
L’arrivo dei migranti nel nostro paese ha costituito l’occasione di conoscere altre “culture”, altri modi di vita, concezioni della malattia e della cura. Per chi si occupa di salute mentale ha rappresentato anche la possibilità di esplorare mondi e modi di esprimere la sofferenza psichica differenti dal nostro.
Basti pensare ad esempio al corpo, veicolo visibile e tangibile, che comunica dolori non solo fisici. “Io ho male qui” in determinate culture come in Africa (dove il male anche se invisibile assume forme concrete) spesso indica un modo di “fisicizzare” un disagio che in molti casi ha origini psichiche.
Spesso alle problematiche che i “nuovi utenti” presentano ai nostri servizi, si risponde con mezzi inadeguati e con atteggiamenti mentali volti a creare solo nuove categorie. Come accadde qualche tempo fa presso gli psichiatri statunitensi che inventarono la folk pychiatry per studiare gli indiani!
Forse sarebbe importante riuscire a “pensare l’altro“ in maniera differente, come persona e non categoria, per non correre il rischio di farlo diventare “il diverso di turno” (migrante, malato mentale, etc.). È importante soprattutto nei tempi attuali in cui il dibattito scientifico sembra solo arroccarsi su se stesso e difendersi più che ad aprirsi al “nuovo”. È necessario costruire una relazione “acategoriale” a tutto campo e co-creare le condizioni per un incontro aperto anche a possibili momenti di scontro fra rappresentanti di mondi diversi. La domanda è se si è disposti a mettersi in gioco, ad acquisire nuovi codici culturali, a sospendere qualcuno dei propri. Scrive Gilles Deleuze (2002):
Non si tratta più di interpretare, tradurre in significati e significanti. No, non si tratta di questo. C’è un momento in cui bisogna pur condividere, in cui ci si deve mettere nella condizione del malato, partecipare in qualche modo del suo stato. È, questa, una forma accentuata di simpatia, di empatia, di forte identificazione? È sicuramente qualcosa di più complesso. Sentiamo infatti la necessità di una relazione che non sia formalistica e che andrebbe forse definita con l’espressione “essere imbarcato con”…
Per noi, impastati e imbevuti di una certa cultura è difficile cambiare atteggiamento mentale, avvezzi come siamo a dovere sempre inglobare chi ci sta di fronte in un ottica atta solo a categorizzare i sintomi e a “molecolarizzare” il disagio. A questo proposito, forse sarebbe il caso di non dimenticare l’origine del termine “diagnosi”, e del suo etimo greco dia-gnosis, che vuol dire conoscenza attraverso. Essa necessariamente apre un percorso e non può racchiudere in brevi momenti i vissuti drammatici di un viaggio frequentemente all’origine di traumi e ferite non sempre visibili. Nella costruzione dell’incontro è utile cambiare il nostro modo di osservare e il nostro di posizionamento, come ci suggerisce Edouard Glissant (1990) con il suo “sguardo opaco”. Con esso egli voleva raffigurare un pensiero non trasparente ma fondato sull’opacità in quanto
“non è più necessario ‘comprendere’ l’altro, cioè ridurlo al modello della mia stessa trasparenza, per vivere con lui o per costruire con lui”.
Lo scrittore e attivista martinicano, nato nel 1928, è stato fra i fautori della creolizzazione, intesa come il risultato imprevedibile dell’incontro tra culture che si incrociano. La concezione di Glissant di creolizzazione non rappresenta un processo negativo, una contaminazione come perdita di una presunta purezza, ma indica la dinamicità della cultura, del suo divenire, del suo continuum, della sua ricchezza. Glissant va oltre, sottolineando il carattere dialogico-processuale che privilegia l’interazione e quindi la nascita di un qualcosa “in divenire” che non si può inglobare. L’incontro diventa l’avventura conoscitiva della relazione.
Anche un altro antillano, l’antropologo Ferdinando Ortiz, partendo dalle osservazioni su come a Cuba coesistevano cultura spagnola, creola, caraibica etc, aveva coniato il termine transculturacion per indicare l’attraversamento di culture in cui si dà e si riceve – “toma y daca“ – Esse si influenzano vicendevolmente con pari dignità, senza gerarchie e senza prevaricazione di una sull’altra (Ortiz, 2025).
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Il quadro finora descritto ci aiuta meglio a dare un senso al mondo variegato di un malato psichico non distaccandolo dal suo mondo culturale e sociale. Per conoscerlo meglio è necessario poterlo vedere oltre l’ambulatorio o l’ospedale, nel suo contesto, nella vita quotidiana, nella casa, fra i suoi familiari, nei momenti di crisi. Spesso un piccolo segmento di vita che “arriva” in terapia, legato a fenomeni culturali talvolta per noi incomprensibili, non è sufficiente. Mai, come in questo caso, di fronte a disagi “impastati” con elementi culturali presenti nel bagaglio dei nuovi utenti, è necessario sforzarsi per unirli al “resto”, al “tutto”, consapevoli che non sempre si riescono a percepire i rapporti fra lo sfondo e la cornice (religiosa, geografica. sociale etc.) se non si è provvisti di un’opportuna capacità di ampliare gli orizzonti della cura. La realtà contemporanea con la quale veniamo costantemente in contatto è per sua natura molteplice: ciò che si osserva è in continuo movimento ed evoluzione e la cura non sfugge a tutto ciò. Essa è, infatti, il prodotto di continui adattamenti e ri-adattamenti ad inter-azioni non solite, a elementi che sembrano intrusi al processo terapeutico e che quindi vengono percepiti come disordinati a un certo livello e a un altro racchiudono, invece, un tipo di ordine che non sempre viene percepito come tale. Mutuando Glissant e il suo “pensare con il mondo” potremmo tentare anche di “pensare con il paziente”.
Alfredo Ancora, psichiatra e psicoterapeuta, direttore scientifico dell’Université Populaire “E. De Martino D. Carpitella” di Parigi, è condirettore della rivista “Transculturale”. Ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura
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