Un mese fa in Kenya ha preso forma improvvisamente un movimento di protesta popolare enorme promosso soprattutto da studenti. In un articolo molto letto, La grande protesta del movimento Gen Z, Ettore Marangi – missionario francescano che vive Deep Sea, uno degli slum più poveri di Nairobi – ha raccontato in modo splendido le prime giornate di protesta e di repressione, durante le quali sono state uccise 51 persone. Cosa resta di quelle insurrezioni? Un’intervista a Marangi.
Quali sono i frutti delle straordinarie proteste? Cosa resta oggi di quelle giornate?
I frutti sono diversi: prima di tutto c’è stato il noto e clamoroso ritiro della finanziaria a cui è seguito l’azzeramento del governo. Perfino il Fondo monetario internazionale si è visto costretto a riconoscere alcune sue responsabilità… Poi, non per caso, sono emerse diverse situazioni nelle quali la corruzione dei governatori ha condizionato le politiche in alcune contee e sono state anche denunciate le collusioni di numerosi leader religiosi. Al momento le proteste stanno andando ancora avanti, lontano dalle attenzioni dei media internazionale. Del resto il presidente Ruto ha 51 morti sulla coscienza, questo delegittima il suo tentativo di dialogo… Ruto sta anche cercando appoggio nella sua base e anche tra l’opposizione in parlamento. È chiaro che il divario con le posizioni di coloro che protestano si sta allargando sempre di più. Per ora tutti gli scenari sono possibili ma ora anche il mercato ha paura: lo scellino da un paio di giorni ha ripreso a scendere dopo mesi nei quali guadagnava punti sul dollaro perché il presidente obbediva alle richieste internazionali.
Come si organizza il movimento?
Il movimento resta prima di tutto un’onda di protesta, un grido contro che nasce dalla rabbia degli studenti. Ci sono continui gruppi di condivisione sui social e poi grandi raduni nelle strade ma anche concerti, ad esempio all’Uhuru Park di Nairobi, dove più volte sono state commemorate le vittime… Il movimento non smette di criticare i leader politici, anche coloro che dicono di essere vicini alle sue proposte. Al momento non è emerso un “fare sociale” alternativo: le richieste di collocano a livello di scelte politiche nazionali e di protesta. Intanto l’Alta Corte ha sospeso il provvedimento del governo con cui sono state vietate le manifestazioni a Nairobi e con cui è stata militarizzata la città: anche a livello istituzionale, dunque, cominciano ad esserci contraddizioni e scelte importanti sui temi della democrazia che contrastano con il governo. Un aspetto da tenere presente in queste giornate è quello dei saccheggi nei negozi e nei supermercati: si tratta di azioni estranee alla proteste, molti si interrogano sulle cause, probabilmente in alcuni casi sono azioni di infiltrati, sostenute da forze politiche dell’Uganda dove si teme che la protesta possa diffondersi… Qualcuno pensa che i saccheggi siano stati promossi perfino da organizzazioni sostenute dal governo keniano. Il movimento sta cercando di organizzarsi per proteggersi.
Ci sono legami con movimenti di altri paesi?
Sicuramente nel movimento prevale la cosiddetta cultura woke, che si è affermata con le proteste di Black Lives Matter unendo le questioni delle ingiustizie sociali, i problemi legati al razzismo e al sessismo. Le proteste sono sostenute da moltissimi keniani migranti che vivono in tanti paesi diversi.
Resta una protesta che trova nei social un grande sostegno organizzativo…
Non c’è dubbio, trionfano tutti i social network. Ci sono tanti gruppi di WhatsApp, spesso organizzati a livello territoriale, alcuni hanno anche con mille iscritti, ma malgrado questi numeri c’è un’interazione fortissima e continua. Anche X, Tiktok, Instagram e facebook sono molto utilizzati.
Che differenze ci sono tra quanto accade a Nairobi e gli altri territori del Kenya? Negli slum è cresciuta la consapevolezza rispetto alle proteste?
Ormai le proteste sono diffuse in tutto il paese: se negli ultimi giorni sono meno partecipate quelle organizzate a Nairobi, a Mombasa invece, dove vivono un milione e mezzo di persone, sono cresciute e spesso la polizia ha abbandonato le strade per l’alta partecipazione… Anche nelle baraccopoli si comincia a parlare di quanto sta accadendo e ci sono stati gruppi che hanno cominciato a partecipare alle manifestazioni, ma resta ancora bassa la consapevolezza.
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