Perché molti migranti sono persone arrabbiate? Certo, perché tanti e tante hanno dovuto lasciare affetti, paese, casa senza potersi portare dietro altro se non paura e speranza. E per la violenza di quella fuga. Ma anche perché vengono trattate come scarti, perché il Covid ha rallentato tutti ma loro restano comunque sempre gli ultimi della coda. “Sono arrabbiate con un sistema di regole inumane e incomprensibili che prima li ha costretti a un viaggio illegale e rischioso, poi li ha rinchiusi in qualche hotspot sovraffollato…”, scrive (su Repubblica di Genova*) Alessandra Ballerini, avvocata civilista specializzata in diritti umani e immigrazione. Tra loro c’è chi, malgrado tutto, non smette di pensare a chi non ce l’ha fatta a portare avanti il proprio progetto migratorio. “Non è vero che se vuoi puoi – dice Salif, tra i tanti arrabbiati – se si è sputati fuori dalla società, se si è completamente soli e poveri affettivamente, socialmente ed economicamente…”
Tratta da unsplash.com
Le persone che vediamo in studio sono spesso arrabbiate. Non che non abbiano buone ragioni ma la rabbia, che non a caso rende ciechi, gli fa sbagliare il bersaglio, che, a dire il vero non è neppure facilmente individuabile né raggiungibile. Sono arrabbiate innanzitutto con la loro cattiva sorte. Sono arrabbiate perché hanno dovuto lasciare affetti, paese, casa senza potersi portare dietro altro se non paura e insensata speranza. Sono arrabbiate per la violenza di quella fuga e degli uomini che ne hanno scandito le tappe. Sono arrabbiate per i lutti e le ferite.
Ma sono arrabbiate anche perché vengono trattate come scarti o nella migliore dell’ipotesi come intrusi. Perché faticano a imparare la lingua e trovare lavoro. Perché il Covid ha rallentato tutti ma loro restano comunque sempre gli ultimi della coda.
Sono arrabbiate con un sistema di regole inumane e incomprensibili che prima li ha costretti ad un viaggio illegale e rischioso, poi li ha rinchiusi in qualche hotspot sovraffollato o li ha depositati a galleggiare a tempo indeterminato su una nave quarantena con l’ansia sempre di essere rimandati indietro.
Sono arrabbiate perché sono intrappolate in Italia in una perenne attesa di qualche decisione non loro. Aspettano di veder riconosciuto il proprio diritto ad ottenere una protezione in Italia: attendono l’appuntamento in questura per formalizzare la domanda di asilo, poi la convocazione in commissione per raccontare la propria storia e poi aspettano ancora per mesi la decisione che spesso è un diniego. “Mi hanno rifiutato” è la loro perfetta sintesi. E si arrabbiano.
Si arrabbiano anche quando prepariamo il ricorso e devono ancora aspettare per anni per sapere se potranno restare o dovranno tornare verso gli orrori che credevano di essersi lasciati alle spalle. Sono arrabbiate perché non sanno come spiegare i tempi interminabili delle nostre procedure ai parenti rimasti in patria che confidano nel riconoscimento di quella invocata protezione per poter forse un giorno ricongiungersi. Sono arrabbiate perché non riescono a dormire la notte, tormentate dal mal di testa e dagli incubi di tutto il male che hanno subito o al quale hanno assistito e angosciate dall’incertezza del loro futuro.
La rabbia spesso si trasforma in grida e ostilità nei confronti delle uniche persone che stanno dalla loro parte, non solo perché ne hanno assunto la tutela legale ma perché riconoscono le loro ragioni e condividono le loro inquietudini. Questa ostilità ultimamente più frequente, accentuata dalla pandemia e dal caldo, mi resta attaccata e mi invade. Cosi quando l’altro giorno ho trovato una lettera di un mio assistito ho temuto di dover leggere cristallizzata su carta quella rabbia. E invece no, Salif ha deciso di scrivermi per dirmi come nell’attesa dell’udienza nonostante la frustrazione, riuscisse a affrontare le giornate (peraltro conseguendo la licenzia media e la patente di guida e trovando lavoro).
“Provo a raccontarle – mi scrive in perfetto italiano -, com’è andata finora: mi sono dato da fare per riempire ogni giorno di curiosità, di incontri, di letture, di scritture perfino, di nuove esperienze anche lavorative. Le delusioni, la nostalgia, la solitudine, il disorientamento si sono andati via via dissolvendo… Ma voglio aggiungere che porto in me la tristezza per tanti miei amici e compagni che fino a questo momento non ce l’hanno fatta, non è vero che se vuoi puoi, se si è sputati fuori dalla società, se si è completamente soli e poveri affettivamente, socialmente ed economicamente e si sa che non si è accolti anzi…”. Ho letto e riletto questa lettera per giorni e la rabbia ha lasciato il posto alla gratitudine.
*Pubblicato con l’autorizzazione dell’autrice
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