Giovanni Allegretti, studioso di democrazia partecipativa, descrive l’immigrazione latinoamericana in Spagna del periodo compreso tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo, come il «ritorno delle caravelle». In effetti l’ondata migratoria che sta cambiando definitivamente l’«identità» e la fisionomia antropologica dell’Europa ha molto di «ritorno» o meglio di effetto «rimbalzo». Per un osservatore del Sud del mondo, si direbbe quasi che si tratta di una «giustizia della storia», attraverso la quale le popolazioni che per secoli sono state sfruttate dalle diverse colonie, si sono risvegliate. E sono venute a prendere quello che gli spetta del benessere e del wealfare che alle loro spalle ha costruito il «vecchio continente».
Capire questo è fondamentale per cogliere lo spirito con cui si presentano i migranti in Italia. Quando li incontriamo tra le occupazioni romane, dove si concentra una prima forma di metticiato, oppure camminando nei quartieri a maggioranza straniera (come Tor Pignattara o l’Esquilino), o anche in alcuni spazi pubblici in pieno centro, si può osservare facilmente come i migranti praticano le proprie «tradizioni» senza nascondersi, mentre cresce in loro nuova «consapevolezza di classe/gruppo».
Del resto, dall’altra parte dell’oceano abbiamo già un presidente degli Stati uniti di origine afro e vari presidenti indigeni che hanno rovesciato in parte i giochi di potere etnico del mondo, almeno a livello simbolico e nell’immaginario collettivo. Il metticciato non è più un fattore di cui vergognarsi, ma comincia a diventare un valore, un essere «cittadini del mondo». In più questo essere cittadini del mondo dimostra che la convivenza interculturale è implicita nei processi di migrazione: «I migranti possono imparare a stare in un’altra cultura, senza perdere la propria», dice Kadhija di dell’occupazione promossa dal movimento Action in via Tempesta, a Tor Pignattara. Im realtà i migranti portano sempre con loro non solo «nuove «culture ma anche l’arte di arrangiarsi, la capacità di sperimentare economie informali e quella di non disperare neanche nelle condizioni più avverse. Ed è proprio questo che la loro presenza può rivelarsi fondamentale in questo momento di paralizzazione, sociale e politica, collettiva a causa della «crisi economica».
Dice Roberto Suarez, un ragazzo peruviano dell’occupazione di Porto Fluviale, promossa dal Coordinamento cittadini di lotta per la casa dal 2003, che accoglie un centinaio di nuclei familiari provenienti da tre continenti: «Noi vogliamo contare nella città, vogliamo essere legittimati come persone che hanno investito tempo e lavoro per riqualificare edifici dimessi e per riempire i buchi che le amministrazioni hanno prodotto con il problema casa, ma vogliamo farlo tramite i diritti di cittadinanza, facendo sentire la nostra voce e con le nostre azioni». Aggiunge Khadija Ouahmi, una donna marocchina che vive invece nell’occupazione di via Tempesta: «Per noi la piazza è dove ci troviamo con gli altri per chiedere che i nostri diritti vengono rispettati, la piazza non è quindi quella nel quartiere sotto casa, ma è ad esempio la manifestazione davanti al Campidoglio, la piazza è il luogo dove noi affermiamo il nostro diritto alla città».
Di certo, nella vita di molti migranti che hanno scelto di condividere con altri il problema del diritto all’abitare ci sono la riscoperta di espressioni come cittadinanza, dignità, persona. Dice Lucica, romni del Metropoliz, un’ex area industriale Fiorucci abbandonata da oltre dieci anni a Tor Sapienza (periferia sud-est di Roma), occupata dal 2009 dai Blocchi precari metropolitani (con circa 80 famiglie residenti): «Ai rom vengono negati tutti i diritti, è per questo sono messi da parte… Bisogna ricominciare dall’inizio, dal mostrare e ricordare alle persone che non ci conoscono che anche noi siamo delle persone, che non siamo senza una vita, che anche noi vogliamo andare avanti». Colpisce come le parole che emergono nelle loro conversazioni, nonostante le difficili condizioni alle quali sono esposti ogni giorno, sono per lo più di fiducia nel futuro. Pensano di avere le capacità per provare a modificare la realtà, per prendere il loro destino nelle loro mani, al di là dei confini, dei pregiudizi e delle barriere sociali.
Le occupazioni fanno le prove per la diffusione di quartieri interculturali. Chi non può uscire a lavorare perché anziano o senza permessi, cura lo spazio interno, fa il giardinaggio, bada ai bambini. Tutti quanti alla sera, e anche chi è senza un lavoro, sanno che possono contare nella solidarietà e in un piatto di pasta del vicino. Chi non conosce la lingua avrà qualcuno che lo guida con le carte da sbrigare o un’indicazione verso l’assistenza sanitaria. Non mancano certo conflitti di vario tipo ma nei racconti degli occupanti emere soprattutto l’idea di far parte di una comunità solidali. I più grandi diventano facilmente per i bambini «zio e zia», è una forma di rispetto e di familiarità, spiegano le donne marocchine. Le persone che abitano in questi spazi sociali sono consapevoli di favorire l’intreccio tra paesi del mondo lontani e diversi. «Per noi è una vera opportunità – dice Khadija – con la quale assaporiamo altre comunità e altre culture». Insomma, queste persone hanno imparato a costruirsi una città aperta nella città e una vita «parallela» con proprie regole. Ha ragione Arundhati Roy, oggi assistiamo ovunque a un risveglio, in forme diverse, della dignità e della consapevolezza di migliaia di persone per lo più escluse. Persone che hanno cominciato a prendere in mano il proprio destino.
La loro nuova consapevolezza dovrebbe interessarci per almeno tre buone ragioni. La prima è che queste persone dimostrano di avere la capacità di trasformare la loro indignazione in un’azione esplicita di protesta, come avviene in vari paesi del Sud del mondo, dalle rivolte indigene a quelle indiane dei parias, dai movimenti urbani dei Sem tetto in Brasile alla Primavera araba, passando per le rivolte delle cosiddette «seconde e terze generazioni» di migranti nelle banlieu parigine o nei quartieri londinesi.
La seconda ragione è che questi gruppi sperimentano mille piccole trasgressioni delle regole, come forma di lotta contro un sistema ingiusto, opprimente. In questo senso le occupazioni di case, di fabbriche e di altri luoghi di lavoro, ma anche gli allacci abusivi a servizi come luce e acqua, non sono più visti come uno stato di «eccezione», di «emergenza», ma come scelte consapevoli prese e gestita dal basso[1], come alternativa a vivere soli e in mezzo a una strada.
La terza ragione buona ragione è che gli occupanti di origine migrante hanno cominciato a costruire processi di vera democrazia diretta, di «autogoverno». Processi di cui tutte le città hnno davvero bisogno. Come spiega Lawrence Susskind, le condizioni attuali e la complessità nella gestione del governo degli stati, ci portano a un necessario cambio di sistema politico. Susskind propone uno sviluppo più partecipativo della democrazia rappresentativa: questo processo viene illustrato nel suo ultimo libro scritto con Marinella Sclavi (tradotto in Italia nel 2011 da et al), «Confronto Creativo; dal diritto di parola al diritto di essere ascoltati». Ovunque, spiegano Susskind e Sclavi (anche in Cina ci sono manifestazioni che bloccano «grandi opere» oppure che protestano per la scarsa qualità della vita nelle metropoli) ci sono movimenti alla ricerca di modalità adeguate per negoziare con i poteri forti del mondo, sia pubblici che privati.
Perché mai questa rivoluzione non dovrebbe arrivare in Italia? Dai NoTav, ai No dal Molin, a Rosarno, passando per i vari processi partecipativi promossi in varie Regioni, Provincie e Comuni che hanno portato a leggi di controllo urbanistico, piuttosto che ad «audit civici» sull’operato e la trasparenza dei governi locali, fino ai piccoli movimenti di quartiere, dal centro alle periferie che si battono per difendere il proprio territorio e trasformarlo in luogo di socialità, in bene comune. Questa «primavera italiana» da mille movimenti territoriali, che si oppongono a progetti pensati dall’alto senza misurare le conseguenze ambientali e sociali per le popolazioni locali, dimostra come le ondate di ribellione siano arrivate anche in Europa.
Il punto che ci interessa qui è valutare se e come sarà possibile l’unione tra i movimenti e i gruppi territoriali e i migranti riguardo le lotte per il diritto ad abitare, per il lavoro, contro lo sfruttamento, contro le mafie, per l’elementare possibilità di decidere sulla propria vita e per il superamento dell’apartheid, in particolare quello dei campi rom. E, più importante ancora, come tutto questo sarà fatto: sarà possibile trovare modalità orizzontali che permettono a tutti di esprimere il proprio punto di vista, modalità che favoriscono la condivisione delle responsabilità e che utilizzano le risorse creative, artistiche e culturali di tutti e di tutte? Se la politica vuole uscire dai palazzi dovrà provare a dialogare con questi movimenti insorgenti, altrimenti vedrà crescere le contestazioni e la messa in discussione del suo ruolo e della sua utilità pubblica, finquando arriverà una nuova, bella e travolgente rivoluzione.
[1] Su questi temi vedi Merklen, Denis «Quartiers populairs, quartiers politiques». Ed. La Dispute Paris, Francia, 2009
– La comunità di Metropoliz ha partecipato al carnevale di Tor Sapienza (marzo 2012): guarda il bel video di Margine Operativo.
– Cos’è il Metropoliz: legge la ricostruzione dell’associazione Popica.
Adriana Goni Mazzitelli è ricercatrice presso l’Università degli Studi Roma Tre, Laboratorio di Arte Civica.
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