Quando i manager del fondo di investimento finanziario Melrose, che dal 2018 gestisce la multinazionale leader nella produzione di semiassi Gkn, a inizio luglio hanno inviato un’email ai 422 lavoratori di Campi Bisenzio per licenziarli e avvertirli della chiusura a freddo della fabbrica non immaginavano certo che sarebbe nata una campagna. Già, perché intorno ai lavoratori che improvvisamente hanno occupato la fabbrica ha preso forma una protesta animata dal territorio e sostenuta da diversi pezzi di società geograficamente più lontani. Di sicuro, come ricorda qui Marvi Maggio, questa lotta comune consente ovunque di rimettere al centro alcuni principi e pratiche di un’idea diversa di lavoro, dove ad esempio i lavoratori e le lavoratrici hanno sempre voce in capitolo su ogni scelta delle imprese, dove i finanziamenti alle aziende si trasformano in sostegno a possibili autogestioni dei lavoratori, dove non è il mercato, che produce per il profitto, a orientare le scelte, ma i bisogni sociali di un territorio
L’economia deve servire per rispondere ai bisogni di tutta la popolazione e deve creare condizioni di lavoro libere e soddisfacenti, per chi, lavorando, rende possibile la risposta a quei bisogni. Rispondere ai bisogni di tutta la popolazione significa fare delle scelte sulle priorità, cosa mettere al primo posto: casa per tutti, prima degli yacht e della case di lusso, servizi pubblici per la salute e per la persona, istruzione, cultura, arte, la cura del territorio, disponibilità di tutti i beni, anche tecnologici, che ci servono per rispondere ai differenti bisogni, fra cui la domanda di socialità, cultura, informazione. Significa produrre beni e servizi garantendo sempre e tassativamente che la domanda di salute, il diritto alla salute, trovi sempre risposta. Significa impedire inquinamento di aria, acqua e suolo. Significa un rapporto sinergico fra insediamento umano e ambiente, garantendo sempre il rispetto delle libertà e della creatività di chi lavora.
Il problema non è solo la pochezza dei desideri dei ricchi, ma la domanda deve essere, come hanno fatto ad arricchirsi. Prima di tutto lo hanno fatto appropriandosi di una quota smisurata di quanto è stato socialmente prodotto, lasciando sempre di meno a chi lavora e a chi è produttore e curatore dei beni comuni. Poi lo hanno fatto non pagando che una quota irrisoria del valore reale e sociale delle risorse naturali (free gift of nature) e non pagando il vero valore del lavoro ma solo una quota irrisoria di esso (free gift of human nature). Lo hanno fatto imponendo prezzi da monopolio, come le grandi case farmaceutiche. È arrivata l’ora di chiedere conto.
Un disegno di (Z)ZeroCalcare per la mobilitazione del 24 luglio, promossa dal Collettivo Di Fabbrica – Lavoratori Gkn Firenze
Lo scandalo degli yacht e delle case di lusso o dei viaggi nello spazio è prima di tutto che qualcuno abbia accumulato una enorme quantità di ricchezza da sperperare: spesso lo ha fatto sfruttando i lavoratori, inquinando e depredando beni comuni, avvelenando le falde acquifere e i terreni, l’aria. Lo ha fatto gestendo imprese o investendo sulle loro azioni sul mercato internazionale, individualmente o cooperando con altri in specifici fondi di investimento. Ce ne accorgiamo quando quelle stesse imprese che si sono arricchite sulla nostra pelle, di fronte a regole a favore dell’ambiente e a garanza della nostra salute imposte dalla UE, affermano che così non hanno i margini di profitto necessari e quindi hanno bisogno del sostegno dello stato. È una dichiarazione di colpevolezza: si sono arricchiti proprio non pagando il prezzo dell’inquinamento, che comunque non ha prezzo. Se così è, vuol dire che questa economia non deve più trovare sostegno e avere spazio in una società civile. Si parla di creatività e innovazione, ma a pagare poco i lavoratori, de-localizzando, e a depredare risorse non ci vuole molta creatività.
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Sgravi, finanziamenti, tasse ridotte, erogazione di elettricità, gas e acqua a prezzi di favore per le imprese, devono finire. Le priorità, prima la risposta ai bisogni sociali fondamentali di valore d’uso da parte di tutti, e le condizioni, nel rispetto dei diritti dei lavoratori, della salute di tutti e della natura non umana, devono essere poste in modo tassativo. Ci vuole una nuova economia, non più fondata sul valore di scambio e sul profitto. L’economia non è autonoma, vive grazie al sostegno regolamentare degli stati e dei finanziamenti pubblici, diretti e indiretti. Le regole dello stato dalla fine degli anni Settanta fino ad ora, si sono preoccupate di abbassare il costo del lavoro, in nome dello sviluppo economico che poi sarebbe stato a vantaggio di tutti, cosa che non si verifica mai. E ancora di più non si verifica oggi, in una economia in cui estesi settori hanno bisogno di sempre meno mano d’opera (sviluppo senza lavoro) e dove la domanda locale e nazionale può essere sostituita da quella internazionale. Hanno limitato il diritto di sciopero, in particolare nei servizi, ma non hanno limitato il potere dei datori di lavoro di sfruttare e prevaricare, anzi, lo hanno sostenuto, per esempio permettendo il licenziamento senza giusta causa e il lavoro precario a vita. In questo modo hanno tolto il potere contrattuale al lavoratore, che per avere da vivere è costretto ad accettare condizioni sempre più inumane. Poter licenziare significa per il datore di lavoro poter ricattare di farlo, imporre paghe inferiori e meno diritti. La stessa tecnologia che avrebbe potuto liberare dal lavoro routinario e di fatica in favore della libera espressione umana e della soddisfazione per il lavoro che si fa, è stata scientemente usata per ridurre enormemente il numero di lavoratori in molti settori e aumentare quell’esercito di riserva, i disoccupati, così utile per ricattare chi il lavoro ce l’ha e indurlo a piegare la testa. Il rischio di licenziamento come mezzo per disciplinare la forza lavoro. Vecchia storia. Il ruolo dello stato nel garantire i rapporti di forza fra padroni e lavoratori è determinate. Si parla anche di nesso fra stato e finanza, perché lo stato nei periodi di crisi si è fatto garante della finanza e ha pompato enormi quantità di finanziamenti in suo favore, finanziamenti che non ci sono mai per i lavoratori e per le pensioni. Le revolving doors (porte girevoli, cioè da politici a manager per esempio) raccontano una storia di rapporto stretto fatto di uomini e donne della finanza e dello stato.

Si parla di fondi immateriali, ma la corsa a comperare le azioni del fondo in attesa del rialzo conseguente ai licenziamenti, la tanto sbandierata ristrutturazione fondata sulla riduzione del costo del lavoro, magari con delocalizzazione dove il costo del lavoro è più basso, è opera di persone in carne ed ossa. Queste operazioni di sciacallaggio devono essere rese impossibili.
Che fare? Cambiare le regole del gioco. Prima di tutto rendere impossibile per legge calpestare i diritti dei lavoratori: una economia che funziona distruggendo le vite delle persone non ha diritto di esistere. Questo comporta cambiare le regole: da quelle in favore del capitale a quelle in favore dei lavoratori. Mai come oggi è chiaro che ogni ipotesi di interessi comuni fra imprese e lavoratori è fuori luogo. Il programma è semplice: imporre che i lavoratori abbiano sempre voce in capitolo con un giudizio non derogabile su ogni scelta delle imprese; bloccare per legge i licenziamenti e comunque sottoporli sempre al giudizio preventivo di ammissibilità da parte dei lavoratori stessi (non di loro rappresentanti, ma di tutti i lavoratori); bloccare qualsiasi finanziamento delle imprese e dirottarlo a sostegno diretto dei lavoratori e di possibili autogestioni, e finalizzarlo alla risposta diretta alla domanda di valore d’uso della popolazione nel suo complesso, senza la mediazione del mercato che si è dimostrato inaffidabile perché risponde solo alla domanda solvibile e produce per il profitto e non per rispondere ai bisogni sociali; requisizione delle imprese che non rispettano le regole a favore dei lavoratori.
Le leggi e le regole che hanno nel corso degli anni ridotto il costo del lavoro ed eroso i rapporti di forza a favore dei lavoratori devono essere sostituite da leggi e regole a favore dei lavoratori, che riconoscano il loro ruolo nella produzione di beni e servizi e il loro pieno diritto di determinare le scelte.
Non è possibile in questa società? Allora cambiamola.
Marvi Maggio, INURA (Internationa network for urban research and action); COBAS Regione Toscana, membro del coordinamento RSU Regione Toscana
Marvi Maggio, condivido appieno la tua analisi e il tuo programma, anche se con la realtà politica odierna, sempre più protesa anche a sinistra verso un neoliberismo globale, è più un’utopia che una fattibilità. Questo però, ai miei occhi, non lo sminuisce, ma anzi lo nobilita, perché ogni vera rivoluzione passa sempre per un’utopia.
Ciao, mi fa molto piacere che tu condivida. Le utopie sono anche possibilità che si aprono, e che come tali fanno parte della realtà…
Cara Marvi. Quanto vai dicendo è condivisibile ma c’è un “MA” assai grosso.
Sei in scarsa compagnia, da operaio addetto ad assistenza tecnica industriale ho conosciuto tane fabbriche e strutture lavorative del terziario e posso dirti che la maggioranza dei lavoratori è capitalista nell’ animo, incoscientemente, e questo ha sconfitto il socialismo. Vale anche per i migranti che su questo non cambieranno una virgola a parte lottare come noi, decine di anni fa, privilegiando aumenti salariali. ed a proposito della trasformazione delle aziende in coperative credo ia ancor in vigore la legge Marcora e abbiano anche fatto una variante nuova. il punto è anche che lo stato non ha più enti di finanaza propri ma al massimo pertecipati e quindi si ricasca nele logiche di imprese, privata e di profitto. Non c’è scampo
Ciao, con il tuo “ma” poni una questione cruciale, e così facendo apri una discussione molto importante. Il mio sforzo è stato di evidenziare che le domande che poniamo (questione ambientale, disoccupazione, povertà, cioè gli effetti dello sfruttamento capitalistico) possono trovare risposta solo non ricalcando la brutta piega che ha preso la nostra società, che è tornata indietro su molti diritti che sembravano acquisiti. “Non c’è alternativa” inventato da Margaret Thatcher per sconfiggere la mitica forza della classe lavoratrice inglese, è una invenzione, non certo una realtà. Lei l’ha costruita e resa reale, con specifiche politiche. Chi vuole risolvere i problemi sociali e ambientali in una direzione di maggiore giustizia deve indicarne altre di politiche. Se si vuol risolvere la questione ambientale non basta certo la falsa green economy che si limita a spostare l’inquinamento da un posto all’altro e non a risolverlo. Né ci si può agganciare alla falsa idea che tutti siamo ugualmente responsabili del disastro ambientale e dobbiamo rinunciare a quello che abbiamo avuto fino ad oggi. (Ma cosa abbiamo avuto? Piuttosto cosa non abbiamo avuto). Ci sono differenze di classe enormi. Non siamo tutti responsabili: per differenza nei consumi e per potere decisionale sulle scelte produttive ed estrattive e non ultimo per i vantaggi che non traiamo da quelle scelte (arricchimenti). Così ho portato alle estreme conseguenze: non ragionare sui “bisogni delle imprese” come fa l’economia e la politica oggi (!!) ma sui bisogni della popolazione a cui si deve rispondere (economia dell’offerta / economia della domanda); non lasciare che sia il mercato a decidere cosa produrre e invece decidere collettivamente, con la razionalità sociale e ambientale, cosa, come, quanto e dove produrre, nel rispetto di chi lavora e nel rispetto della natura- ambiente. E’ una questione che dovrebbe essere ovvia e che fa parte del patrimonio delle lotte per una società equa e giusta che si sono dipanate nel tempo lungo della storia. Si parla di questione ambientale, sociale e ci sono modi che risolvono i problemi e modi che li spostano solo da una parte all’altra (del territorio, del globo). Il possibile fa parte del reale, va guardato anche dove non vogliono che si guardi: c’è ovviamente chi ha interesse che tutto resti come è. Infine ci saranno sempre persone conniventi con il potere, ma ci sono anche quelle che vogliono ben altro che essere compartecipi supine della distruzione sociale e ambientale, semplicemente perché pretendono la felicità e la libertà, non quella delle imprese e delle classi dirigenti, ma quella di tutti gli altri. Aggiungo che le persone in certe situazioni come quelle gerarchiche competitive di molti posti di lavoro, tendono a dare il peggio di sé. Nelle lotte per la trasformazione invece tendono a dare il meglio di sè. Faccio l’esempio recente, ma ne potrei fare tanti altri, dell’aria che si respirava proprio durante la manifestazione Insorgiamo! Indetta il 24 luglio a Campi Bisenzio dal lavoratori della GKN: vicinanza, solidarietà, comunanza e un intento comune.
Alla prossima lotta!
Sintetizzando al massimo: uno schiavo per liberarsi deve essere disposto a rischiare la vita; il confine di quanto uno si senta schiavo (falsamente protetto dal padrone) e quanto vale la pena di rischiare è la linea sulla quale chi amministra il potere cammina.
Il potere lo si combatte con la forza, io muoio…ma anche tu.