In questi giorni di corsa alla sanatoria e di ripresa delle pratiche di rinnovo dei permessi di soggiorno e di concessione delle cittadinanza, alcune macchie lasciate da vecchie “colpe” tornano alla luce nella vita dei migranti. Per loro, solo per loro, ci sono macchie indelebili e colpe imperdonabili. Del resto, ricorda Alessandra Ballerini in un articolo su Repubblica Genova*, il nostro legislatore ha inventato persino il reato di “clandestinità” che punisce chi fa ingresso senza invito e chi permane, vale a dire respira, nel “sacro suolo italico” senza un permesso di soggiorno

Imperdonabile. Ogni errore commesso da uno straniero, non importa se presunto o reale, se obsoleto o recente, se grave o irrisorio, se meramente segnalato o definitivo, se estinto, pendente o riabilitato, ogni errore, resta indelebile e imperdonabile.
C’è chi ha pagato il suo debito con la giustizia in termini di sanzioni o di privazione della libertà, chi ha patteggiato, chi ha portato con onore a termine il percorso di affidamento in prova, chi ignaro di tutto scopre dell’esistenza di vecchie sentenze di condanna emesse in contumacia per fatti inesistenti o rimossi dalla memoria.
Tutti, quando scoprono che quella macchia li ha segnati e li segnerà fino alla fine dei loro “giorni italiani”, restano atterriti.
“Ho già scontato la mia pena” è la frase che ti senti ripetere più spesso almeno chi è stato effettivamente protagonista del processo e delle sue conseguenze. Ma la pena, tocca spiegare loro, resta attaccata comunque addosso, incancellabile e insanabile, qualsiasi sia stato l’inciampo, il marchio della caduta resta indelebile.
Tempo fa, in un incontro tra aspiranti volontari per l’assistenza di persone ristrette o ex detenute, nel tentativo di prendere atto e arginare i nostri naturali pregiudizi, ci siamo sottoposti tutti al vergognoso quesito: ma io non ho mai, sbagliato, non ho mai commesso illeciti? o semplicemente non sono mai stato “beccato”?
Si poteva quasi guardare i film della memoria dei singoli partecipanti: chi pensava ai furtarelli da adolescente, chi alla guida in stato di ebrezza dopo qualche festa, chi ricordava manifestazioni non autorizzate o occupazioni di immobili, spesso per nobili motivi, chi ripensava con un brivido a incauti acquisti di borse firmate o occhiali da sole sui marciapiedi del centro, i più pettegoli prendevano in considerazione i loro trascorsi da “diffamatori”, e i più rancorosi qualche vecchia rissa o un alterco con divise troppo zelanti.
Tutti noi avevamo i nostri scheletri nell’armadio di cui fortunatamente nessuno ci aveva mai chiesto conto. Ma nessuno di noi era straniero.
Per loro, per gli stranieri, il nostro legislatore è riuscito persino a inventarsi il reato di “clandestinità” che punisce chi fa ingresso senza invito e chi permane, vale a dire respira, nel “sacro suolo italico” senza un permesso di soggiorno; per costoro è prevista anche la detenzione amministrativa in gabbie dove troppo spesso si muore di botte o reclusione come avvenuto ancora pochi giorni fa nel CPR di Gradisca di Isonzo (leggi Violenze al confine orientale, ndr).
In questi giorni di corsa alla sanatoria e di ripresa delle pratiche di rinnovo dei permessi di soggiorno e di concessione delle cittadinanza, quelle macchie lasciate da vecchie “colpe” tornano alla luce.
Parlo con persone straniere in Italia da tantissimi anni, studenti e lavoratori, padri di famiglia, o figli nati qui, tutti increduli. Un errore, un solo errore e tutte le fatiche, i percorsi, i legami, le professionalità acquisite, vengono irrimediabilmente perdute. Non è giusto, dicono. E in effetti tocca spiegare e dolorosamente ammettere che la legge che pure studiamo e della quale a volte ci si innamora, sempre più spesso fa a botte con la giustizia. Ma fortunatamente non sempre vince.
Alessandra Ballerini è avvocata civilista specializzata in diritti umani e immigrazione. Tra i suoi libri La vita ti sia lieve (Melampo edizioni), storie di migranti e altri esclusi.
*Pubblicato su Repubblica di Genova (qui con l’autorizzazione dell’autrice).
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