La lettera di uno studente indignato perché le università sono diventate aziende e l’accesso, salvo poche eccezioni, è riservato ad alcune persone che hanno più diritti di altre. Nella società dei consumi, scrive, si paga anche un posto all’università. E poi a che serve, realmente, la selezione? Sarà un medico migliore quello che totalizza un punteggio più alto nel test di ammissione? Non sono forse il cuore, l’umanità, la volontà che faranno di un buono studente un buon medico? Chiunque nega a un giovane la possibilità di studiare e di offrire la propria mente alla comunità, chi considera un liceale come un archivio di nozioni pronte all’uso, chi umilia la scuola e la subordina alle leggi del mercato, si aspetti la rivoluzione, conclude il nostro giovane lettore. Difficile pensare che abbia del tutto torto, o no?
È invalso ormai da un po’ di anni l’uso becero e offensivo di bandire dei concorsi per l’ingresso all’Università. Sono test da pagare salatamente per ricevere un sì o un no alla propria domanda di iscrizione. Si tratta, prima di tutto, di un uso offensivo perché mette in dubbio il senso di un intero percorso liceale, svilisce il valore di un diploma che spesso si guadagna con sudore e pretende di valutare l’attitudine allo studio, formula moderna, con una singola prova. Come se gli esami e le verifiche continue a cui ognuno di noi studenti è stato sottoposto per anni non fossero già sufficienti.
È offensivo, poi, perché a pagamento: il primo approccio agli studi universitari si paga come un biglietto per entrare a una festa, magari a un circo converrebbe dire: ogni ateneo vende la sua offerta come la migliore, fa mostra di sé come a una sfilata, attrae i suoi clienti con luci spettacolari e si permette persino di selezionarli. Ma la cultura è una cosa seria, non possiamo bistrattarla così. La cultura è di tutti, è per tutti, lo stato che la offre solo a pochi, non solo è uno stato che non vale ma è anche uno stato criminale. È un crimine, infatti, togliere al futuro buoni medici, linguisti, giuristi o ingegneri, bloccati a vent’anni da un test a crocette.
Le Università sono diventate aziende. Questo ormai è sotto gli occhi di tutti. Dovevano essere un baluardo dietro cui difendersi, un cavallo di Troia, una speranza, sono diventate aziende. Si accettano studenti diplomati fino a che si è capaci di contenerne, si accettano in un numero limitato perché i docenti non bastano, si fanno pagare test, corsi supplementari, sciocchezze parauniversitarie, per fare rozzamente “cassa”.
Ma tutto questo non stupisce, rientra perfettamente nei meccanismi delle nostra società dei consumi. Si consuma anche un posto all’università, e si paga, soprattutto.
Che tutto questo sia vergognosamente anticostituzionale, invece, non lo si dice. Il diritto allo studio, sacrosanto e sudato per cinque anni di scuole superiori, la fatica del conseguimento di un diploma, la costruzione di una mente, di una coscienza, di una personalità civile vengono umiliati senza ritegno da meccanismi di becera selezione. Ma selezione di che? Sarà un medico migliore quello che totalizza un punteggio più alto nel test di ammissione? Non sono forse il cuore, l’umanità, la volontà che faranno di un buono studente nel corso dei suoi studi un buon medico?
La volontà, il cuore, la passione, i test a crocette non sanno misurarli. È soprattutto l’intelligenza che non sanno affatto misurare, la cosiddetta attitudine citata sopra. Test parziali, limitanti, spesso banali e nozionistici: insomma un modo come un altro per fare sbarramento, un modo come un altro per mascherare l’incapacità del nostro sistema universitario di sostenere le iscrizioni, le spese, e le esigenze delle future generazioni di studenti. È una barbarie amministrare un’Università badando solo ai bilanci.
Questo è commercio del sapere. Tanto è che mi verrebbe quasi da dire: all’Università non andiamoci, formiamoci altrove, troviamo maestri irriverenti che si ribellino e ci educhino fuori dal sistema, abbandoniamola quell’Università che tanto vilmente si sta adeguando o che si è già irreparabilmente adeguata. Bisogna avere il coraggio di cambiarla o di abbandonarla: gli studenti devono ritrovare un’ unità, sentirsi un corpo unico, sapersi ribellare e non stare più a testa bassa, egoisticamente, alcuni contenti di essere entrati nel proprio corso di studi, altri rasseganti a non entrarci mai.
Voi docenti, poi, non piegatevi di fronte all’umiliazione della mia generazione, non rimanete attaccati al prestigio dei vostri posti, rompete le righe: è l’ora della protesta. Quella dei test di ammissione è una contraddizione concreta ed evidente, lottare contro di essi un’occasione per riprendere in mano con rabbia le redini di un’istituzione e ricordare che, seppur bistrattati, i cittadini sono sovrani, almeno sulla carta.
Dobbiamo urlare che ogni richiesta di iscrizione respinta è l’atto di violenza più meschino e criminale che uno stato possa compiere verso i suoi futuri cittadini: è un furto e un’offesa.
Tutto il delicatissimo lavoro fatto negli anni liceali viene svilito da una graduatoria, da un punteggio. All’università non ci entra chi già conosce la biologia, la chimica, le lingue o la matematica, ci entra chi queste discipline le vuole studiare. E chi vuole studiare ci deve entrare per diritto, e lo si deve accogliere per dovere. Siamo così ottusi da pensare che per cinque anni di liceo si sia studiato il greco, il latino, la chimica o la storia dell’arte per averne una conoscenza nozionistica o fine a se stessa?
Al liceo si studia tutto ciò per formare coscienze, per costruire uomini, per capire che matematica, fisica, chimica o letteratura sono tutti mondi meravigliosi che ci permettono di intuire che senso abbiamo, chi sia l’uomo, e chi voglia diventare.
Non c’è conoscenza che valga senza umanità. E l’umanità, questo davvero è certo, i test non la sanno misurare. Qualcuno disse che la cultura è ciò che si sa dopo aver dimenticato quel che si è studiato, e al liceo, badate bene, si fa cultura.
Chiunque nega a un giovane la possibilità di studiare e di offrire la propria mente alla comunità, chi considera un liceale come un archivio di nozioni pronte all’uso, chi umilia la scuola e la subordina alle leggi del mercato – mentre dovrebbe essere una rocca, un vessillo di civiltà -, chi fa le graduatorie per misurare con un banale e parziale test le capacità di uno studente e il suo diritto di proseguire i propri studi secondo la sua volontà, chiunque faccia tutto questo, si aspetti una rivoluzione.
Dove i bilanci valgono di più di una mente formata e libera, l’aria è pesante, ma non c’è niente che convenga di più a un totalitarismo che una mente pensante di meno.
Marina Mastropierro dice
È bello sapere che esista una nuova generazione pronta alla lotta.
Lucio Barone dice
Questo è commercio del sapere.
Vincenzina Pace dice
A tirarla, viene sempre il momento in cui la corda si spezza….
Filippo dice
E facciamo sí che si spezzi presto.
Francesca Elisa Sapienza dice
Siamo in piena contraddizione: da un lato si grida allo scandalo perché in Italia ci sono pochi laureati rispetto agli altri Paesi europei, dall’altro si rende difficoltoso l’accesso all’Università.
Nunziatella Cavalieri dice
Filippo ha del tutto ragione.
Stefania Pedonesi dice
Sono totalmente d’accordo e sono anni che dico che questi test di ingresso andrebbero cancellati, tutti hanno diritto di provarci. Io proporrei una cosa ed è la seguente: chiunque deve avere accesso alla facoltà prescelta e stabilirei un tot di esami da fare ogni anno, se sei in regola e li passi bene altrimenti vai fuori. Anche perché l’università ha un costo ed è giusto eventualmente fare spazio ad altri se questo è il problema, ma non darei la possibilità solo per un test d’ingresso, secondo me è discriminatorio e contro la libertà.
Persino alcuni corsi di un anno o due anni di alta formazione post diploma, che oggi sono molto gettonati e ben organizzati con tanto di stage nelle aziende, sono talvolta a numero chiuso dopo un test d’ingresso. Mi sto informando ora perché mio figlio sta facendo la quinta superiore: è un vero incubo!