Si chiama Coal Policy Tool, è stato promosso da molte Ong internazionali e serve a valutare e confrontare le politiche delle banche e delle istituzioni di tutto il mondo sui servizi finanziari destinati al carbone. Copre 30 paesi, dall’Australia agli Stati Uniti, passando anche per l’Italia. Sono solo 16 quelle che hanno scelto di farla finita con la fonte di energia più insostenibile, mentre 200 continuano come niente fosse. In Italia, secondo le organizzazioni ambientaliste, è Intesa Sanpaolo a destare le maggiori preoccupazioni
Uno strumento online per identificare, valutare e confrontare le politiche adottate dalle istituzioni finanziarie di tutto il mondo per limitare o porre fine ai loro servizi finanziari destinati al settore del carbone. È quanto ha lanciato oggi l’organizzazione Reclaim Finance, in collaborazione con Greenpeace, Re:Common e altre 24 Ong internazionali. Il “Coal Policy Tool”, il primo nel suo genere, valuta le politiche relative agli investimenti nel settore del carbone da parte di 214 istituzioni finanziarie su una griglia di punteggio coerente e trasparente.
Grazie al tool è possibile individuare quali grandi banche, riassicuratori, imprenditori e gestori patrimoniali non hanno ancora adottato provvedimenti per abbandonare il carbone. Lo strumento, che sarà aggiornato in tempo reale, copre 30 paesi, dall’Australia agli Stati Uniti, passando anche per l’Italia.
Secondo l’analisi del Coal Policy Tool, solo 16 istituzioni finanziarie – tra cui giganti del settore come AXA, Crédit Agricole/Amundi, Crédit Mutuel e l’italiana UniCredit – hanno una solida politica di eliminazione graduale del carbone. La maggior parte rimane ancora troppo debole per impedire un’ulteriore crescita del settore.
Per rispettare l’obiettivo di mantenere l’aumento medio della temperatura globale al di sotto di 1,5 gradi Centigradi, le istituzioni finanziarie non devono solo porre immediatamente fine a tutti i finanziamenti a livello di progetti specifici ma anche alle aziende, in prima battuta quelle con piani di espansione nel settore del carbone. Tutti gli asset di carbone esistenti devono essere progressivamente chiusi e non venduti. Le istituzioni finanziarie devono impegnarsi a portare a zero la loro esposizione al carbone entro il 2030 in Europa e nei paesi dell’OCSE e al più tardi entro il 2040 negli altri paesi.
In Italia la posizione di avanguardia spetta a Unicredit, che ha di recente deciso di adottare una politica che porti progressivamente fino a zero, entro il 2028, qualsiasi finanziamento a progetti e società coinvolte nel business del carbone.
«Generali continua invece a essere fortemente legata al carbone ceco e polacco delle società CEZ e PGE, le cui centrali e miniere si stima causino oltre 1.800 morti premature in Europa ogni anno e un costo sanitario annuo pari a 5,3 miliardi di euro», commentano Greenpeace e Re:Common. «In questa maniera, l’attenzione all’emergenza climatica e alla salute dei cittadini dichiarata dalla compagnia triestina resterà poco più che uno slogan».
Ma, secondo le organizzazioni ambientaliste, è Intesa Sanpaolo a destare le maggiori preoccupazioni. L’istituto torinese è stato l’ultimo a dotarsi di una politica volta a escludere progressivamente il sostegno finanziario al settore del carbone. Una mossa tardiva, che manca peraltro di ambizione e credibilità, come sottolineano le due associazioni.
«La policy di Intesa è tra le più deboli a livello europeo, come si evince dal Coal Policy Tool. Continuerà persino a finanziare quelle società che ancora oggi prevedono di realizzare nuove centrali a carbone, nonostante gli appelli della scienza e delle Nazioni Unite a porre immediatamente una moratoria su questi impianti». Una posizione, quella di Intesa, che per Greenpeace e Re:Common è assolutamente inaccettabile.
Articolo pubblicato grazie alla collaborazione con Re:Common
Lascia un commento