Ovunque la guerra aumenta la vulnerabilità infantile e moltiplica le occasioni di abuso. In Ucraina la guerra ha fatto irruzione in un paese nel quale la condizione sociale di bambini e bambine, ragazzi e ragazze era tra le più critiche d’Europa. Nei primi mesi della guerra l’Unicef ha lanciato il grido di allarme: “Cento giorni di guerra hanno avuto conseguenze devastanti sui bambini in dimensioni e con una rapidità tali che non si erano più viste dalla Seconda guerra mondiale”. Secondo l’Onu tra i circa 10 mila uccisi o feriti accertati (dato sottostimato), la metà sono donne e bambini. Già nel primo mese di guerra 4,3 milioni bambine e bambini sono stati costretti a lasciare le loro case. In questo articolo Bruna Bianchi ricorda che non sono solo le azioni dirette di guerra a causare malattie e morte tra i bambini, ma anche il freddo, la fame, l’acqua contaminata, la mancanza di cure sanitarie, senza considerare le profonde ferite per la loro salute mentale. Ma lo straordinario valore di questo articolo è rappresentato soprattutto dai numerosi stralci di alcuni diari scritti in queste settimane da bambini e bambine. Diari che gridano al mondo

“I bambini sono le vere vittime della guerra moderna. È abominevole il fatto che per ogni combattente ucciso, ci siano cinque bambini innocenti che hanno perso la vita per l’impatto della guerra”
(Leo Ronalds, Save the Children Australia, 2019)
L’infanzia nelle guerre contemporanee
Gli uomini fanno la guerra, le donne e i bambini ne pagano il prezzo. Così Juliet Dobson intitolava il suo articolo sul “British Medical Journal” dopo poche settimane dall’invasione dell’Ucraina ricordando i passeggini lasciati a una stazione ferroviaria della Polonia per le profughe e i loro bambini dalle donne del posto. “È un segno della nostra sorellanza”, dissero. Se sulla sorte delle donne in guerra molto è stato scritto, in particolare in relazione agli stupri e alle efferatezze commesse a Buča, la sorte dei bambini ucraini e di quelli coinvolti nei conflitti al di fuori dell’Europa, invece, è rimasta in gran parte in ombra.
La guerra ha sempre colpito la popolazione civile – donne, bambini, anziani – ma è solo a partire dalla Prima guerra mondiale che essa è diventata l’obiettivo primario della strategia militare. L’esperienza dei massacri di giovani uomini nelle trincee del 1914-18 suggerì di affidare le sorti della guerra alla violenza contro la società civile (Bianchi 2017)1. Questa strategia, attuata nella Prima guerra mondiale dalla Marina e dall’aviazione nella Seconda, è perseguita oggi con la progettazione di armi completamente autonome che fanno vittime solo tra la popolazione civile.
Nel 2019 Save the Children ha calcolato la sproporzione tra le morti infantili e quelle militari nei conflitti tra il 2013 e il 2017 in dieci paesi (Afghanistan, Yemen, Sud Sudan, Repubblica centro-africana, Repubblica democratica del Congo, Siria, Iraq, Mali, Nigeria e Somalia): 870.000 bambini al di sotto dei cinque anni hanno perso la vita in confronto a 170.000 combattenti. Nel 2017 erano 420 milioni i bambini che vivevano in zone di conflitto, 30 milioni in più rispetto all’anno precedente. Con la guerra in Ucraina questa situazione si è andata ulteriormente aggravando.
Ovunque la guerra aumenta la vulnerabilità infantile e moltiplica le occasioni di abuso. Il rapporto annuale del Segretario generale ONU del 2021, Children and Armed Conflict ha individuato 23.982 gravi violazioni dei diritti dell’infanzia nell’anno precedente con un aumento del 20% per quanto riguarda le violenze sessuali. La cultura dell’impunità e l’orientamento della strategia militare volta a colpire i civili hanno permesso queste sistematiche violazioni e impedito che si giungesse alla definizione di uno strumento giuridico a protezione dell’infanzia nei conflitti. La IV Convenzione di Ginevra del 1949 sulla protezione dei civili in guerra mancò di menzionare i bambini, lasciando un vuoto nel diritto internazionale. Da allora tutti i tentativi di considerare i bambini “zone di pace” sono falliti. In Protecting Children in Armed Conflict nel 2019 l’organizzazione non governativa Theirworld, Save the Children e la Global Health Academy dell’Università di Edinburgo hanno proposto uno strumento giuridico internazionale per la protezione legale dell’infanzia nei conflitti armati che, accanto a miglioramenti che potrebbero essere introdotti nel diritto internazionale e a forti pressioni sugli stati affinché sottoscrivano i protocolli e i trattati esistenti, potrebbe essere uno strumento importante per porre un argine alla violenza bellica nei confronti dei bambini. “Se l’umanità non riesce a collaborare per proteggere i bambini dagli orrori della guerra, si legge nelle conclusioni del rapporto, che speranza c’è per la cooperazione internazionale in altri campi?” (p. 16).
Anche la Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia ha rappresentato una ben fragile barriera alla violenza. Michael Plunkett e David Southall, medici esperti in abusi infantili, hanno rivolto un atto di accusa contro tutti i governi che hanno firmato quella Convenzione e che continuano a esportare armi. “La vendita di armi e i diritti dei bambini sono concetti inconciliabili”. Già nel 1998 i due medici avevano scritto: “Per tutti coloro che sono implicati nella vendita delle armi può essere opportuno leggere il Preambolo della Convenzione delle Nazioni Unite e chiedersi onestamente se il commercio delle armi è un buon modo per ‘riconoscere l’importanza della cooperazione internazionale per migliorare le condizioni di vita dei bambini in ogni paese o per […] affermare che il bambino dovrebbe essere cresciuto nello spirito degli ideali proclamati dalla Carta delle Nazioni Unite e in particolare nello spirito di pace, dignità, tolleranza, libertà, uguaglianza e solidarietà’ (Plunkett-Southall, p. 77)
In questo contesto di impunità, vuoto giuridico e costante innalzamento della violenza bellica sulla parte più debole della popolazione civile è scoppiata la guerra in Ucraina in cui l’importazione di armi giorno dopo giorno innalza il livello della distruttività delle operazioni militari.
La guerra, inoltre, ha fatto irruzione in un paese in cui la condizione sociale e sanitaria infantile era tra le più critiche d’Europa. Lo rivela la letteratura pediatrica: percentuali più elevate di mortalità infantile, di bambini e ragazzi sottopeso, maggiore diffusione della violenza domestica, degli abusi sessuali o delle percosse o di situazioni famigliari difficili dovute ad alcolismo, carcerazioni e separazioni (Ludvigsson-Loboda 2022).
In Ucraina. Vittime, fughe deportazioni
Fin dai primi mesi del conflitto l’UNICEF ha lanciato il suo grido di allarme: “Cento giorni di guerra hanno avuto conseguenze devastanti sui bambini in dimensioni e con una rapidità tali che non si erano più viste dalla Seconda guerra mondiale” (UNICEF 2022). La stessa organizzazione ha parlato di “generazione perduta”.
Non ci sono ancora dati certi sulle morti infantili; il 12 dicembre 2022 l’alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha rilevato che tra i 9.838 civili uccisi o feriti accertati di cui si conosce il sesso, il 47% è rappresentato da donne e bambini (OHCHR 2022). Tuttavia, non sono solo le azioni dirette di guerra a causare malattie e morte tra i bambini, bensì il freddo, la fame, l’acqua contaminata, la mancanza di cure sanitarie, le malattie che si sono diffuse in seguito alla distruzione delle abitazioni e delle infrastrutture sanitarie, idriche ed energetiche, ai pericoli e ai traumi delle fughe e degli spostamenti forzati.
Già nel primo mese i guerra 4,3 milioni bambini sono stati costretti a lasciare le loro case; di questi 2,5 milioni hanno trovato rifugio all’interno del paese (UNICEF, maggio 2022). Attualmente il 90% delle persone profughe in Europa (7.832.493), è costituito donne e bambini (UNCR dicembre 2022). La situazione più difficile è quella dei minori non accompagnati, degli orfani, di coloro che non vivevano con la famiglia al momento dell’invasione, ma in altre istituzioni o collegi (circa 100.000) e di coloro che sono stati forzatamente trasferiti in Russia o nelle zone sotto il controllo russo. A questi spostamenti forzati, che in molti casi si configurano come crimini contro l’umanità, è dedicato il rapporto di Amnesty International, Ukraine.Like a Prison Convoy, apparso a novembre e basato su 88 interviste a coloro che sono riusciti a rientrare in Ucraina o a dirigersi verso altri paesi europei. Nel complesso, si legge nel rapporto, secondo l’UNHCR sono 2,8 milioni gli ucraini che dal 24 febbraio al 17 ottobre hanno varcato il confine con la Russia; secondo dati ufficiali russi, invece, al 5 ottobre essi sarebbero 4,5 milioni di cui 690.000 bambini (p. 9).
Se in molti sono riusciti a lasciare la Russia, i bambini, i ragazzi non accompagnati, gli orfani e i disabili sono in gran parte rimasti intrappolati nei centri di accoglienza.
Il 20 marzo 2022, due ragazzi di 15 e 16 anni, di Marjupol, orfani separati dai loro tutori, che stavano fuggendo verso Zaporižžja, sono stati fermati nel villaggio di Manhush occupato dai russi […]. “Non c’era scelta per chi aveva meno di 18 anni”, ha spiegato il sedicenne (p. 10).
Molti altri sono stati fermati ai posti di blocco e trasferiti in Russia dopo essere passati attraverso il processo di “filtraggio”, interrogatori sulle opinioni politiche e sulla guerra. Questi interrogatori sono spesso accompagnati da maltrattamenti e vere e proprie torture, come è accaduto a un ragazzo di 17 anni (p. 5). In alcuni casi, ha accertato Amnesty, i bambini sono stati separati dalle madri. Ha ricordato un bambino di 11 anni:
“Hanno preso mia mamma e l’hanno interrogata… mi hanno detto che sarei stato separato da mia mamma … Ero sconvolto, non mi hanno detto dove sarebbe andata la mia mamma […] Da allora non ho saputo più niente di lei (p. 11)”.
Questo bambino è stato in seguito raggiunto dalla nonna che è riuscita a rintracciarlo da un post sui social. Altri nonni e tutori hanno dovuto recarsi in Russia per riavere con sé i bambini, un viaggio lungo e pericoloso di 4.000 chilometri attraverso la Polonia, la Lituania, la Lettonia per poi passare il confine con la Russia a piedi (p. 27).
In mancanza di relazioni tra Russia e Ucraina, i bambini separati da genitori o tutori rischiano di essere considerati orfani e andare in adozione. La volontà di assorbire nella società russa i minorenni, ostacolando il rimpatrio, imponendo la cittadinanza russa (ai minori di 14 anni), favorendo le adozioni è ben documentata dal rapporto.
Nei centri temporanei di accoglienza – 9.500 diffusi su tutto il territorio russo, incluse le regioni più remote – ci sono state pressioni affinché internati e internate chiedessero la cittadinanza russa e gli aiuti per le riunificazioni famigliari sono venuti per lo più dalle organizzazioni di volontari russi, che a decine sono sorte nel paese. “È il nostro modo di protestare”, ha dichiarato a “The Moscow Times” Veronika Timakina, una giovane di 19 anni che ha organizzato gli aiuti lanciando una raccolta fondi. “Quando ho visto lunghissime code di persone profughe, mi sono vergognata di guardarle negli occhi e mi sono offerta come volontaria”, ha dichiarato un’altra giovane di 25 anni, Maria. Affrontando gravi rischi, volontari e volontarie hanno procurato aiuto legale, il denaro per il viaggio, hanno accompagnato alle stazioni, provveduto ai bisogni più elementari, una attività che non ha tardato ad essere colpita dalla repressione. Veronika ha dovuto lasciare il paese e sappiamo di altre attiviste minacciate e torturate.
Traumi
La preoccupazione maggiore che emerge dalla letteratura medica e sociologica sul tema dell’infanzia e la guerra in Ucraina è quella della salute mentale (Elvevåg- DeLisi, 2022; Bürgin et al. 2022). La paura, le ferite, la vita nei rifugi, la morte improvvisa e inaspettata delle persone care, lo stravolgimento della vita quotidiana, la rottura dei legami famigliari e amicali, hanno avuto un impatto sulla psiche infantile pervasivo e profondo. L’incertezza per il futuro, le condizioni di vita deteriorate, l’ansia continua e soprattutto la normalizzazione della violenza, conducono a condizioni di instabilità che rischiano di perdurare nel tempo e che possono sfociare in gravi forme di depressione o in comportamenti violenti (Nooryani 2022). Lo rivela l’esperienza dei giovanissimi nella parte orientale dell’Ucraina, dove la guerra è iniziata nel 2014 e dove 400.000 bambini hanno sofferto di disturbi psichici (Ludvigsson-Loboda 2022).
Jan Egeland, segretario generale del Norvegian Refugee Council dopo una recente visita in Ucraina ha dichiarato:
“Ciò che si osserva è che per i bambini e gli adolescenti non vi è più alcuna speranza per il futuro. Katya, una ragazzina di 14 anni di Novomyhkailivka ha affermato: ‘Se mi chiedi del mio futuro, so una cosa sola per certo: che devo andarmene. Tutti i miei compagni di scuola parlano solo di fuggire’ (Cincurova 2022). Ma anche il sostegno che deriva da compagni, compagne e insegnanti, più dura la guerra e più viene a mancare a causa della distruzione di migliaia di scuole”.
Scrivere e parlare delle esperienze di guerra
Eppure, alcuni bambini e adolescenti hanno cercato di elaborare le loro esperienze traumatiche scrivendo, disegnando, tenendo diari. Si scrive per evitare essere travolti-e dagli eventi, per dare un ordine ai pensieri e uno sfogo alle emozioni, per ritrovare calma. È il caso di Yegor, 8 anni, che durante i bombardamenti di Marjupol ha tenuto un diario in cui si legge:
“Domenica, 3 maggio. Mio nonno è morto, sono ferito alla schiena, mia sorella è ferita alla testa e la mamma non ha più carne nel braccio e ha un buco nella gamba.
Lunedì 4 maggio. La nonna è venuta in cerca di acqua ed è tornata indietro. A proposito, è quasi il mio compleanno, ho 8 anni, mia sorella 15, e mia madre 38 e ha bisogno di bende. Due dei miei cani sono morti. Come pure mia nonna Halya e la mia città del cuore, Marjupol”.
Già a 8-12 anni, questi bambini si sentono deprivati del loro passato. Lo conferma il diario della dodicenne Yeva Skalietska di Charkiv e ora profuga a Dublino recentemente pubblicato a Londra con il titolo You Don’t Know What War Is. Quando ha saputo che la sua casa è stata sventrata da una bomba a grappolo, ha annotato nel suo diario:
“Fa davvero male. È lì che sono cresciuta. Colpire la mia casa è come colpire una parte di me […] C’erano tanti ricordi in quel luogo” (p. 82).
Alle volte il trauma è talmente lacerante che neppure il diario riesce a contenere il dolore. Per Tymophiy, un dodicenne di un villaggio presso Kiev, l’uccisione di entrambi i genitori nei primi giorni dell’invasione è stata “un’esperienza al di là delle parole”. Da allora prende raramente in mano il suo diario e quando lo fa, scrive in codice o usando l’inchiostro simpatico. “Alle volte vorrei bruciarlo”. Anche al suo psicologo confida ben poco. Accolto dagli zii insieme al fratellino, non riesce a immaginare una vita senza i genitori.
Le esperienze di 27 adolescenti dai 10 ai 18 anni (di cui 16 dai 10 ai 13 anni), che ora vivono in diversi paesi europei, sono state raccolte dal 30 aprile al 20 maggio da alcune studiose del Pratt Institute di New York (Lopatovska et al. 2022). Un primo tema sul quale hanno ruotato le conversazioni ha riguardato la vita prima della guerra. La visione di quel periodo della vita nei racconti dei più giovani appare spesso idilliaca, un sogno lontano. Ha ricordato una ragazzina:
“Prima della guerra avevo una vita felice, tanti amici, andavo nella casa di campagna, in primavera piantavamo fiori e qualche ortaggio, io giocavo con il volano con mio padre mentre il cane correva dietro agli uccelli” 2.
Ogni aspetto della natura che si riesce a cogliere o rievocare, e soprattutto il cielo, un “cielo pacifico”, come ha scritto Yeva in più passi del suo diario, sono brevi respiri di pace, presto soffocati da eventi traumatici.
“Quando ho visto tutta la distruzione causata dalle bombe alle case, come alle strutture metalliche, mi sono reso conto di quanto fossero alte le mie possibilità di morire. Nessun gioco, nessun film ti prepara a queste sensazioni. Ero davvero terrorizzato” (ragazzo,18 anni).
“Mi sentivo perduta. Non riuscivo a capire cosa stesse succedendo” (bambina, 10 anni).
Il panico dei bombardamenti, la vita nelle cantine, i fratelli e le sorelle più piccole da confortare, poi la partenza improvvisa, senza neppure fare le valigie, la visione delle colonne delle persone ai posti di blocco. Sono spesso i cani, percepiti come protettori, ad infondere un senso di calma e di sicurezza; essi sono sempre all’erta, in grado di cogliere ogni minimo rumore e di avvertire del pericolo. Durante la fuga ci si deve preoccupare per loro e prendersene cura allevia l’ansia. Poi l’arrivo nei paesi di accoglienza, il sollievo, ma anche lo spaesamento.
“Non riesco a capire i miei sentimenti (bambina, 11 anni)”.
“Mi sento una idiota perché non riesco ad esprimermi adeguatamente, non riesco a fare una battuta che ho nella mia testa in ucraino” (ragazza, 17 anni).
Incapaci di frequentare la scuola, di concentrarsi, esprimersi e farsi degli amici, si sentono oppressi dalla nostalgia, perseguitati da ricordi e da sogni ricorrenti e angosciosi, ma anche colmi di rabbia:
“Non mi fido più di nessuno, solo dei miei amici più stretti” (ragazzo, 18 anni);
“Non mi posso riconciliare con l’orrore che sta accadendo” (ragazzo, 17 anni).
Solo in quattro casi i giovani testimoni hanno manifestato accettazione della propria condizione nel paese di accoglienza, la maggior parte , infatti, sta ancora facendo i conti con i traumi subiti, eppure nelle loro parole si coglie anche la volontà di resistere, il senso di orgoglio per essere riusciti a dominare la paura nei momenti più difficili. “L’ho considerata un’esperienza di vita” (ragazzo, 17 anni).
Ma affrontare la realtà è difficile e doloroso.
“Razionalmente – ha affermato un ragazzo di 17 anni – capisco tutto, ma nello stesso tempo rifiuto di crederci […]. Noi in famiglia non ci siamo lasciati prendere dal panico, sapevamo cosa stava accadendo, ma è molto duro percepirlo seriamente”.
Da tutte le testimonianze emerge una chiara consapevolezza di ciò che può dare loro stabilità: riprendere la scuola, mantenere i contatti con i vecchi amici, intrecciare nuove relazioni, poter contare sul sostegno di genitori e insegnanti.
Alcuni si interrogano sulle cause e sulla sua conduzione. Chi esprime incredulità:
“Sono scioccato da Putin, non mi aspettavo una cosa del genere. Perché ha fatto questo?”.
Chi, come una bimba di 10 anni, confida in una forma di riparazione dopo la guerra:
“Non sono triste quando penso a Putin […] Andrò all’Aia quando sarà processato”.
E chi, riflettendo sulle responsabilità della guerra, afferma:
“Molti pensano che siano gli ucraini a distruggere le proprie città e il proprio popolo” (ragazzo di 18 anni).
Questi ragazzi e queste ragazze, a cui si guarda spesso solo come vittime, rivelano rare capacità introspettive, forza di resistenza, lucidità di giudizio morale e politico. Ciò che più importa nel rapporto con i giovanissimi, si legge nella conclusione dello studio, è l’ascolto che solo può aiutare a verbalizzare le loro esperienze e a farli sentire protagonisti e testimoni, testimoni di “cosa la guerra fa allo spirito umano”.
Come ha scritto Emmy Werner, studiosa dei traumi e della resilienza infantili, che da bambina ha visto la sua scuola distrutta dai bombardamenti, vissuto l’ossessione delle sirene, sofferto per la lontananza del padre prigioniero di guerra e ha perso membri della sua famiglia: “Soprattutto, noi abbiamo bisogno di ascoltare i bambini. Ci possono dire, meglio di ogni “esperto” professionista cosa la guerra fa allo spirito umano. L’hanno vissuta, indifesi e in primo piano. Hanno imparato, come ho imparato io, che la guerra non fa bene ai bambini” (Werner 2012, p. 558).
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Note
1 Il blocco navale pianificato dalla Germania e reso via via sempre più stringente, isolando la Germania e i suoi alleati dai rifornimenti alimentari, causò la morte per fame di milioni di civili, in grandissima parte bambini.
2 Il lungo resoconto dello studio non ha pagine numerate.
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[Questa pagina fa parte di Voci di pace, spazio web
di studi, documenti e testimonianze a cura di Bruna Bianchi]
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