Nuove strade, nuove autostrade, nuove grandi opere inutili, a cominciare dal Tav. Il dopo lockdown è una triste ricetta che rimbalza da almeno quarant’anni. Lo choc esistenziale e collettivo da Coronavirus per alcuni non c’è mai stato. “Nuovi movimenti sociali dovranno prendere la scena – scrive Lorenzo Guadagnucci -, senza perdere altro tempo…”

Durante i mesi del confinamento, in pieno choc esistenziale e collettivo da Coronavirus, si è pensato, parlato, scritto moltissimo su come sarebbe stato il “dopo”, sulla lezione impartita dal pianeta Terra alla specie umana, sull’urgenza di cambiare rotta al fine di prevenire future emergenze sanitarie, sul nesso fra la pandemia e l’incontrollato consumo di risorse naturali. Niente dev’essere più come prima, si diceva; non possiamo tornare alla normalità, perché la normalità è il problema. Il tutto, ovviamente, nella cornice di una crisi profonda, forse finale, della civiltà industriale, alle prese con un collasso climatico spaventoso e pressoché sfuggito a ogni controllo.
Ebbene, nel nostro piccolo paese, un paese che però si vanta ogni giorno dei suoi meriti nelle arti, nel pensiero, nella cultura attraverso i secoli, il “dopo” sembra essere un insieme di provvedimenti governativi detti di “semplificazione”. Si tratta, in buona sostanza, di vecchi, alle volte vecchissimi progetti “infrastrutturali”, concepiti in una logica “sviluppista” da anni Sessanta e Settanta: nuove strade, nuove autostrade, nuove grandi opere per lo più inutili (in testa, addirittura, la vetusta Tav Lione-Torino, ormai indifendibile sul piano tecnico-progettuale). In controluce, si intravede un progetto di società cristallizzato in quel mondo malato, letteralmente asfissiato dalle emissioni nocive, che è all’origine della pandemia.
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Quest’idea così arretrata, così mortifera di sviluppo – uno sviluppo slegato da qualsiasi idea di bene pubblico e di benessere collettivo, uno sviluppo senza futuro – è la certificazione del fallimento irreversibile di un intero ceto politico e di una classe dirigente imprenditoriale del tutto inadeguata ai tempi presenti. Potremmo dire che stiamo vivendo una fase di anacronismo: tutti sappiamo che la via maestra ci spinge a battere strade nuove, lontano dalla cultura del consumo di beni inutili e dell’estrazione incontrollata di risorse non rinnovabili, ma chi comanda – in politica, nella finanza, nel ceto imprenditoriale, nei mezzi di comunicazione – vive nel passato ed è ancorato a un modello ormai incompatibile con il presente e il futuro delle popolazioni viventi.
La via d’uscita è un cambiamento profondo degli orizzonti collettivi, quindi del senso comune, e il punto di partenza non può essere che una mobilitazione vasta e prolungata dei cittadini più attivi e più consapevoli. Nuovi movimenti sociali dovranno prendere la scena, senza perdere altro tempo. Dobbiamo uscire dalla surreale “fase anacronistica” che stiamo vivendo.
Come si fa a prendersela con la “classe dirigente imprenditoriale” se a quella stessa classe dirigente si continua a chiedere di “creare posti di lavoro”?
Come si fa a prendersela con la “classe dirigente politica” se è quella che si è scelto di eleggere?
Il lavoro occorre farlo nelle piazze, per le strade, nelle parrocchie, ai giardinetti comunali, nelle discoteche, davanti alle cattedrali del consumo.
E’ lì che si incontrano le persone che sono annebbiate dal modello:
lavora per procurarti il reddito che ti serve per comprare e consumare qualcosa che altri hanno prodotto lavorando per procurarsi il reddito.
E’ lì che dobbiamo provare a rompere il circolo vizioso.
E’ lì che occorre aiutare a comprendere che il valore delle cose non sta nel loro prezzo e che quelle che valgono di più non hanno (ancora, per fortuna) un prezzo.