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La guerra alle navi umanitarie

Maurizio Ambrosini
02 Gennaio 2023
Tratta da unsplash.com

La guerra alle organizzazioni non governative, le Ong, che salvano persone in mare è una cifra identitaria del nazional-populismo italiano ed europeo. Poco importa che le navi umanitarie nel 2022 abbiano soccorso appena l’11,2 per cento delle poco più di centomila persone approdate sulle coste italiane. Gli altri o arrivano con i propri mezzi, oppure sono soccorsi da altre navi, con la Guardia costiera e la Marina militare in prima fila, sebbene costrette a operare in silenzio.

Dai primi giorni del suo insediamento, il governo Meloni aveva ripreso l’odiosa campagna contro le Ong, fino al punto da provocare una crisi dei rapporti con la Francia. Preceduto, va ricordato, dall’improvvida iniziativa dell’allora ministro Minniti che per primo ha fatto di tutto per imbrigliare le attività di salvataggio delle Ong con il suo “codice di condotta”. Limitarne l’attività, se possibile allontanarle dalle acque territoriali, rendere più costosi e complicati i salvataggi: queste sono le linee-guida del governo Meloni. A cui si può aggiungere l’intento più malevolo e insidioso sul piano delle relazioni intergovernative: scantonare dall’obbligo di offrire approdo ai naufraghi e asilo ai profughi cercando di scaricarne l’onere sugli Stati di cui le navi inalberano la bandiera.


LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI LORENZO GUADAGNUCCI:

Il potere di lasciar morire

A scorrere l’elenco delle prescrizioni governative sembra che le navi umanitarie trasportino “rifiuti pericolosi” o svolgano un servizio di trasporto da disciplinare strettamente, perché foriero di chissà quali nefaste conseguenze. O le due cose insieme. Basti pensare agli effetti di alcune disposizioni, se non interverrà un moto di resipiscenza nell’iter di approvazione del decreto. L’obbligo di raggiungere «senza ritardi» il porto assegnato fa pensare che se il comandante ricevesse un’altra richiesta di soccorso dovrebbe ignorarla, lasciando affondare le persone, per non procrastinare lo sbarco o deviare, dalla rotta assegnata. I requisiti di idoneità tecnico-nautica innescano un paradosso analogo: se un salvataggio dovesse comportare il superamento del numero consentito di passeggeri, il comandante dovrebbe abbandonare qualcuno al suo destino?

Come minimo, il governo comunica una visione dei salvataggi in mare come un’attività dannosa, da circoscrivere, scrutare, penalizzare, con la minaccia di gravi sanzioni pecuniarie (cadute, per fortuna, quelle penali dell’epoca Salvini). Serve ad aggravare i costi l’obbligo di raggiungere porti più lontani, anche se ammantato dalla (debole) motivazione di alleggerire i porti di approdo più prossimi: come se non si potesse in poche ore trasportare le persone, una volta sbarcate, in luoghi idonei ad accoglierle.

Ma non basta. L’imposizione di informare le persone tratte in salvo «della possibilità di richiedere la protezione internazionale», raccogliendo «i dati rilevanti» lascia trasparire l’obiettivo di devolverne la responsabilità agli Stati di bandiera delle navi. Non solo provocherà tensioni con i Paesi amici (che accolgono, va sempre ricordato, più rifugiati di noi), ma solleverà seri dubbi di legittimità e praticabilità: le richieste di asilo secondo le norme vanno sottoposte alle autorità di Stato, che hanno titolo fra l’altro per verificare l’identità, la provenienza, l’autenticità dei documenti di chi le presenta. Non sembra sostenibile che dei soggetti privati, nella concitazione dei salvataggi e della prima assistenza in mare, possano farsene carico.

Da tempo ormai la nuova enfasi sui confini e sulla sovranità nazionale come valori pressoché assoluti ha messo nel mirino le organizzazioni umanitarie indipendenti, specialmente se basate all’estero. Il fatto che ricevano finanziamenti privati e pratichino una solidarietà che travalica i confini scatena un immaginario complottista, altro marchio di fabbrica del nazionalpopulismo.

Di solito sono governi autoritari come quello russo o quanto meno dai dubbi standard democratici, come l’Ungheria di Orbán, a intralciare o vietare le loro attività. Ora anche il governo Meloni si aggiunge a questa poco commendevole compagnia. Se le Ong non piacciono, un’alternativa ci sarebbe: una seconda operazione Mare Nostrum, con un ampio dispiegamento della Marina militare, per trarre in salvo i naufraghi senza coinvolgere soggetti terzi. Ma temiamo che non si farà: se il primo bersaglio sono le Ong, il secondo sono le persone che vorrebbero cercare scampo al di là del mare. Tant’è che noi europei, italiani purtroppo per primi continuiamo a sostenere la cosiddetta Guardia costiera e i «lager» – parola dell’Onu – della Libia.


Pubblicato su Avvenire (con il titolo L’altra guerra senza senso) e qui con l’autorizzazione dell’autore


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