Il progresso ha fatto sparire dalla nostra vita di ogni giorno gli alberi, le stagioni, le terre coltivate, l’agricoltura contadina, le relazioni. E le stufe a legna. Ma davvero continuiamo a credere che progresso e qualità della vita siano sinonimi?
di Bianca Bonavita
Dicembre peluria di grano sul freddo volto acerbo della terra, quando il sole non è che un lume tra i cespugli e anche gli alberi più pudichi si decidono finalmente a togliersi le vesti ingombranti. Il loro denudarsi denuda lo sguardo, la casa diventa una postazione sguarnita, un avamposto troppo facile da espugnare, troppo facile per il vento da spazzare via.
Guardo fuori dalla mia finestra e già non so più immaginare quel mondo intimo e protetto vestito di verde che celava e avvolgeva, morbido e frusciante. Ora lo sguardo non fatica a intrufolarsi nel vuoto reticolato dei rami, in quello scarabocchio di bambina stilizzato contro il cielo. Forse è per questo che si muore ogni inverno, perché lo sguardo va lontano, nudo, e attraverso la morte apparente dei rami intravede ciò che le altre stagioni tengono celato con merletti e colori.
Sembra non debba finire mai.
Le giornate si accorciano, le ore di luce e di lavoro si riducono, la fatica allenta con cautela la sua morsa. È inverno. Nella stufa crepitano l’acacia e il carpino, avvolgono le cose di un calore intimo e profondo. È un calore diverso da quello dei termosifoni, più caldo, più umano.
Davanti alla stufa si leggono libri, si raccontavano storie, si scartocciano gli agli per la semina e si preparavano i vinchi, nel cui nome è già iscritto il loro destino di vincolare, di legare lo slancio impulsivo dei giovani tralci a un sostegno sicuro.
Davanti alla stufa si perde lo sguardo nel cuore intenso e accecante delle fiamme e l’inverno sembra passare più in fretta. Ogni ceppo di legna sacrificato è un attimo in più conquistato alla notte. Le stufe parlano e si muovono nella stanza, sono ombre che non fanno paura, sono compagne di sventura. E che gioia, la mattina, il tepore delle braci ancora accese dell’ultimo ciocco di legna rimboccato la sera prima con cura insieme alle coperte.
I termosifoni scaldano ma non avvolgono i corpi di calore, se ne stanno muti e immobili appesi alle pareti. Ci si dimentica di loro. Gli inverni sono interminabili davanti a un termosifone e le città deserti grigi e senza presagi di primavera.
Scostando le tendine di città si può intravedere un ritaglio d’azzurro o di bianco tra le inferriate, un piccione appollaiato sul cornicione della casa di fronte e il ramo di un abete natalizio, piantato in un cortile, che si è fatto largo tra le case.
Certo, nelle città si possono incontrare in quantità alberi spogli e ci si può anche cullare nella rassicurante illusione di partecipare al ciclico rinnovarsi delle stagioni. Ma è soltanto un capriccio del nostro corpo, un sogno, il residuo di un vivere a braccetto con la natura delle cose; in città le foglie cadute sono d’impiccio perché non c’è terra che le possa accogliere e far diventare humus. Devono essere soffiate via dai marciapiedi con grandi tubi di plastica e risucchiate da enormi aspirapolvere motorizzati che forse le porteranno, pietosi, in una grande compostiera.
Non c’è, nelle città, lo splendore opaco della nudità invernale, ma soltanto nuda opacità. Opachi sono i passanti, opachi i vestiti e le macchine, opachi gli sguardi, opaco questo tempo di irrimediabili solitudini, di diffidenze stratificate, di lucciole disperse, vagolanti dentro notti troppo buie. Il loro lume intermittente è inghiottito dalla distanza che le separa, dal frastuono dei dispositivi, dal sovrapporsi dei congegni e degli ingranaggi, dall’infittirsi di reti sempre più invisibili e inconsistenti dentro cui ogni lucciola è incapace di distinguere il baluginio delle altre, e quando lo distingue non può afferrarlo, destinata a restare sola, aggrappata fino alla fine a un sogno di danze sfavillanti e di concerti luminosi, al tempo perduto di quel fibrillare sparso e complice nella rugiada.
In quanto a solitudini la campagna non è molto differente. Un tempo lo era, nel bene e nel male. Ora non lo è più, se non in rare occasioni sopravvissute al mutamento, alla rivoluzione, al miracolo o alla catastrofe, o come si vuole chiamare l’abbandono delle terre. Le voci nei campi e tra i filari sono sempre più rare, i canti scomparsi. Giostre di richiami che parlavano di miserie e fatiche, ma pure di semplici gioie.
I campi sono quasi sempre vuoti di esseri umani, tutt’al più li si vede rinchiusi dentro le cabine dei trattori a manovrare comandi con un paraorecchie che li protegge dal frastuono. Avanti e indietro, avanti e indietro, per ore ed ore, in una perenne corsa contro il tempo, in uno spazio ovattato di pensieri, per campi sterminati, a cucire il vestito sempre nuovo che la terra sfoggerà per gli aeroplani.
È un’agricoltura su misura del loro sguardo; è un’umanità che si guarda da lontano.
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