. Spiega che durante lo sciopero loro si sono mobilitate ogni giorno per mettere in discussione il tema della cura. “Ancora una volta i lavori di riproduzione sono stati decisivi nella lotta e, durante lo sciopero, la questione della cura è stata democratizzata. Le scorte di cibo, ad esempio, non hanno la stessa visibilità della prima linea di difesa con i suoi scudi, ma le linee che stanno dietro sono altrettanto importanti”.
Le è molto chiaro che nelle concentrazioni “ci guardavano in modo un po’ strano per la presenza di persone queer e trans, ma nessuno riuscirà più a toglierci di mezzo. Abbiamo un altro modo di fare politica, assembleare e orizzontale”. Su questo punto è d’accordo anche Sinchi Gómez, di Wambra, che definisce il suo media “femminista, di sinistra e in difesa dei diritti umani”.

Come donna indigena, Sinchi ha insistito per rendere visibile la forza delle comunas urbane, sottolineando che “c’erano già state rivolte a Quito, sebbene i media menzionassero solo coloro che provenivano dalle province rurali“. Va ricordato, infatti, che nell’ottobre del 2019 c’erano già stati 11 morti e a giugno 2022, prima dello sciopero, altri sette. “La rivolta dell’ottobre non è mai finita”, sentenzia per indicare che la rivolta è ancora latente.
Uno sguardo molto particolare è quello di Jorge Méndez, del collettivo Juega y Lucha. Dice che suonava il suo strumento durante le marce perché era un modo per “mettere in gioco il corpo dei musicisti”, ma anche un modo per “affrontare la polizia” e “per rilassare l’atmosfera dopo ore di battaglia in cui si respiravano solo gas”. Al termine del lungo sciopero, infine, è stato organizzato un campionato di calcio come mezzo per “proteggere lo spazio pubblico e le persone”.
Siamo di fronte, insomma, a migliaia di modi di affrontare la protesta, con i più diversi stili e modi di fare. La cosa che fa più sperare è che tutta questa diversità abbia potuto convivere – confrontandosi con l’apparato armato dello Stato, i media e la destra classista – superando problemi come il machismo, con lo sguardo sempre rivolto a quei nuovi mondi che già stanno nascendo in tanti angoli di questo mondo.
La versione originale in castigliano per Desinformémonos
Traduzione per Comune-info: marco calabria
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