Cosa possiamo fare per creare qui e adesso un mondo nel quale dare spazio alla possibilità di affrontare e superare i conflitti in maniera nonviolenta? Le Donne in nero non hanno la soluzione. Tuttavia, nei villaggi della Serbia come in quelli della Palestina e dell’Afghanistan, oppure a Piacenza, cominciano con l’incontrarsi: lo fanno per avere momenti nei quali parlare dei problemi della vita di ogni giorno, fare una merenda insieme, immaginare una gita fuori città o una festa al parco con altre donne migranti… Cronaca di un ordinario quanto potente incontro con un gruppo di donne ucraine

Incontrarsi è sempre una magia. Comincia con mille paure, diffidenze, domande: riusciremo a capirci? Troveremo un terreno comune, o ideologie e aggressività ci bloccheranno, ci metteranno a disagio, ci faranno richiudere ciascuna nei suoi meccanismi di difesa?
Poi si comincia. Qualcuna si espone per prima. Cosa dirò? Cosa tacerò? L’incontro l’abbiamo preparato con cura: con la mente ringraziamo Chiara Ingrao, che ci ha suggerito di non partire dalla questione armamenti sì/armamenti no, che è un vicolo cieco. Parlare di noi come donne, chiederci della nostra vita quotidiana, qui e in Ucraina, dei nostri mille problemi.
Chi comincia parte dal racconto della storia delle Donne in Nero: israeliane e palestinesi, la difficoltà del parlarsi, donne serbe, bosniache, croate, e vorrebbe dire di più, donne afghane, iraniane ecc. Ma si sente subito crescere la tensione: “Se le donne palestinesi hanno accettato di parlare con quelle israeliane, noi con le russe non parleremo mai!”, “Se siete qui perché volete aiutarci, mandate più armi!”.
Per fortuna c’è Betta, che con le sue intuizioni, la sua professionalità e la sua determinazione gentile ci riporta al testo che abbiamo scritto per convocare l’incontro:
Care amiche, come donne, sappiamo che la guerra, tutte le guerre, sono una mostruosità che infierisce soprattutto sulle persone più inermi e meno in grado di difendersi: donne, bambini, anziani, poveri, disabili.
Il dolore, fisico e psicologico, che ne deriva, i feriti, i mutilati, le vedove e gli orfani, la distruzione di case e coltivazioni che si lascia alle spalle sono il prezzo terribile che le persone devono pagare quando la loro terra è invasa e lacerata.
Ci siamo schierate dalla parte delle vittime in molti conflitti che il mondo vede o non vuole vedere. Abbiamo parlato con donne di nazionalità diverse, spesso appartenenti a paesi schierati su fronti contrapposti.
Ora vorremmo parlare con voi, ma soprattutto ascoltare: ascoltare le vostre storie, sapere di voi e del dolore che vi accompagna, sentirvi parlare delle vostre famiglie, dei vicini, degli amici rimasti in patria. Ascoltarvi raccontare delle vostre speranze per il futuro, quando finalmente la pace permetterà al vostro popolo di riprendere il suo cammino.
Crediamo alla possibilità di affrontare e superare i conflitti in maniera nonviolenta, siamo contrarie a ogni guerra e vorremmo solo esservi vicine, e trovare un possibile terreno di incontro e solidarietà.
E per fortuna la nostra mediatrice ucraina, capace di accogliere e rasserenare, con il suo corpo e la sua arte e integrità di mente, cuore ed esperienza professionale, ci offre una vera dimostrazione di cosa può essere una mediazione interculturale, e non solo linguistica… con bella disinvoltura nel fare gli “onori di casa”!
Poco a poco, le nostre titubanze nell’affrontare una situazione così delicata si sciolgono grazie allo “stile” della nostra mediatrice, spontanea e serena, non il ghiaccio che magari avevamo temuto, vittime di quello stereotipo verso chi viene da “oltre cortina”.
Un piccolo regalo della sorte: dalla porta entra una donna molto giovane, sola e spaesata al cospetto di donne più mature; non ucraina, famiglia d’origine romena, interesse puro. Ci racconterà di non avere nostalgia per la Romania, si trova bene qui, ci è nata.
Rinforzata da questa gratificazione, mi aspetto che il resto sarà una passeggiata. Cerco di creare empatia, fra noi Donne in nero occhiate di intesa, anche se un po’ di disagio circola ancora.
Stefania sembra disinvolta nella presentazione del nostro movimento (si è preparata diligentemente), quando fa improvvisa irruzione una donna ucraina, evidentemente prevenuta nei confronti delle nostre intenzioni. Betta trasecola, la situazione sembra sfuggirle di mano. I timori, a fatica tenuti sotto controllo, subito spiattellati, a demolire il progetto preparato con tanta cura e discrezione. “Ma non è così”, “Siamo brave…” , ” Non intendiamo giudicarvi”, “Desideriamo conoscervi”. Le attenzioni riposte nei preparativi da perfette padrone di casa, tazzine e pasticcini su delicata tovaglietta, mi appaiono ridicola messa in scena. L’impeto sembra irreparabile. Eppure, incredibile, la nostra perseveranza ha la meglio. Con delicatezza ritorniamo sui nostri cauti passi.
Poi, il resto scivola fra parole di donne, mamme, zie, scambiate fuori dalla scuola e al campo giochi.
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Le meno timide cominciano a raccontare di sé, dei problemi che si trovano ad affrontare qui in Italia. Scopriamo che, dopo i primi mesi in cui le donne provenienti dall’Ucraina avevano binari di accoglienza privilegiati, ora molti canali si sono chiusi. Avere un visto di soggiorno e una tessera sanitaria non è più sufficiente: ci vuole una carta d’identità per accedere a un affitto e a un lavoro, e spesso la burocrazia rimanda e poi rimanda ancora, e la situazione non si sblocca.
Per fortuna, quello che stiamo cercando di comunicare alle nostre amiche ucraine è che noi Donne in nero nate a Piacenza o vissute qui tanti anni, conosciamo delle persone, possiamo usare un po’ di influenza per aiutarle. Giovanna telefona immediatamente all’avvocata Michela Cucchetti, esperta di diritti dei migranti, che può aiutarle con le questioni legali.

Si parla dei figli: se piccoli, spesso non si riesce a trovargli un posto alla scuola dell’infanzia, e con i bambini appresso la mamma non può trovare un lavoro. Qualcosa forse possiamo fare, ma non adesso che le scuole stanno per chiudere. Si parla anche dei centri estivi.
Qualcuna invece ha figli adolescenti: e se i bambini piccoli si adattano, e fanno amicizia facilmente, gli adolescenti, strappati alla loro casa, alla loro città, ai loro amici, risentono fortemente del trauma dello sradicamento, si chiudono e rischiano la depressione. Per il momento ci viene in mente solo di organizzare delle gite di gruppo, per esempio a Bobbio (borgo della Val Trebbia), per distrarli un po’. Si può fare.
Anche la più ostile, quella che all’inizio voleva più armi, ha capito che siamo solidali, che non giudichiamo nessuna, che dove possiamo vogliamo renderci utili: e ci racconta che la sua vicina di casa è russa, ma lei le parla, perché non pensa che l’aggressione del suo paese contro l’Ucraina sia giustificata. Ed è proprio lei a chiudere il dibattito, prima di dolci e pasticcini, con un’idea fantastica: perché non organizziamo una grande festa, in un parco, con tutte le donne immigrate anche dagli altri paesi, e tutte portano ciò che la loro creatività è in grado di fare, balli, canti, composizioni di fiori… e via inventando.
Ce l’abbiamo fatta. Il nostro incontro ci lascia un senso profondo di sorellanza, la voglia di andare avanti, il desiderio di consolidare i rapporti. E la sensazione che tante altre attività organizzate più «a freddo», in realtà, non ci assomiglino. Questo è il nostro mondo.
bravissime DIN di Piacenza: noi di BG avevamo tentato un approccio, ma era andato male. Niente pace, ma NATO e armi.