Quanti cani sono morti dall’inizio della guerra in Ucraina? Quanti cavalli? Quanti gatti? Quanti maiali? Quanti sono stati abbandonati? Domande che nessuno si pone, perché sconvenienti, forse immorali. Intanto troppo poco si è detto poi della morte nel Mar Nero di almeno 5.000 delfini, a causa dei sonar militari utilizzati da navi e sommergibili. Il mantra è che con tutto quello che succede c’è ben altro di cui occuparsi. Si traccia una gerarchia delle violenze, illudendosi che quella gerarchia renda il mondo un luogo migliore. Il fatto che il mondo resti un inferno per gli animali dovrebbe indurci ad affrontare con coraggio alla radice il tema della violenza. Anche i famosi schiaffoni educativi e l’attività venatoria, come accertato da molti studi, concorrono a far virare il clima nella direzione di una crudeltà diffusa. È l’abitudine all’uccisione costante e senza tregua degli animali, ha scritto Aldo Capitini, il brodo di cultura delle guerre
Quanti cani sono morti dall’inizio della guerra in Ucraina? Quanti cavalli? Quanti gatti? Quanti maiali? Domande che nessuno si pone, perché sconvenienti, forse immorali quando lo scenario è quello di parchi gioco bombardati, bambini torturati, edifici crollati con il loro contenuto umano ridotto in briciole.
Loro, i nonumani, non vengono conteggiati tra le vittime degne di conteggio perché non sembrano neppure avere il diritto di essere inseriti nella categoria delle vittime, relegati in un limbo, in una terra di mezzo tra gli umani da una parte, della cui sorte è doveroso almeno dare notizia, e l’ambiente, con case rase al suolo, ponti fatti saltare, immensi campi che non produrranno cibo, dei quali ci vengono proposte le immagini.
Eppure il loro tributo di sangue è enorme, sangue innocente come lo è quello dei bambini, degli indifesi, degli oltraggiati senza colpa e senza senso.
In cerca di appigli a un’idea di umanità che è allo sbando, l’attenzione di molti si è concentrata su qualche notizia rassicurante, fornita dai mass media: ha rincuorato per esempio sapere dell’impegno e dell’abnegazione di associazioni e volontari (un nome per tutti quello di Andrea Cisternino), che dall’inizio della guerra stanno facendo il possibile per prestare loro soccorso, cercando di fornire cibo e di curare i feriti, a rischio della propria vita, che in più casi è stata il terribile tributo pagato.
E hanno fatto il giro del mondo i filmati di chi fuggiva portando con sé il proprio cane o il proprio gatto: prova provata della recente realtà, anche in Ucraina, di famiglie nuove, non solo quelle allargate o arcobaleno, ma anche quelle multispecie in cui individui appartenenti a specie diverse convivono con gli umani quali membri della famiglia stessa a tutti i livelli. Il fenomeno ha commosso, ha raccontato che il male non è mai assoluto se in mezzo alla devastazione materiale e morale sopravvive una tale affettività, e ha colpito l’opinione pubblica per la sua ampiezza. Ma non è nuovo: c’è anzi qualcosa di antico al suo interno. Struggente è la testimonianza contenuta in un recente docufilm dal titolo incontestabile, “Not a time for children”, Non è un tempo per bambini: una donna molto anziana in una Ucraina dalle immense sofferenze storiche, ripercorre le tante atrocità viste nel corso della sua storia personale nel suo paese, quelle tanto insensate da indurre una bambina a porsi la terribile domanda Dio soffrì per il bene degli uomini. Noi per il bene di chi soffriamo?
Nonostante il male visto sia intollerabile, per la donna nulla è più angosciante del ricordo di quando, all’inizio della seconda guerra mondiale, stava fuggendo con la sua famiglia su un carro, mentre il suo cane Rex cercava disperatamente di seguirli correndo, e lei e il fratellino imploravano inutilmente il padre di portarlo con loro. Lei vede Rex investito e ferito che piange sdraiandosi a morire ai lati della strada. Dopo 70 anni e tante ignominie viste e subite, mai più ha provato un dolore così assoluto e potente, rimasto intatto dentro di lei, in grado di sconvolgerla ancora nel momento in cui lo riporta alla coscienza. Quello che oggi in molti cercano di fare, anche perché sorretti da una cultura, un senso comune che lo autorizza e lo apprezza, probabilmente è sempre esistito senza essere riconosciuto né tanto meno accettato, appannaggio di bambini ancora non induriti dal contesto e condannati a restare inascoltati. Di certo, quando si parla di traumi, dovremmo deciderci a riconoscere la perdita di un animale tra quelli dalla valenza drammatica.
Pur a fronte del doveroso riconoscimento della generosità di queste realtà, la situazione in Ucraina non può che riportare a un ben diverso stato delle cose: enorme è il numero degli animali che hanno dovuto essere abbandonati da chi fuggiva e non è un caso che se ne siano visti moltissimi nei pressi delle stazioni ferroviarie, in attesa di improbabili ritorni di compagni umani visti partire. Tanti sono quelli che muoiono sotto le macerie insieme agli umani; e tantissimi quelli feriti che nessuno ha modo di curare. Ci sono poi quelli rimasti negli zoo, dopo i trasferimenti di parte di loro, lasciati a morire di fame e di sete allo stesso modo di cani e gatti chiusi nei rifugi, quelli bombardati negli allevamenti o anch’essi morti per mancanza di cibo, quelli uccisi appositamente a fucilate o avvelenati nelle strade come spregio alla popolazione e atto di pura crudeltà. Crudeltà allo stato puro che è la cifra di questa e di tutte le guerre, dove la violenza è la prassi ed è contagiosa come il peggiore dei virus: perché sono il territorio che vede il black out di tutti i freni morali, dal momento che la ripetizione continua della violenza scatena altre pulsioni oscure, che sfociano in episodi di crudeltà gratuita. Sapere che i nonumani, come e più degli umani, vengono tormentati per pura spietatezza deve indignarci, ma non può stupirci.
Troppo poco si è detto poi della morte nel Mar Nero di almeno 5.000 delfini (quelli trovati spiaggiati, ma i numeri sono valutati essere di molte altre decine di migliaia), a causa dei sonar militari utilizzati da navi e sommergibili russi, che danneggiano il loro udito, li disorientano al punto da renderli incapaci di cercare cibo e li portano a schiantarsi contro le rocce: il disastro è tale che si parla di morte non solo dei delfini, ma anche dell’intero ecosistema del Mar Nero.
Le cronache sono ancora frammentarie e ancora c’è troppo poco tempo perché i giornalisti possano, se lo vogliono, raccogliere singole testimonianze. Ma un grande aiuto ci proviene dalle interviste contenute nel libro inchiesta Ragazzi di zinco, di Svetlana Aleksievic, Premio Nobel per la letteratura 2015, padre bielorusso e madre ucraina, che ha ripercorso la guerra dei russi in Afghanistan, raccontata dai reduci, per tantissimi versi assimilabile a quella attuale: un soldato sopravvissuto ricorda come gli animali non venissero risparmiati nemmeno dalle rappresaglie: come quando fermata una carovana che trasportava armi, gli uomini vennero messi da una parte, asini e muli dall’altra e tutti aspettarono la morte in un silenzio irreale: furono le urla di un asino ferito, l’unico a ribellarsi alla propria morte, ad attraversagli le orecchie e il cuore. Oppure il sogno che perseguita come un incubo un altro reduce che risente i lamentosi guaiti dei cani cerca mine. Avevano anch’essi i loro morti e feriti. Erano distesi vicini, morti. Uomini senza gambe. Cani senza zampe.
In tutto questo, ricordarsi che gli animali patiscono non solo le ferite fisiche, ma anche traumi psicologici sembra materia da marziani. Ma ci pensa a ricordarlo l’associazione Vet without borders, un Medici senza frontiere animale, che denuncia che da certe ferite gli animali, esattamente come gli umani, possono anche non riprendersi e cronicizzare una sorta di terrore che li induce a comportamenti innaturali quali l’abbandono dei cuccioli da parte delle madri. A qualcuno importa?
Per meglio chiarire lo stato delle cose, va ricordato che, pur con tutti i limiti della sua applicazione, per gli umani esiste la Convenzione di Ginevra, nata nel 1864 e poi più volte riscritta, che si occupa della protezione delle fasce deboli nel corso delle guerre, dei diritti delle vittime e di diritto internazionale umanitario. Si sancisce che esistono dei limiti atti a proteggere gli umani più esposti e indifesi e si cerca di contenere l’esondare di una crudeltà che pure è il brodo di cultura di ogni guerra. Ma non contempla in alcun modo, nelle stesse situazioni, la protezione dei nonumani, per la quale non esiste ad oggi un diritto internazionale umanitario: in altri termini non esiste tutela, neppure teorica, nei loro confronti, mentre più che mai necessaria sarebbe una teoria che includesse la loro situazione nel corso degli eventi bellici, che corrisponderebbe alla presa di coscienza che non possono essere ignorati né lasciati in balia delle azioni di qualsiasi criminale o soldato o civile reso tale dai meccanismi disumanizzanti in atto.
Se tutto questo può apparire utopistico, va ricordato che nel mondo vi sono paesi in cui si sta affrontando il tema dei diritti della natura, della dignità ambientale, per cui gli elementi naturali, piante, fiumi, laghi… devono essere tutelati, ma non in chiave antropocentrica, vale a dire non in funzione del nostro vantaggio, bensì in nome dei diritti di cui essi stessi sono depositari. Le iniziative concrete non mancano e sono in atto, per esempio, per il Gange o il fiume Yamuna in India; mentre molti altri progetti (400 in 39 paesi diversi), stanno portando all’abbandono di interventi in Sud America, ritenuti non corrispondenti a questa nuova ottica. Insomma dagli umani all’ambiente, bypassando, secondo consueta norma, tutto il mondo animale, reso invisibile dalla cecità umana.
Le forme di abuso su di loro sono inevitabilmente esacerbate dalla guerra che ha il potere di fare esplodere la parte peggiore di noi. Particolarmente grave che ciò abbia luogo in assenza di sensi di colpa da parte dei colpevoli e di indignazione da parte di gran parte delle persone. Siamo di fronte al dilagare del benaltrismo, quel meccanismo che il linguaggio psicologico designa come confronto vantaggioso: si confrontano situazioni oggettivamente gravi con altre che sono considerate dal pensiero comune più gravi ancora. Il mantra è che con tutto quello che succede c’è ben altro di cui occuparsi. Quindi se il contesto è quello di persone ferite, uccise, deportate, torturate, sottoposte a violenze oscene, non è questo il momento né il luogo di occuparsi degli animali. Insomma si traccia una gerarchia delle ingiustizie, usando più o meno consapevolmente uno degli automatismi che inducono a compiere o a tollerare il male senza neppure pagare il prezzo minimale di uno sgradevole senso di colpa. Si tratta di una china spaventosa perché in questo modo si sdoganano le peggiori ingiustizie, senza opporvisi, inserendole nel registro delle cose poco importanti, bagatellare, nella negazione dell’idea che invece nessuna ingiustizia ne giustifica o ne cancella un’altra, ma ad essa si somma rendendo il mondo un luogo ancora un po’ peggiore. Mondo, che, trasformato in un inferno per gli animali, dovrebbe essere una faccenda non da ignorare, ma da farci interrogare a fondo e indurci ad affrontare alla radice il tema della violenza.
Sulla pervasività di questo meccanismo la dice lunga la politica di casa nostra anche in tempo di pace: sempre impegnata, a proprio esclusivo dire, in compiti alti, non si reputa neppure in dovere di dare giustificazioni alla propria scandalosa inerzia quando evita persino di calendarizzare la discussione di leggi a tutela degli animali.
Un altro ordine di considerazioni del tutto sottostimate è riferito alla genesi di quell’orgia di violenza che inonda ogni guerra: non nasce dal nulla, ma ha un lungo periodo di formazione che risulta perfettamente compendiato nelle parole dello psicologo canadese, Steven Pinker, nel suo mastodontico studio su questo argomento (Il declino della violenza): nella pagina di apertura scrive che, se vogliamo capire il perché della violenza al fine di combatterla, la dobbiamo studiare in tutte le sue manifestazioni, dalle dichiarazioni di guerra tra le nazioni alle sculacciate ai bambini. Argomenta quindi sul legame che unisce quello che viene considerato solo stile educativo che non lesina scapaccioni “a fin di bene”, allo scenario più drammatico quale è quello bellico. È proprio questa dinamica a dover essere ricostruita e capita: per arrivare alle dichiarazioni di guerra, si attraversano tanti altri territori di violenza, esercitata sui più deboli, i bambini appunto, dice Pinker. Anche sui nonumani, aggiungo io, indifesi come e più di loro. In fondo Pinker riprende concetti cardine di altri pensatori, tra i quali un posto d’onore va riservato ad Aldo Capitini (1899/1968), considerato il Gandhi italiano per le sue idee pacifiste, che molto aveva detto e scritto sull’argomento, fino a sostenere che è l’abitudine all’uccisione costante e senza tregua degli animali il brodo di cultura delle guerre. Motivo per cui decise di diventare vegetariano nel 1932, mentre cominciavano a soffiare venti di guerra, nella convinzione dichiarata che, se si fosse imparato a non uccidere gli animali, a maggior ragione si sarebbe risparmiata l’uccisione di uomini. Si può continuare citando la posizione di altri pacifisti, Gandhi, Toltstoj, Terzani, Marcucci, Scweitzer: il denominatore comune del loro pensiero si situa proprio nella convinzione che il rifiuto della guerra non nasce improvvisamente, ma si nutre di un atteggiamento solidale, non predatorio con tutti gli altri e coinvolge ogni aspetto della vita individuale e sociale. Per tutti loro gli altri sono parimenti umani e nonumani.
Vale la pena ricordare una interessantissima ricerca, svolta nel 1988 negli Stati Uniti, che esemplifica magistralmente tutto questo. I ricercatori si chiedevano se gli stupri dovessero essere imputati esclusivamente alla personalità dei colpevoli o fossero da mettere in relazione con altre realtà violente. Molto interessante che il grado di violenza di un determinato contesto venisse stabilito secondo quattro indicatori principali: ruolo della violenza nei mass media (percentuale di lettori e spettatori di notizie e spettacoli violenti); uso della violenza da parte del governo per scopi considerati auspicabili (uso di punizioni fisiche nelle scuole; percentuali delle condanne a morte e delle esecuzioni,…..); tasso di partecipazione ad attività violente, ma legali (caccia, tasso di arruolamento nella Guardia Nazionale 1e le spese procapite di quest’ultima…..); percentuale dei linciaggi sostegno culturale alla violenza misurato tramite questionari. In altri termini anche i famosi schiaffoni educativi nonché l’attività venatoria secondo gli studiosi concorrono a far virare il clima di un determinato contesto nella preoccupante direzione di una crudeltà diffusa.
I risultati dimostrarono che la quantità di stupri è direttamente proporzionale al sostegno culturale ad altre forme di violenza, anche quelle non riconosciute come tali. Si tratta di risultati illuminanti, purtroppo ignorati da chi ha il potere di agire di conseguenza: troppo rivoluzionari a quanto pare, perché accoglierli significherebbe buttare all’aria convinzioni e abitudini su cui si fondano tante società: significherebbe, tra l’altro, abolire la caccia, che è crudeltà allo stato puro e non sport. Significherebbe opporsi a tutte le violenze sui bambini spacciate per interventi educativi. Meglio allora continuare a reagire all’ennesimo stupro etichettando il colpevole di tanta atrocità come animale. Così nulla cambia e anzi, attraverso un uso distorto e mistificante del linguaggio, si può continuare a buttare il male che compiamo lontano da noi, addossandolo ai nonumani, comodo ricettacolo di tutto il peggio che ci appartiene, ma che ci rifiutiamo di riconoscere come nostro: chi lo compie non è un uomo, ma un animale: appunto.
In conclusione nessuna forma di crudeltà resta isolata, ma si diffonde con la potenza del peggiore dei virus; genera un contagio: l’assuefazione alla pena di morte, l’abitudine ad uccidere animali per divertimento, gli spettacoli crudeli, i vari gradi della pedagogia nera possono avere conseguenze drammatiche e impensabili sul contesto, anche se, essendo il link non immediatamente percepibile, possiamo permetterci di ignorarlo.
La guerra è una tragedia immane: per i disastri, le sofferenze intollerabili che genera, per l’orgia di violenza su uomini e animali che porta con sé. E che non hanno fine con la fine della guerra, come dimostrano i tanti casi studiati di reduci che, una volta ritornati a casa, si macchiano dei peggio crimini o dei peggio atti autolesionistici. Mentre i bambini, vittime o testimoni di atti spietati, non potranno che diventare adulti feriti, portatori di dolori insanabili. Solo per i morti la guerra finisce davvero, aveva già detto Platone.
Preoccupa enormemente la scarsissima consapevolezza di tutto questo: ci sono governi che si ostinano ad andare in direzione contraria: la Polonia ha deciso che da questo anno scolastico gli studenti, a partire dai 13 anni in avanti, avranno nel loro curriculum di studi l’addestramento all’uso delle armi. In 29 stati degli Usa, in risposta alle ripetute stragi, gli insegnanti potranno andare a scuola armati. Nel nostro piccolo ci confrontiamo con la proposta del leader della lega di ristabilire il servizio militare obbligatorio, per plasmare sui suoi standard le giovani generazioni. Quando si parla di educazione alla nonviolenza.
Gli animali, che non possono neppure sperare in una pur oscena vittoria perché non hanno nessun nemico da vincere, ad oggi devono accontentarsi di un posto simbolico tra gli omaggiati del monumento agli animali caduti in guerra, eretto nel 2004 a Park Lane, a Londra. E sperare nell’esistenza di un Paradiso per un tardivo risarcimento: perché, dice un bambino napoletano, quando andranno in Cielo, Dio gli domanderà scusa di averli creati.
1 Guardia nazionale, formata da riservisti in servizio un week end al mese, due settimane all’anno
Massimo Terrile dice
Documento eccezionale, da fa leggere nelle scuole affinché sia chiaro da cosa origina e dove porta la violenza.
PIERA dice
1979 …..Billo……di
All’inizio della nostra relazione fummo invitati nella casa del custode d’una nota scuola di Napoli;
faceva caldo, e il vino rosso e freddo prodotto dal capofamiglia, dopo la strada percorsa al sole ci confortò alquanto .
I suoi cani abbaiavano inquieti, eravamo per loro degli estranei…il più bellicoso maltrattava il meno aggressivo
che ne pagava conseguenza .…quest’ultimo aveva riscosso la nostra ammirazione per che incrociava la furbizia d’un musetto volpino, con lo sguardo espressivo d’un pechinese…di taglia piccola tenero ai miei occhi, di donna acerba
…ci preferiva….Avevo indossato per l’occasione un abito nei toni del rosa e il cagnolino appassionato,
m’ aveva bagnato di saliva l’interno coscia, comunicandomi a modo suo, affetto incondizionato .
Divenne mio, dopo frequenti richieste e doni, di prestigiosi ritratti a matita alla proprietaria;
lo trasportammo non senza difficoltà nel mezzo pubblico che ci riportò al nostro domicilio .
Billi….o meglio Billo, come soprannominato, divenne parte integrante del nostro nucleo familiare e, vivacemente visse con noi molti anni, rendendoci lieti per tutte le espansività che riusciva ad ottenere
e per l’ammirazione suscitata in chi lo osservava d’intorno .
Era difficile considerarlo solo un animale e tutti noi ci affezionammo a lui in maniera quasi morbosa .
Quando però s’ammalò di tumore, restava sotto il letto a lungo e noi che non avevamo capito la gravità del suo male
lo esortavamo ad uscire dal suo nascondiglio, unica sua garanzia di raccoglimento per tale disgraziata sorte…
Il medico operò l’eutanasia e per non farlo troppo soffrire;
mi morì tra le braccia quando … anch’ io desiderai di morire ….
Oggi se ripenso a Billo…..ancora soffro della nostra incapacità di prevederne il male !!