Magari nessuno se lo ricorda più ma nel 1945 alle Nazioni Unite fu assegnata una missione (piuttosto improba, per la verità): mantenere la pace e la sicurezza internazionale; sviluppare relazioni amichevoli tra le Nazioni; promuovere migliori condizioni di vita, il progresso sociale e la tutela dei diritti umani. Parecchi decenni dopo, difficile trovare un’istituzione internazionale più disattesa, sabotata, screditata e avviata a un mesto declino. L’ultima sessione dell’Assemblea generale, tenuta a New York dal 18 al 22 settembre, quella che in Italia sarà ricordata per il primo, indimenticabile discorso di Giorgia Meloni, era intitolata “Ricostruire la fiducia e ravvivare la solidarietà globale: accelerare l’azione per realizzare l’Agenda 2023 e i suoi obiettivi di sviluppo sostenibile per la pace, la prosperità, il progresso e la sostenibilità per tutti i popoli”. Molti degli analisti, quelli più inclini all’arte dell’eufemismo, l’hanno giudicata “fiacca” – come ci segnala Gianfranco Laccone, che ne trae spunto per mettere a fuoco qualche nota a margine sulla grande confusione che c’è sotto il cielo. Confusione che però, diversamente dal contesto di cui si rallegrava il Grande Timoniere cinese, non segnala certo una situazione ecellente. Tutt’altro. Nei fatti, oltre trent’anni dopo la caduta del muro di Berlino, sostenere che i governi del mondo e le istituzioni internazionali stanno lavorando per la convivenza sul pianeta equivale più o meno a pensare di poter svuotare gli oceani con un paio di damigiane. Eppure, come sempre, tutti fingono di crederci

Sempre più aumentano i segnali del cambiamento: occorre prenderne atto e cercare di trovare il modo migliore per convivere sul pianeta: noi, animali, piante.
La sessione dell’Onu conclusasi recentemente ci offre lo spunto per alcune considerazioni a partire dal tema della discussione di quest’anno (“Ricostruire la fiducia e ravvivare la solidarietà globale: accelerare l’azione per realizzare l’Agenda 2023 e i suoi obiettivi di sviluppo sostenibile per la pace, la prosperità, il progresso e la sostenibilità per tutti i popoli”) e di come essa sia stata variamente interpretata dai diversi Paesi.
Il dato più importante, purtroppo, è l’ulteriore caduta di credibilità di questa istituzione, passata in secondo piano, anche nelle cronache internazionali, dopo il G20 di pochi giorni prima. In quest’ultimo si erano resi evidenti i segnali di mutamento delle relazioni tra Paesi (il mancato invito dell’Ucraina da parte dell’India – paese ospitante –, compensato dalla assenza fisica di Russia e Cina); al termine, il comunicato finale ridimensionava il conflitto in Europa, considerata una tra le diverse guerre nel mondo, ribadendo, ma in realtà rendendoli più vaghi, i concetti di sovranità e autodeterminazione.
Insomma, grande è la confusione sotto il cielo: gli USA – vincitori dello scontro con l’URSS – non riescono dopo trent’anni ad affermare una egemonia, anzi il “ko tecnico per abbandono” subito in Afghanistan è stato un segnale opposto, e il loro contendente economico mondiale – la UE – si trova in crisi, affiancata da altre “potenze emergenti” che tra loro discutono persino di una possibile moneta comune. Ulteriore segnale, ancora poco sottolineato, è stata l’ammissione nel G20 dell’Unione Africana (UA, comprendente 55 stati del continente), fortemente osteggiata da una parte del raggruppamento (Australia, Canada, Argentina, Messico, Corea del Sud, Arabia Saudita e Turchia). L’Africa inizia a non essere più un fantasma nel sistema di relazione mondiale non solo per la presenza nei vertici di molte istituzioni internazionali di persone provenienti da Stati africani, ma per una soggettività che, pur con grande difficoltà, si avvia a prendere forma.
Ma la situazione non è eccellente: prende forma un sistema di relazioni che privilegia quelle bilaterali o per aree delimitate, alle relazioni globali dei grandi sistemi che hanno fallito anche nel tentativo di governo commerciale attraverso il WTO, su cui tutti i fautori dell’economia di mercato avevano puntato trent’anni or sono per giungere a coordinare il sistema globale. L’attuale “guerra del grano” sul mar Nero ne è la dimostrazione più lampante: il WTO (Organizzazione mondiale del commercio) nasce dopo l’accordo sull’agricoltura e il commercio alimentare che completarono così il GATT (Accordo generale sulle tariffe e sul commercio), trasferendo le regole delle transazioni finanziarie nel mercato dei prodotti agricoli ed avviando un meccanismo di regolazione delle controversie che tendenzialmente evitasse che le guerre commerciali si trasformassero in conflitti veri e propri.
In Ucraina, invece, una controversia di natura territoriale (non controllata dall’ONU e “dimenticata” da quanti oggi si “interessano” al conflitto) è sfociata in uno scontro allargato con l’invasione da parte della Russia, trascinando dietro tutti quegli strumenti (embarghi, limitazioni nel trasferimento di capitali, limitazione della libertà, deportazioni, violazione dei diritti umani e degli accordi) che i meccanismi messi in piedi negli ultimi trent’anni avrebbero dovuto evitare o risolvere rapidamente. In un effetto a catena, le conseguenze hanno raggiunto i luoghi più distanti e le popolazioni più diverse, accomunate dal mercato globale. Un mercato che è impossibile ridimensionare anche con le più rigorose politiche autarchiche ed in cui non si ha chiarezza su come superare l’insufficiente autonomia dei singoli Stati (si rivendica l’autonomia locale, ma poi per risolvere i problemi ci si rende conto che è necessario una aggregazione sovranazionale con poteri sovrani).
L’Unione Europea e tutti i Paesi del continente non sono usciti bene da una sessione dell’ONU che tutti gli analisti hanno considerato “fiacca” e che vede svolgersi altrove i giochi politici sui problemi in discussione.
Essi non hanno brillato per innovazione anche terminologica e l’impressione è stata di ripetere l’occidentalismo egemonico attraverso una “democrazia di facciata”, che è la causa principale dell’impasse dell’ONU. Sul cambiamento climatico, infine, si aspettano i risultati delle elezioni 2024 per capire dove andrà a finire ciò che resta degli obiettivi dell’Agenda 2030.
Dello stesso tenore sbagliato mi è sembrato il riaffermare la necessità di aiuto all’Africa, come se questo non accadesse da sempre (più correttamente definibile come colonialismo), e ponesse ai neoliberisti al governo un po’ dappertutto (in Europa e altrove), lo stesso problema che si pone per gli aiuti alle zone svantaggiate: non “sprecare” le risorse in luoghi considerati disastrati ed allocarle invece dove è più conveniente. Magari sarebbe stato più attuale parlare di cooperazione ad alto livello, dialogando con le strutture che guidano le economie mondiali, considerando, en passant, che alcune di esse come il WTO sono guidate da una donna (nigeriana) in precedenza la numero due della Banca Mondiale.
Ma più ancora mi ha colpito il modo in cui si sono accusate reciprocamente le parti coinvolte nel conflitto ucraino. In un precedente articolo (crf https://comune-info.net/cibo-energia-e-guerra/) avevo messo in evidenza la difficoltà nell’utilizzo dell’embargo come arma contro il nemico: spesso, in un sistema di relazioni multilaterali, le politiche contro il “nemico” ritornano indietro come un boomerang. Gli europei, italiani in primis, lo sanno bene per quanto riguarda il prezzo del petrolio e del gas, dopo il blocco del commercio con la Russia.
Per quanto riguarda poi il commercio del grano, l’elenco dei principali Paesi produttori a livello mondiale, vedi Cina, India, Russia, seguiti dalla UE, USA, Canada e poi anche Australia ed Ucraina. Se invece si facesse l’elenco dei Paesi esportatori a livello mondiale, l’elenco vedrebbe in testa la Russia, seguita dalla UE (Francia, Romania e Germania), dal Canada, dagli USA e dall’Ucraina.
Insomma, non ci sono Paesi dell’Africa in campo in questa controversia che vede invece impegnate tutte le potenze economiche coinvolte direttamente nel conflitto che gestiscono il commercio del grano. I Paesi africani, invece, risultano i principali importatori, in testa l’Egitto, vittime di un conflitto su cui non hanno possibilità di intervento.
Anche per l’Egitto possiamo parlare di un caso esemplare, a causa degli effetti secondari (non previsti) che si realizzano qualche decennio dopo l’avvio delle “politiche di sviluppo”. Da essere stato in epoca imperiale romana il granaio dell’impero grazie alle provvidenziali alluvioni del Nilo, ha perso dagli anni Sessanta del secolo scorso questa prerogativa, a seguito della costruzione della diga di Assuan e della trasformazione economica. La “rivoluzione verde” ha permesso una irrigazione diffusa e la produzione di colture ortofrutticole, cerealicole e tessili ad alto rendimento, da esportare, e la creazione di un sistema industriale. Insomma, l’acqua ha seguito altre strade ed oggi un qualunque embargo alimentare pone problemi a questo grande e popoloso Paese per l’approvvigionamento ridotto del cereale di base per la sua alimentazione.
Ma, a mio avviso, l’aspetto più evidente è l’eurocentrismo dello sguardo dei politici continentali: per quanto si muovano su piani diversi (dallo sguardo tedesco verso la riforma delle relazioni multipolari, al complesso intervento francese volto a dare risposta alle carenze del sistema sociale mondiale, a quello a nome della UE che ha posto la necessità di avere un maggiore equilibrio delle relazioni internazionali e meno distanze sociali accanto alla soluzione dei conflitti bellici), tutti gli interventi giungono, infine, a porre il “problema” dei migranti, sino a chiedere, con l’intervento italiano, persino un impegno internazionale delle stesse Nazioni Unite per questa lotta.
Che dire? Dinanzi alle guerre che sembrano aumentare nel mondo ed alla incapacità degli “occidentali”, sintomo di una ridotta egemonia globale, di fare del loro conflitto Russo-Ucraino un problema superiore a quello di altri conflitti, a partire da quelli in medio-oriente, lo spostamento dell’attenzione sulle migrazioni, che è chiaramente un problema derivato da altri (cambiamenti climatici, guerre, crisi economica) ha ricevuto una fredda – per non dire scettica – accoglienza da parte del consesso.
Perché, se i problemi sono altri, occorre risolverli a partire dalle guerre per evitare le situazioni di “crisi umanitaria” e se invece il problema è specifico perché gli altri non sono risolvibili, la prima risposta è facilitare e rendere legale e trasparente il viaggio: istituire presso le ambasciate degli appositi uffici, dotare le persone di documenti prima della partenza (garantendo la sicurezza), fornire i mezzi di trasporto per giungere nei Paesi d’arrivo (rivitalizzando questo settore in perenne crisi).
Ma forse questo modo di pensare appartiene solo a pochi eletti: alcuni sognatori, gli alieni trovati in Perù, il Papa.
Versione francese
La convivance, cette inconnue
Réflexions sur la dernière AG de l’ONU
https://tlaxcala-int.blogspot.com/2023/09/gianfranco-laccone-la-convivance-cette.html