Qualcuno dei lettori più continui di Comune ricorderà certamente la partecipazione di Hugo Blanco a una nostra Taverna Comunale del maggio 2015, un’esperienza intensa quanto indimenticabile con la profondità e la tenacia delle parole e degli sguardi di quell’anziano contadino dal cappello di paglia, condannato a morte e sfuggito all’esecuzione nel 1962. Oggi Hugo Blanco Galdós ha 88 anni ma è ancora il leggendario direttore di Lucha Indígena, mensile web che esce in Perù di cui pubblichiamo l’editoriale di dicembre in cui si spiega ancora in modo lucido e straordinario un tema complesso e largamente frainteso come quello delle identità indigene: “Indigeno significa quello che è di qui, quello che ha la sua origine qui, in questo luogo. Allora essere indigeno ha a che vedere soprattutto con un impegno con lo spazio e la convivenza condivisa. Si è indigeno nella misura in cui si partecipa alla realtà materiale e sociale in cui abitiamo”. Il numero di Lucha indígena (lo trovate qui in pdf) è ovviamente centrato sulla grande mobilitazione cominciata prima di Natale. Chiede lo scioglimento del parlamento peruviano, un governo provvisorio delle organizzazioni popolari e chiama”a partecipare territorialmente, ad organizzarsi con coloro che condividono l’acqua, il cibo, l’aria, la convivenza. Non importa se questo territorio è un quartiere, una comunità, una valle, una fabbrica”. Spiega, inoltre, che lo Stato è il problema perché “non stiamo cercando un nuovo caudillo, il prossimo rimpiazzo. Che questa rabbia degna che cresce e occupa le piazze ci spinga a creare assemblee permanenti in ogni territorio, assemblee dove si discuta una soluzione che ci coinvolga e ci appartenga, dove non regnino lamentele e petizioni, ma l’esaltazione della nostra forza, la certezza che è possibile governarsi da soli, decidere delle nostre vite. È lì che ci sono i nostri bambini e bambine, coloro a cui appartiene la terra. Daremo a loro, o sì o sì, il mondo che potremmo costruire oggi”

Colpiti da proiettili alla testa, più di 20 morti! L’ultimo governo nazionale di questo sistema manifestamente crudele e ladro, pretende di mettere a tacere le diverse azioni di protesta iniziate il 7 dicembre.
Stanno imprigionando centinaia di persone, le picchiano e criminalizzano con denunce che comporteranno anni di prigione. Hanno attaccato centri dove ci si riunisce e famiglie nelle proprie case, hanno rovesciato le grandi pentole comuni delle mense popolari di strada e poi hanno infiltrato agenti di polizia per creare il caos e giustificare gli omicidi. Tutte strategie istituzionalizzate dalla dittatura fujimontesinista (il riferimento è al regime sanguinoso e corrotto di Alberto Fujimori e al suo “degno” ministro Vladimiro Montesinos, ndr) che oggi continuano a servire il potere economico del Paese.
Il fatto è che sulla grande diversità delle azioni autoconvocate in ogni paese o città c’è un’unità molto chiara: la mobilitazione sociale in Perù è contro il potere economico che tiene in mano lo Stato. Per questo chiediamo oggi la chiusura del Congresso e l’inizio di un Governo Provvisorio delle organizzazioni popolari oggi impegnate nella lotta di resistenza contro il neofascismo, un governo che avvii un cambiamento profondo e reale in Perù.
In Perù lo Stato non esiste per il venditore ambulante perseguitato nei viali, né per il pescatore artigianale che non può pescare, né per l’insegnante costretto a insegnare un programma alienato e fuori contesto. Lo Stato peruviano è una sanguisuga per il commerciante. Per una ragazza incinta, per una donna maltrattata, lo Stato è sempre un incubo crudele.
All’operaio e a chiunque eserciti un’attività professionale, il governo come datore di lavoro non garantisce nulla, anzi lo sfrutta e lo sottopone al sovrasfruttamento delle multinazionali capitaliste. A meno che, ovviamente, non sia – dopo molte umiliazioni – inserito nel libro paga, stia zitto e obbedisca. Lo Stato dei capitalisti ne ha allevati a migliaia nell’inefficienza grazie al nepotismo, lo sport nazionale. Con lo stesso slogan dello “stipendio sicuro”, dalla polizia – l’istituzione creata per sottomettere il popolo – vengono umiliati per renderli obbedienti e se resistono agli uomini armati in divisa, addestrati ad uccidere, viene ordinato di dissanguarli.
Il Perù non esiste nemmeno per l’allevatore che lamenta in aymara la morte delle sue pecore in ogni stagione di gelate, né per il contadino che supplica in quechua un sostegno per il suo campo di granturco o per quello inaridito di patate.
Per i Kukama del Cuninico, per gli Achuar e i Wampis, per la gente dell’Espinar o della Valle del Tambo, lo Stato peruviano è un truffatore con una valigetta che, quando si arrabbia, tira fuori la pistola per uccidere. La compagnia petrolifera, la compagnia del legname, la compagnia mineraria sono il mafioso con gli occhiali scuri che non si sporca le mani perché tanto ci pensa ogni governo a svolgere il proprio ruolo di Sciacallo.
Ricordiamo che questi omicidi a sangue freddo, gli stati di emergenza, la perdita dei diritti, gli infiltrati, i raid per far piazza pulita si susseguono senza sosta, da decenni, nei territori occupati dalle compagnie minerarie, petrolifere, agroalimentari, forestali, ecc.
Però quel che accade sta svegliando le persone. C’è un “finalmente, dannazione”, pieno di speranza che deve riempire l’aria tra le montagne e le selve e riempire i polmoni di chi lotta per vincere. Per trovare giustizia bisogna ricorrere ai tribunali internazionali, per difendere la foresta bisogna rivolgersi alle organizzazioni internazionali, per trattare con l’azienda bisogna parlare con la sua sede in Europa o in Canada, per farsi operare bisogna aspettare le ONG di medici stranieri, per educarsi alla diversità bisogna aspettare un progetto che venga da fuori. L’attuale Costituzione non garantisce il rispetto di alcun diritto fondamentale, il codice civile non concede titoli ai nostri territori e il codice penale ci condanna. Sempre e solo il popolo, mai i potenti.
Di fronte a qualsiasi conflitto, i popoli indigeni ricorrono alla Convenzione 169 dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. La legge nazionale non ci tutela, lo Stato è un problema in più, ma in realtà è il problema.

Adesso che la speranza portata da questo “governo del popolo” è stata gettata in terra – ancora una volta, amica mia, renditi conto – adesso che sappiamo che i pubblici ministeri, i deputati e la grande stampa, non c’è dubbio, sono mercenari e sicari al servizio del potere economico, sta a noi chiederci dove dovrebbero portarci le manifestazioni, la rabbia che non si trattiene più, il dolore per i morti.
Abbiamo un esempio: il Cile. L’indignazione accumulata per decenni si è trasformata in una protesta di oltre tre mesi che si è conclusa con un’Assemblea costituente e una Costituzione appena progressista, ma sempre piena delle solite cose, specialmente contro i Mapuche, che poi alla fine è stata pure bocciata alle urne. I media e il potere economico si sono preoccupati di dimostrare l’influenza della stampa e dei social network. Hanno spaventato la gente, hanno tirato fuori il suo lato più conservatore e il No ha vinto. Andrebbe aggiunto che il “governo del popolo” cileno non ha mai smesso di mandare i militari nei territori indigeni, gli arresti e i massacri sono continuati.
Indigeno significa ciò che viene da qui, che qui ha la sua origine, in questo luogo. Essere indigeni, quindi, significa aver a che fare soprattutto con un impegno per lo spazio e la convivenza condivisa. Uno è indigeno nella misura in cui partecipa alla realtà materiale e sociale che abita.
In questo senso, Lucha indigena chiama a una partecipazione territoriale, da organizzare con coloro che mettono in comune l’acqua, il cibo, l’aria e la convivenza. Non ha alcuna importanza se questo territorio sia un quartiere, una comunità, una valle, una fabbrica.
Non stiamo cercando un nuovo caudillo, il prossimo rimpiazzo. Che questa rabbia degna che cresce e occupa le piazze ci spinga a creare assemblee permanenti in ogni territorio, assemblee dove si discuta una soluzione che ci coinvolga e ci appartenga, dove non regnino lamentele e petizioni, ma l’esaltazione della nostra forza, la certezza che è possibile governarsi da soli, decidere delle nostre vite. È lì che ci sono i nostri bambini e bambine, coloro a cui appartiene la terra e noi daremo loro, sì o sì, il mondo che potremmo costruire oggi.
Traduzione per Comune-info di marco calabria
Lucha indigena, La versione originale del numero di dicembre 2022 della rivista

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