I limiti e i punti di forza del concetto di economia circolare, i poveri e la giustizia ambientale, il futuro della lotta ai cambiamenti climatici. Abbiamo incontrato Joan Martinez Alier, economista ecologico e docente all’Università di Barcellona

Joan Martinez Alier, economista ecologico e professore emerito all’Università Autonoma di Barcellona, è stato insignito in novembre a Roma del premio Balzan 2020 per “le sfide ambientali: risposte dalle scienze sociali e umane”, la cui consegna l’anno precedente non era stata possibile a causa delle restrizioni per il Covid-19. Martinez Alier è tra i fondatori – assieme a Herman Daly, Ann Mari Jansson e Robert Costanza – dell’economia ecologica, disciplina che integra una varietà di prospettive multidisciplinari volte a supportare l’ipotesi formulata nel 1971 da Nicholas Georgescu-Roegen, secondo la quale l’economia industriale è per natura lineare e perciò dissipativa.
Il suo libro più importante è L’ecologia dei poveri (2002); in esso si contesta l’idea che l’attivismo ecologista e la preoccupazione per l’ambiente siano un’esigenza delle classi medio-alte, che emergerebbe una volta che le necessità materiali – di reddito, salute e istruzione – siano state soddisfatte. Il libro è tradotto in italiano da Jaca Book, a cura di Marco Armiero. In Italia, Martinez Alier ha partecipato all’esperienza della rivista Capitalismo Natura Socialismo, diretta da Giovanna Ricoveri e Valentino Parlato. Una sua lectio magistralis si terrà a Pisa il prossimo giugno, all’interno della conferenza della European Society for Ecological Economics.
Recentemente, il concetto di economia circolare ha preso piede come un nuovo modo di migliorare la sostenibilità dei mercati. Viene generalmente descritto come un processo auto-rigenerante che coinvolge anche la condivisione, il prestito, il riutilizzo, la riparazione, il ricondizionamento e il riciclaggio di materiali e prodotti. Qual è la sua opinione al riguardo? È ancora semplicemente una questione di promesse speculativo-finanziarie, oppure si tratta di un concetto che vale la pena monitorare e persino reclamare, per esempio attraverso un riferimento alla decrescita e allo sviluppo di economie popolari?
Se si parte dall’idea di economia ecologica e dalla sua critica alla linearità del mainstream, allora bisogna riconoscere che l’economia industriale non è circolare. È entropica, ha bisogno di espandere le frontiere dell’estrazione delle materie prime e anche le frontiere dello smaltimento dei rifiuti, causando danni e conflitti. Negli ultimi centoventi anni, la popolazione umana è cresciuta di cinque volte (da 1,5 a 7,5 miliardi), mentre gli input trattati nell’economia globale (biomassa, combustibili fossili, materiali da costruzione, metalli) sono cresciuti di tredici volte, da 7,5 a 100 Gt (gigatons) all’anno. Quindi, quello che possiamo vedere è che l’economia sta diventando sempre meno circolare. Al contrario, sta diventando sempre più entropica! Non possiamo riciclare l’energia, e i materiali vengono riciclati solo in piccola parte. Anche un’economia industriale in contrazione dovrebbe attingere a nuove forniture di energia e materiali dalle frontiere estrattive e produrrebbe rifiuti, per esempio in forma di quantità eccessive di gas serra.
A partire dal 2015, ha coordinato l’Atlante della Giustizia Ambientale, un imponente lavoro di mappatura e connessione dei conflitti ecologici. Negli ultimi mesi sembra che questi temi siano diventati più importanti in Italia, per quanto riguarda i dibattiti politici di movimento – anche grazie al suo contributo a Pluriverso: dizionario del post-sviluppo, intitolato proprio “giustizia ambientale”. A cosa rimanda questo concetto?
Con Ramachandra Guha nel 1997 abbiamo pubblicato il libro Varietà di ambientalismi, spiegando che c’era un forte movimento nei paesi del Sud globale a favore dell’ambiente perché i contadini poveri e anche le popolazioni indigene dipendono dalla terra, dall’acqua, dall’aria per il loro sostentamento. Abbiamo successivamente iniziato a raccogliere molti casi in un Atlante della Giustizia Ambientale, che ora ha più di 3.500 voci in tutto il mondo. Questi conflitti mostrano le relazioni tra economia ecologica ed ecologia politica e anche l’esistenza di un movimento mondiale per la giustizia ambientale. In questi conflitti si manifestano diversi valori, economici, ambientali, diritto alla terra, valori di sussistenza. Quindi la domanda fondamentale è: chi ha il potere di escludere certi criteri di valutazione, di scegliere chi è coinvolto nelle consultazioni pubbliche? Chi ha il potere di semplificare la complessità e nascondere l’ingiustizia e l’incertezza? L’ingiustizia ambientale ha a che fare con queste relazioni di potere – fortemente diseguali – legate all’uso e alla ridistribuzione delle risorse.
La COP 26 di Glasgow si è dimostrata incapace di imporre un’agenda politica basata sulla giustizia climatica. Qual è la sua opinione riguardo al processo politico dell’UNFCCC, finora? Inoltre: ritiene che il movimento per la giustizia climatica troverà un modo per aumentare la sua efficacia politica nel breve termine?
Penso che per fermare o diminuire il cambiamento climatico, occorra contare su cinque fattori. Il primo: una trasformazione tecnologia che implichi l’abbandono dei combustibili fossili, e che affronti il problema della scarsità dei propri composti di base, terre rare, nuovi metalli. Il secondo: decrescita nel Prodootto interno lordo dei paesi ricchi, e abbandono di questo indicatore a favore di indicatori sociali e fisici alternativi. Il terzo: fine della crescita della popolazione. Il quarto: politiche pubbliche redistributive e accordi internazionali che supportino questi cambiamenti senza che il loro peso ricada sui più poveri. In questo senso le COP sono state inutili dal 1995 ad oggi. Il quindo, infine: riconoscere la centralità dei movimenti sociali che chiamiamo LFFU – Leave Fossil Fuels Underground – per fermare l’estrazione del carbone, gli oleodotti, ecc. Queste mobilitazioni sono di solito motivate da ragioni locali, ma sempre più spesso riguardano anche il cambiamento climatico globale.
Intervista a cura di Maura Benegiamo e Emanuele Leonardi
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Mi sembrano tutte seghe mentali. Bisogna partire dai rapporti di forza reali: il movimento di lotta dei lavoratori, dei giovani (FFF), dei disoccupati, dei quartieri popolari. Solo essi sono antagonisti a questo modello di sviluppo, energivoro e a emissioni elevate.