Qualcuno sostiene di praticare l’educazione diffusa ma in realtà si tratta spesso solo di timide uscite dal seminato istituzionale. Scrive Giuseppe Campagnoli, tra i primi firmatari del Manifesto dell’educazione diffusa (pubblicato su Comune): “Educazione diffusa significa ribaltare lentamente ma decisamente i paradigmi fondamentali dell’educazione… verso l’esperienza, la ricerca, l’erranza, l’apprendimento incidentale istintivo e ricco di emozione e verso la creatività, la passione e il coinvolgimento…”. Una prospettiva che implica atti di rottura e la cooperazione di diversi attori del territorio

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Educazione diffusa non vuol dire uscire ogni tanto dalle scuole per fare più o meno le stesse cose che si facevano nelle aule, nelle aule speciali, nei laboratori, come non vuol dire spostare banchi e sedie e metterli in circolo, a zig zag, uno sopra l’altro e neppure intensificare la perniciosa “progettite” di una pletora di attività esterne estemporanee e spesso solamente ricreative. Educazione diffusa non significa neppure fare le cose consuete o timidamente innovative nei diversi luoghi della città così come sono, senza trasformazioni significative, senza mutamenti progressivamente radicali degli spazi, delle forme, delle loro funzioni e usi, dei loro significati. Educazione diffusa non significa sostituire la lezione frontale o altre forme di didattica più o meno avanzata con altrettante sperimentazioni che si pongono sulla stessa linea delle pedagogie imperanti nel mercato educativo (in genere di importazione nordeuropea o anglosassone), valutate sempre con entusiasmo dai classificatori ufficiali internazionali che rispondono all’imperante modello economico.
Educazione diffusa significa, invece, ribaltare lentamente ma decisamente i paradigmi fondamentali dell’educazione, dell’istruzione, della formazione, dell’insegnamento e dell’apprendimento verso l’esperienza, la ricerca, l’erranza, l’apprendimento incidentale istintivo e ricco di emozione verso la creatività, la passione e il coinvolgimento, gli unici che in fin dei conti restano non solo nella memoria ma nel nostro io più profondo e permanente.

Qualcuno sostiene di aver praticato o di praticare nel suo contesto l’educazione diffusa ma in realtà si tratta spesso solo di timide uscite dal seminato istituzionale, comunque tollerate e digerite ampiamente da tutto il sistema del controllo dell’istruzione, che a volte si spinge anche a concedere premi e riconoscimenti perché sa bene che comunque tali pratiche (spesso considerate “best practices”) cambieranno poco o nulla dell’apparato educativo ideale per questo tipo di società del consumo totale e universale.
Altri credono – tra i quali molto frequenti gli esperti e docenti delle discipline scientifiche e matematiche (che, paradossalmente, sono stati proprio i primi nella scuola italiana, a godere di insegnamenti universitari di didattica specifica) – che non si possa, per il successo scolastico e professionale, prescindere assolutamente da un insegnamento basato sulla propedeuticità, sulla rigida progressione delle nozioni, sulla ripetizione e sulla restituzione pedante dei saperi, sull’esercizio matto e disperatissimo, proprio in genere delle sole prestazioni materiali e fisiche.

Occorre svuotarsi di tantissimi stereotipi e cattivissime abitudini, pensare che la nostra mente non può essere costretta dentro schemi e paratie più o meno stagne perché essa agisce in tutte le direzioni simultaneamente e che tutti i linguaggi hanno eguale dignità e importanza in questo contesto, senza gerarchie o classificazioni. Il resto viene da sé: la passione, il talento, l’apprezzamento e l’uso di ciò che si è appreso interessandosi, agendo, coinvolgendosi, risolvendo problemi e contribuendo a trasformare e far crescere la città e l’ambiente in ogni suo aspetto ritornando a farne parte attiva in ogni età della vita.

Nel corpus del Manifesto della educazione diffusa, ma soprattutto nelle sue appendici e nei modelli suggeriti o nei racconti di ciò che si sta realmente facendo con coraggio e impegno in questa direzione, c’è la spiegazione di che cosa realmente possa essere l’educazione diffusa e di come si possa cominciare a praticarla. Nel volume in uscita da Terra Nuova Edizioni di Firenze (che ho curato con Paolo Mottana, Educazione diffusa. Istruzioni per l’uso) c’è un approccio concreto agli strumenti possibili che potranno e dovranno essere approntati e predisposti facendo anche tesoro di tutte le altre esperienze pedagogiche innovative e rivoluzionarie che nel tempo hanno provato a mutare radicalmente i concetti di educazione e istruzione, per far sì che, comunque sia, anche se in forme, tempi e luoghi diversi, non vengano meno i saperi indispensabili alla vita e alle sue diverse forme, soprattutto di relazione e di comunità , immerse in una società che deve cambiare, in modo attivo e partecipe. C’è l’indicazione di come non si possa assolutamente fare meno dell’esperienza quotidiana diffusa e di un ripensamento globale della città, dei territori e delle loro architetture, dell’abitarli e viverli.
Nell’educazione diffusa infatti c’è l’idea di come, nel tempo ma in modo deciso e senza compromessi, si debba fare a meno dell’edilizia scolastica a favore dell’uso di portali collettivi (ben descritti nel testo) e che introdurranno e faranno da basi per il diffondersi nella città educante. Anche per questo sono irrinunciabili il sodalizio culturale e la sintonia politica (quella nobile) tra il mondo della scuola pubblica, quello delle amministrazioni illuminate, dell’associazionismo culturale, sociale e del volontariato, dell’architettura e dell’educazione nonché di tutti i cittadini coraggiosi e consapevoli. Non vi sarà educazione diffusa se non si agisce, senza compromessi, timidezze o ipocrisie, sull’attuale modo di pensare la scuola, la società e il territorio che li ospita. Tutto questo comporta per forza una serie di atti contrari ma finalmente positivi. Non è facendo finta di innovare quello che c’è, perché resti alla fine tale e quale, che si potrà oltrepassare questa scuola come è nelle nostre idee.
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Architetto, Giuseppe Campagnoli è stato docente e dirigente scolastico ed è autore di saggi su scuola, architettura, costume. Con Paolo Mottana ha scritto La città educante. Manifesto della educazione diffusa (Asterios) ed è tra i primi firmatari del Manifesto dell’educazione diffusa pubblicato su Comune. Ha aderito alla campagna di Comune Un mondo nuovo comincia da qui.
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