Alcuni gruppi ambientalisti raccolgono ogni anno montagne di soldi sulla base della promessa che questi fondi saranno spesi sul lavoro per prevenire il riscaldamento globale. Molte organizzazioni ambientaliste (Nature Conservancy, Wwf Usa, Wildlife Conservation Society…) hanno spesso mentenuto quote del capitale delle industrie petrolifere e del gas. Di fatto, hanno contribuito a spingere il movimento per il clima verso vicoli ciechi: la compravendita dei certificati per il carbone, il gas naturale come un «fattore energetico ponte». Queste e altre politiche, spiega Naomi Klein, avevano l’obiettivo di creare l’illusione di fare dei progressi, invece hanno permesso alle multinazionali delle energie fossili di mantenere in funzione le miniere, le perforazioni e l’estrazione di petrolio dagli scisti bituminosi. Diversi dei gruppi che più esercitavano pressioni verso queste false soluzioni hanno ricevuto ingenti donazioni dai grandi inquinatori. Per questo, in decine di città degli Stati uniti, soprattutto nelle università, sono in corso grandi proteste, dibattiti e sit-in per esercitare pressioni sui dirigenti affinché liberino i loro patrimoni dai titoli delle imprese del petrolio, del gas e del carbone. Il movimento ha cominciato ad allargarsi anche in Europa.
di Naomi Klein
Il movimento che chiede agli enti di interesse pubblico di ritirare i loro investimenti dalle fonti energetiche fossili è a un serio punto di svolta. Conflitti sono iniziati in più di cento tra città e Stati degli Stati uniti, così come in più di trecento università, dove gli studenti stanno organizzando proteste, dibattiti e sit-in per esercitare pressioni sui dirigenti affinché liberino i loro patrimoni dai titoli delle imprese del petrolio, del gas e del carbone. E sotto i vessilli del «Libera l’Inghilterra dall’energia fossile», oggi il movimento sta attraversando l’Atlantico, con crescenti pressioni programmate da «People and Planet» per questa estate.
Per quanto sia stato lanciato ufficialmente solo sei mesi fa, il movimento può già vantare alcune prime vittorie: quattro colleges statunitensi hanno annunciato la loro intenzione di liberare i loro patrimoni da azioni e titoli fossili e, alla fine di aprile, hanno reso noto impegni analoghi dieci città americane, ivi compresa San Francisco, mentre Seattle lo aveva già fatto qualche mese fa.
C’è ancora un certo numero di dettagli da precisare circa questi impegni presi, ma la velocità con la quale questa idea si è diffusa ha reso evidente che si è in presenza di una esigenza molto sentita. A tale proposito è opportuno citare le finalità enunciate dal movimento Fossil Free: «Se è sbagliato modificare il clima, è anche sbagliato trarre dei profitti da questo cambiamento. Noi siamo convinti che istituzioni educative e religiose, governi di città e di Stati e altre istituzioni che svolgono servizi per il bene delle comunità devono disinvestire dalle energie fossili». Io sono orgogliosa di aver fatto parte del gruppo delle 350 organizzazioni che hanno lavorato con gli studenti e altre realtà per far sviluppare la campagna Fossil Free. Ma oggi mi rendo conto che abbiamo trascurato un altro importante obiettivo che deve essere incluso nella lista: le stesse organizzazioni ambientaliste.
Dovete comprendere l’importanza di questo obiettivo. I gruppi verdi raccolgono ogni anno montagne di soldi sulla base della promessa che questi fondi saranno spesi sul lavoro necessario per prevenire il catastrofico riscaldamento globale. Dal canto loro, le imprese dell’energia fossile stanno facendo tutto il possibile per rendere questa catastrofe inevitabile. Secondo la Carbon Tracker Initiative, la campagna per tracciare ed eliminare il carbonio, (le cui impeccabili ricerche hanno costituito la base del movimento per il disinvestimento), il settore dell’energia fossile detiene ancora cinque volte più carbonio nelle sue riserve, che possono essere bruciate mentre noi abbiamo ancora qualche possibilità di limitare il riscaldamento ai due gradi centigradi. E’ possibile ipotizzare che i gruppi verdi dovrebbero desiderare di rendere assolutamente sicuri che i fondi, che hanno raccolto nel nome della salvezza del Pianeta, non siano investiti in imprese il cui modello di sviluppo richiede di cuocere detto pianeta, e che hanno sabotato tutti i tentativi di una seria azione in favore del clima per più di due decenni. Ma, almeno in alcuni casi, queste ipotesi erano false.
Forse quanto detto non costituirà una totale sorpresa, poiché gran parte delle più ricche e potenti organizzazioni ambientaliste hanno spesso agito come se detenessero una quota del capitale delle industrie petrolifere e del gas. Esse hanno contribuito a spingere il movimento per il clima verso diversi vicoli ciechi: la compravendita dei certificati per il carbone, le cancellazioni del carbone, il gas naturale come un «fattore energetico ponte», e ciò che tutte queste politiche avevano in comune era che esse creavano l’illusione di fare dei progressi, mentre invece permettevano alle imprese delle energie fossili di mantenere in funzione le miniere, le perforazioni e l’estrazione di petrolio dagli scisti bituminosi. Abbiamo sempre saputo che i gruppi che più esercitavano pressioni verso queste false soluzioni ricevevano delle donazioni o formavano delle società comuni con i grandi inquinatori. Ma tutto ciò veniva presentato all’esterno come un tentativo di realizzare un impegno costruttivo, utilizzando il potere del mercato per correggere il fallimento dei mercati. Oggi si vede invece che alcuni di questi gruppi sono letteralmente in parte proprietari delle industrie che causano le crisi che essi avevano come scopo di tentare di risolvere. E il denaro di cui dispongono i gruppi verdi per operare costituiscono un problema serio. Nature Conservancy, ad esempio, dispone di 1,4 miliardi di dollari ((900 mila sterline) in titoli commercializzati sul mercato e si vanta che questa sua «piggy bank» (il salvadanaio in forma di porcellino) fa parte dei «cento maggiori patrimoni del paese». La Wildlife Conservation Society, la Società per la conservazione della vita selvatica, ha un patrimonio di 377 milioni di dollari, mentre il patrimonio del Wwf Usa, Fondo per la vita selvatica mondiale, è di circa 195 milioni di dollari.
Permettetemi di essere molto chiara: la maggior parte dei gruppi verdi hanno trovato il modo di evitare questi errori. Greenpeace, 350.org, Friends of the Earth, Rainforest Action Network, e un discreto numero di organizzazioni più piccolo come Oil Change International e il Climate Reality Project, non possiedono patrimoni e non effettuano investimenti nelle Borse. Esse, inoltre, o non accettano donazioni dalle multinazionali o impongono delle restrizioni così onerose che le industrie estrattive sono con molta facilità di fatto escluse. Alcuni di questi gruppi detiene alcuni titoli di imprese energetiche fossili, ma soltanto con lo scopo di realizzare delle contestazioni nelle assemblee dei loro azionisti.
Il Natural Resources Defense Council si trova a mezza strada tra questi due tipi di gruppi. Dispone di un patrimonio di 118 milioni di dollari, e secondo il suo ufficio contabilità, per gli investimenti diretti «noi escludiamo in modo particolare le industrie estrattive, quelle delle energie fossili, e altre aree del settore energetico». Naturalmente, la Nedc continua a possedere titoli depositati presso fondi di investimento e in altri patrimoni misti che non effettuano alcuna selezione nei confronti delle energie fossili. (La Campagna Fossil Free chiede alle istituzioni di «disinvestire dalla proprietà diretta e da ogni fondo misto che comprenda titoli pubblici e titoli emessi da imprese, relativi alle energie fossili, entro un periodo di cinque anni»).
I puristi sottolineeranno che nessuno dei gruppi verdi maggiori è pulito, poiché potenzialmente ciascuno di loro ottiene del denaro da fondazioni che sono costruite sugli imperi delle energie fossili, fondazioni che continuano ancora oggi a investire i loro patrimoni nelle energie fossili. E’ una osservazione importante. Prendiamo in esame la più grande di tutte queste fondazioni: la Bill & Melinda Gates Foundation. Nel mese di dicembre 2012 aveva almeno 958,6 milioni di dollari, cioè quasi un miliardo di dollari, investiti proprio in due giganti petroliferi: ExxonMobil e BP. L’ipocrisia è impressionante: una delle massime priorità della Fondazione Gates è stata quella di sostenere la ricerca sulla malaria, una malattia strettamente collegata al clima. Le zanzare e i parassiti della malaria si sviluppano ambedue nelle stagioni più calde e quindi sono sempre più avvantaggiate dal riscaldamento globale. Ha veramente un qualche senso il combattere la malaria mentre si alimentano alcune delle cause che la fa espandere sempre più violentemente in alcune regioni?
Evidentemente no. E ha ancora meno senso raccoglier denaro con lo scopo di combattere i cambiamenti climatici, soltanto per investire questo denaro ad esempio, diciamo, in azioni della ExxonMobil. Eppure è proprio questo che alcuni gruppi sembrano fare. Conservation International, nota per le sue collaborazioni con imprese petrolifere e altri attori nefasti, (l’amministratore delegato della Northrop Grumman, nota azienda bellica, siede nel suo consiglio direttivo, per grazia di Dio), dispone di circa 22 milioni di dollari investiti in titoli commerciati sui mercati e, secondo quanto afferma un suo portavoce, «noi non abbiamo alcuna politica che proibisca esplicitamente gli investimenti nelle imprese energetiche».
Lo stesso succede nella Ocean Conservancy, che ha 14,4 milioni di dollari investiti in titoli commerciabili, che comprendono centinaia di migliaia di dollari investiti in imprese definite come «energia», «materiali» e «servizi». Un loro portavoce ha confermato per iscritto che l’organizzazione «non ha un filtro ambientale o sociale nella loro politica di investimenti». Nessuna organizzazione vorrebbe divulgare quanta parte delle loro risorse è collocata nell’energia fossile, e neppure rendere nota una lista dei suoi investimenti. Tuttavia, secondo Dan Apfel, direttore esecutivo della Responsible Endowments Coalition, coalizione di patrimoni responsabili, se una istituzione non da ai suoi dirigenti responsabili degli investimenti istruzioni specifiche di evitare di investire sulle energie fossili, essa quasi certamente si troverà a possedere alcuni loro titoli, semplicemente perché queste azioni (ivi comprese quelle relative all’utilizzazione di carbone) rappresentano il 13% del mercato statunitense, come emerge da uno degli indici più noti. «In pratica, tutti gli investitori possiedono titoli delle imprese energetiche fossili – dice Apfel – Non si può essere un investitore senza essere presente sul mercato delle energie fossili, a meno che non si lavori duramente e con continuità per garantire di non possederne».
Un altro gruppo che risulta essere molto lontano dal disinvestire è la Wildlife Conservation Society, società per la protezione della vita selvatica. La sua relazione al bilancio per l’anno 2012 descrive una sottocategoria di investimenti che comprende «energia, estrazione mineraria, perforazioni petrolifere, e attività economiche in agricoltura». Quanta parte dei 377 milioni di dollari di patrimonio di WCS è stata impiegata in imprese per l’energia e per le perforazioni petrolifere? Non ha voluto fornire questa informazione, malgrado gli sia stata richiesta molte volte.
Il Wwf Stati uniti mi ha detto che loro non investono direttamente nelle grandi società, ma si è rifiutato di rispondere alle domande relative al fatto se essi applicano degli schemi di selezione ambientale ai loro fondi misti di grandi dimensioni. Il patrimonio della Federazione Nazionale della Vita Selvatica usava applicare dei filtri protettivi ambientali per i suoi 25,7 milioni di dollari di investimenti in titoli commercializzati, ma oggi, secondo un portavoce, egli dice ai dirigenti responsabili per gli investimenti di «cercare delle imprese, prime nella loro categoria, che hanno realizzato attività di conservazione, ambientali e sostenibili». In altre parole, non si tratta di una politica di disinvestimento dalle industrie dell’energia fossile. Nel frattempo, Nature Conservancy, – la più ricca di tutti i gruppi verdi – dispone di almeno 22,8 milioni di dollari investiti nel settore energetico, da quanto risulta dal loro rapporto finanziario per il 2012. Analogamente a quanto fatto da Wcs, la Tnc si è risolutamente rifiutata di rispondere a tutte le mie domande o di fornire qualunque ulteriore dettaglio sulle sue proprietà o sulle sue politiche.
Sarebbe comunque stato abbastanza sorprendente scoprire che Tnc non avesse investito nelle energie fossili, visti i suoi diversi contatti con il settore. Solo alcuni piccoli esempi: nel 2010, il Washington Post ha riferito che la Tnc «ha accettato quasi 10 milioni di dollari in contanti e contributi in terreni da Bp e dalle sue imprese collegate»; fa registrare Bp, Chevron, ExxonMobil e Shell tra i membri del suo Business Council; Jim Rogers, amministratore delegato della Duke Energy, una delle maggiori imprese Usa che bruciano carbone, siede nel suo comitato amministrativo; e gestisce numerosi progetti di conservazione affermando di «cancellare» le emissioni di carbonio delle imprese petrolifere, del gas e del carbone.
La questione del disinvestimento sta mettendo sull’avviso questi gruppi, perché per decenni essi hanno potuto fare questo tipo di accordi con gli inquinatori senza battere ciglio. Ma oggi, come sembra, molte persone ne hanno abbastanza di sentirsi dire che la maniera migliore di combattere i cambiamenti climatici è di cambiare le loro lampadine e di comprare certificati di carbonio, mentre i grandi inquinatori continuano indisturbati. E molte cercano di portare la lotta direttamente contro le industrie che sono maggiormente responsabili della crisi climatica.
Hannah Jones, una degli organizzatori del movimento studentesco per il disinvestimento, mi ha detto: «Esattamente come i direttivi dei nostri college e delle nostre università ci stanno danneggiando non aggredendo attivamente le forze responsabili del cambiamento climatico, così agiscono i grandi gruppi verdi imprenditoriali. Essi ci hanno danneggiato cercando di preservare le preesistenti sacche di profitto del mondo, mentre si rifiutavano di affrontare i potenti interessi che stanno rendendo l’intero pianeta invivibile per tutta la popolazione mondiale». Ma, essa ha aggiunto, «ora gli studenti sanno ciò che le comunità che si opponevano alle attività estrattive sapevano già molti decenni fa: cioè che questo è un conflitto sul potere e sul denaro, e che tutti, perfino i grandi gruppi verdi, devono ormai decidere se sono con noi o con le forze che stanno distruggendo il pianeta».
Non sembra essere una domanda eccessiva. Io penso che se sta disinvestendo la Città di Seattle, perché il Wwf non dovrebbe fare la stessa cosa? Le organizzazioni ambientaliste non dovrebbero essere più preoccupate per i rischi umani ed ecologici provocati dalle imprese dell’energia fossile, più di quanto non lo siano per alcuni rischi immaginari per il loro portafoglio di azioni e titoli? E da ciò scaturisce un’altra domanda: cosa stanno facendo questi gruppi che raccolgono così tanto denaro come loro primo obiettivo? Se credono ai loro stessi scienziati, quello che stiamo vivendo è il decennio cruciale per cambiare radicalmente i meccanismi del clima. La TNC ha in programma di costruire un’Arca da un miliardo di dollari?
Alcuni gruppi, per fortuna, stanno raccogliendo la sfida. Un piccolo ma crescente movimento all’interno del mondo dei raccoglitori di fondi sta esercitando delle pressioni sulle grandi fondazioni liberali affinché mettano i loro investimenti in coerenza con quelle che sono le loro finalità dichiarate, vale a dire niente più imprese di energia fossile. E’ giunto il momento per le fondazioni, di «possedere cose in cui credono», dice Ellen Dorsey, direttore esecutivo della Wallace Global Fund. Secondo la Dorsey, la sua fondazione, che è stata uno dei maggiori donatori della campagna per il disinvestimento dal carbone, è ora “per il 99% fossil free e avrà effettuato interamente il disinvestimento entro il 2014.
Ma convincere le maggiori fondazioni a disinvestire sarà un processo lento, e i Gruppi Verdi – che sono almeno teoricamente responsabili verso i loro membri – dovrebbero certamente essere tra i primi su questa strada. E alcuni lo stanno già facendo. Il Sierra Club, ad esempio, ora ha definito una chiara politica contro l’investimento e a favore del disinvestimento nelle imprese dell’energia fossile (cosa che in passato non avevano fatto e che spesso aveva causato gravi conflitti negli anni scorsi). Questa è una buona notizia rispetto ai 15 milioni di dollari del Sierra Club, investiti in titoli trattati nella sfera finanziaria. Peraltro, l’organizzazione loro affiliata, la Sierra Club Foundation, dispone di un portafoglio di dimensioni ancora maggiori, con 61,7 milioni di dollari investiti, ed ha ancora in corso il processo per definire una completa politica di disinvestimento, secondo quanto ha reso noto il direttore esecutivo del Sierra Club, Michael Brune. Egli ha infatti affermato che «siamo profondamente convinti che possiamo ottenere lo stesso rendimento, se non addirittura uno superiore, dall’economia emergente basata sull’energia pulita, di quanto possiamo ottenere investendo nell’energia sporca come in passato».
Per lungo tempo, stabilire degli accordi con gli inquinatori era il modo con cui i gruppi verdi dimostravano la loro serietà. Ma oggi i giovani che chiedono di disinvestire – così come i gruppi di base che lottano contro l’energia fossile ovunque essa trovi origine, nelle miniere, nelle perforazioni, estratta con il metodo del fracking dagli scisti bituminosi, negli impianti dove viene bruciata, negli oleodotti o nelle petroliere – hanno una diversa definizione di serietà. Essi vogliono veramente vincere. E il messaggio inviato ai Grandi Verdi è chiaro: troncate i vostri rapporti con i produttori di energia fossile o anche voi diventerete come loro.
Fonte: The Guardian, Inghilterra (traduzione di A.C. per Comune-info)
Le ceneri di Legambiente
Proteste contro le grandi organizzazioni ambientaliste anche dalle nostre parti. Nei giorni scorsi, ad esempio, il Circolo di Legambiente Guidonia (Roma) si è sciolto per protestare contro la dirigenza nazionale, favorevole alla costruzione di un inceneritore di rifiuti dell’edilizia nella città (ormai la terza più grande del Lazio), già alle prese con i problemi per la qualità dell’aria, l’alta densità di popolazione, la presenza di attività industriali insalubri, lo stoccaggio di rifiuti, l’enorme volume di traffico pesante.
Scrivono in un comunicato quelli di Legambiente Guidonia: «Il pronunciamento della Direzione Nazionale di Legambiente è migrato verso una posizione a dir poco morbida e largamente possibilista sull’incenerimento di CDR o CSS da parte del settore industriale. Sembra, addirittura, che si sia appiattita sulla posizione dell’asse Clini/AITEC che privilegia i cementifici come primi destinatari del CSS. Non stupisce che la Buzzi-Unicem consideri gli attuali vertici nazionali dell’Associazione come i propri interlocutori privilegiati». Da qui la scelta di uscire dalla storica associazione ambientalista: «La coerenza e l’onestà intellettuale non può essere al servizio di una bandiera che, di fatto, è ormai divisa in due. Perché questa purtroppo è la realtà di Legambiente oggi. Da un lato ci sono i volontari, i tesserati, gli attivisti locali o regionali impegnati sul tema dei rifiuti, inceneritori, cementifici, inquinamento, malattie, degrado, minacce e dall’altro c’è un ufficio di “gestione” che dall’interno del parco di Villa Ada, tra alberi ed uccellini, interpreta la politica ambientale secondo versioni che, a nostro avviso, eludono quanto stabilito nel Congresso e propongono rimodellamenti organizzativi finalizzati ad un accentramento di potere e di controllo, inaccettabili anche nei partiti politici più scarsamente democratici. Alcuni rapporti diretti ambigui e i differenti trattamenti che l’attuale Dirigenza Nazionale di Legambiente riserva ad alcune di queste attività inducono a pensare alla presenza di eventuali conflitti di interesse ed inadeguatezza rispetto alle istanze dei territori».
Il gruppo di cittadini ambientalisti del Circolo di Guidonia Montecelio, pur rimanendo attivi nel territorio, dunque non agiranno più sotto la bandiera di Legambiente. Scrivono ancora al Circolo Legambiente Guidonia: «Dobbiamo riprenderci il diritto di programmare il nostro futuro, di plasmare con le nostre mani il mondo che vogliamo lasciare ai nostri figli. Rimanere inattivi e a volte imbelli o pensare che queste cose si possano fare virtualmente porta fatalmente alla perdita sia della qualità della vita che della dignità umana».
Avevo letto del circolo di Legambiente che si è sciolto. E ho anche sentito che la direzione nazionale dell’associazione sta facendo pressioni perchè si sciolga il comitato regionale del Lazio, ormai è una voce che gira molto qui in provincia di Roma. Non si capisce il motivo, forse il ceto industriale considera “gli attuali vertici nazionali dell’Associazione come i propri interlocutori privilegiati” come dicono quelli di Guidonia? Bisognerebbe indagare meglio! In un’email che circolava c’era il video della direttrice Moroni intervistata dalla Edison http://www.youtube.com/watch?v=caNmTFBXhqM.
scusami giovanni, perchè, non fanno iniziative con l’Eni? http://www.alternativasostenibile.it/articolo/il-progetto-energythink-eni-e-legambiente-1303.html
se ora oltretutto i loro circoli cominciano a sciogliersi e tu dici che fanno pressioni si vede che si sta superando il limite…
Spesso la dirigenza è molto lontana dalle espressioni di partecipazione locale ed ha degli interessi evidenti in campi anche commerciali con partecipazioni industriali, oltre alle note vicinanze soprattutto con il PD. Il mio esempio non riguarda le energie da fonte fossile ma le energie da fonte rinnovabile. Purtroppo, nonostante la mia favorevole attenzione verso le fonti energetiche rinnovabili e pulite, ci stiamo trovando nel mio paese e in paesi vicini dell’Emilia Romagna a dovere difendere i crinali montani con le unghie e con i denti dalla invasione di progetti di mega centrali eoliche che hanno performances del 10% bene che vada rispetto alla loro potenza in quanto la ventosità è minima e non costante e questo a fronte di impatti sul territorio devastanti, disboscamenti, nuove strade, piazzali, livellamenti di crinali, inquinamento acustico ed elettromagnetico, per non parlare del paesaggio. Mentre i circoli locali di Legambiente studiando i luoghi e i progetti proposti si dichiarano contrari, arrivano puntuali comunicati dalla sede regionale e nazionale che regolarmente se ne fregano dei cittadini e dei comitati che si formano.
Qui in Toscana il responsabile di Legambiente nazionale e regionale hanno spinto per l’eolico http://www.greenreport.it/_new/index.php?page=default&id=12913
poi è andata a finire così, con l’avviso di garanzia agli assessori
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/04/23/inchiesta-sugli-impianti-eolici-avviso-di-garanzia.html
Aggiungo, per chi non avesse letto il testo di Repubblica: “Il sospetto che European Wind Farms stesse conquistando ampi spazi di territorio per i suoi impianti era stato al centro nell’ottobre del 2011 di un’aspra polemica tra Legambiente e Italia Nostra toscane. Secondo la responsabile della comunicazione di Italia Nostra Mariarita Signorini, che all’epoca scrisse un comunicato durissimo in cui scriveva che «la responsabile della commissione energia di Legambiente Cecilia Armellini sarebbe stata anche la rappresentante della Carpinaccio srl, una delle società che fanno capo alla European Wind che ha molti (troppi) impianti eolici in Toscana>>”.
Armellini, in Toscana, è consulente delle aziende che investono nell’eolico. Un giorno si presentò in una conferenza stampa, attaccando la regione perché aveva negato i permessi a dei mega impianti, e con lei c’era tutta legambiente. Ovviamente la Regione ha chiesto chiarimenti su questo conflitto di interessi, specificando che comunque quegli impianti rovinavano la vita della fauna locale.